Il quadro più generale: quattro crisi
Negli ultimi anni due gravissime crisi hanno investito, in forme e misure diverse, l’intero pianeta. La prima è stata la «Grande Recessione», esplosa negli Stati Uniti tra il 2007 e il 2008 e poi dilagata in Europa e nel resto del mondo negli anni immediatamente successivi, con pesantissimi effetti economico-sociali. La seconda, di proporzioni ancora più gravi e tuttora in corso, si è aperta al principio del 2020 con la pandemia di Covid-19 che, oltre a provocare un’emergenza sanitaria di enormi dimensioni, è tornata a colpire vigorosamente le economie e le società di tutti i paesi del mondo. Tra queste due vere e proprie catastrofi di scala planetaria, altre due emergenze hanno investito con particolare intensità l’Europa. La prima è stata la cosiddetta «crisi dei rifugiati» del 2015, strettamente connessa alla guerra civile in Siria, che ha prodotto imponenti flussi migratori verso il Vecchio Continente. La seconda, pressoché contemporanea, è stata prodotta dalla riemersione del terrorismo globale di matrice islamista, che ha colpito diversi paesi europei, e in particolare la Francia, a partire dal 2015, in evidente correlazione con la nascita e l’offensiva dell’Isis, lo Stato islamico. Gli effetti politici di queste crisi, susseguitesi senza soluzione di continuità, sono stati molteplici e assai rilevanti. Con un dato in comune, quanto meno nei sistemi democratici più avanzati: una crescente sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, dei partiti e della classe politica in genere, considerata incapace di mettere in campo efficaci strumenti di «difesa della società» e percepita come una «casta» autoreferenziale dedita ai propri esclusivi interessi. Deriva da qui lo spettacolare successo dei più svariati movimenti «populisti» e il ritorno in grande stile di «nazionalismi» e «sovranismi» di ogni sorta, che hanno saputo raccogliere, almeno in termini di consenso, un bisogno di «protezione sociale» avvertito sempre più acutamente da persone che si sentono minacciate da tutto: dalle turbolenze dei mercati, dalla perdita di status, dallo spettro della povertà, dal meticciamento generato dai flussi migratori, dal terrorismo internazionale, dal progresso tecnologico, dalle malattie, dai cambiamenti climatici, e via enumerando. Da qui, ancora, una generale instabilità politica, che in molti casi ha trasformato in radice sistemi politici consolidati da decenni. Non sono state ovviamente soltanto le crisi sopra indicate a produrre l’insieme di questi effetti. Esse, tuttavia, hanno senz’altro impresso una fortissima accelerazione a processi e trasformazioni che hanno investito più in generale la politica – e soprattutto i regimi democratici – nell’età della globalizzazione. In questa prospettiva, il caso dell’Italia, pur con tutte le sue peculiarità, può essere considerato esemplare. Di esso, fino al 2014, ci siamo già in parte occupati in un precedente articolo. Vale tuttavia la pena cercare di capire come è ulteriormente cambiato da allora il sistema politico italiano in relazione alle trasformazioni economiche e sociali che hanno investito il nostro Paese. Per farlo è necessario volgere lo sguardo un po’ più indietro.La società italiana dal 1989 a oggi: cinque trasformazioni
Negli ultimi trent’anni – prendiamo come riferimento il biennio 1989-1991, gli anni della caduta del Muro di Berlino (1989) e poi della disintegrazione dell’Unione Sovietica (1991) – la società italiana è stata riplasmata da cinque principali trasformazioni. L’adesione al Trattato di Maastricht. La prima, accolta in principio con grande entusiasmo, è stata messa in moto tra il 1992 e il 1993 dall’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht e al progetto dell’unione monetaria europea, che si è poi concretizzato con l’entrata in vigore dell’euro tra il 1999 e il 2002. Da allora il Belpaese – fin dagli anni Cinquanta tra i più attivi promotori del processo di integrazione – ha dovuto confrontarsi in modo sempre più stringente con gli imperativi del «vincolo esterno», soprattutto sul piano dei conti pubblici. Ha dovuto cioè mettere in atto politiche di bilancio ispirate a principi di rigore e di austerità che, soprattutto in un’Europa a trazione tedesca, ne hanno sensibilmente limitato la sovranità economica, con effetti di tutto rilievo soprattutto sulle politiche fiscali, di welfare e del lavoro. Il «patto di stabilità», il Fiscal Compact, inserito in Costituzione nel 2012, nel pieno della Grande Recessione, ha segnato il punto di non ritorno di questo processo. È vero che esso è stato temporaneamente sospeso nel contesto dell’attuale crisi pandemica e che probabilmente dovrà essere ripensato a fondo per i prossimi anni. Rimane il fatto che sul piano decisivo del bilancio dello Stato – il piano sul quale si decide quante tasse estrarre dai cittadini e come redistribuire le risorse – l’Italia, come tutti i Paesi dell’eurozona, è vincolata a esigenze di equilibrio monetario europeo ormai inaggirabili, che in un paese come il nostro, gravato da un elevatissimo debito pubblico, pesano moltissimo. È per questa via «europea» che l’Italia è definitivamente entrata nel mondo severo della globalizzazione, nel quale vincono i più forti e a dettar legge sono i mercati, la grande finanza internazionale, le agenzie di rating e le grandi organizzazioni economiche sovranazionali come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Banca centrale europea (BCE). Ed è contro questa situazione che hanno poco per volta alzato la voce, con crescente successo, movimenti populisti e sovranisti di ogni orientamento. Soprattutto durante e dopo la Grande Recessione. Lo choc migratorio. La seconda trasformazione ha investito, prima in sordina e poi in modo ben visibile, la struttura demografica della società italiana. In questo quadro contano soprattutto due fenomeni concomitanti. Il primo è la netta decrescita demografica del paese, di cui ci offrono un quadro molto chiaro le statistiche dell’ISTAT, e in particolare i dati relativi al «saldo naturale», vale a dire alla differenza, calcolata per anno e in valori assoluti, tra i nati vivi e i morti. Quei dati ci dicono che l’Italia è diventata poco per volta un paese a crescita zero e anzi in significativa decrescita, con un saldo negativo che negli ultimi anni è andato assestandosi intorno alle 150-190.000 unità: è come se ogni anno il Belpaese perdesse un numero di persone equivalente agli abitanti di una città di medie dimensioni come Modena o Parma. Un dato, questo, che dovrà essere ulteriormente aggiornato al ribasso ai tempi della pandemia. Accanto a questa netta decrescita, tuttavia, va collocato un secondo rilevantissimo fenomeno: la crescita del «saldo migratorio», vale a dire la differenza, di nuovo anno per anno e in cifre assolute, tra il numero di immigrati ed emigrati. Proprio a partire dal principio degli anni Novanta – quando iniziarono a sbarcare sulle nostre coste decine di migliaia di albanesi – quel saldo è andato infatti crescendo in modo sensibile, portando i migranti censiti sul nostro territorio dalle poche centinaia di migliaia della fine degli anni Ottanta ai quasi 6 milioni di oggi: poco meno di un decimo della popolazione complessiva oggi residente nella penisola. In questo modo, l’Italia, paese tradizionalmente di emigrazione, è diventata in un tempo relativamente breve un paese di immigrazione. È diventata, anzi, una delle principali frontiere dei flussi migratori provenienti dall’Est dopo la caduta dei comunismi e poi dal Sud del mondo: flussi generati dalla ricerca di un po’ di benessere, dalla fuga dalla povertà e, sempre più spesso, da guerre, Stati dispotici o falliti e catastrofi climatiche. In questo modo, il tema delle migrazioni – come in molti altri paesi europei e del mondo – è diventato uno degli argomenti più roventi dell’agenda politica nazionale, ulteriormente esasperato dai dispositivi europei definiti dai trattati di Dublino e di Schengen, i quali impongono ai paesi di prima accoglienza di farsi carico dei migranti che entrano nei propri territori. Lo dimostra la serie pressoché ininterrotta di leggi e provvedimenti – Martelli (1990), Turco-Napolitano (1998), Bossi-Fini (2002), Maroni (2009), Minniti (2017), Salvini (2018-2019) – che hanno incendiato il dibattito tra le forze politiche, divise tra prospettive di accoglienza e di chiusura, di regolarizzazione e di criminalizzazione dei migranti, soprattutto quelli illegali o clandestini. Il tutto, sullo sfondo di fenomeni diffusi di xenofobia e di vero e proprio razzismo, resi ancora più acuti dall’offensiva del terrorismo islamico, che ha contribuito a rendere, nella percezione di molti, lo straniero un potenziale «nemico assoluto». Il declino economico. La terza trasformazione riguarda l’economia italiana, che fin dagli anni Novanta è rimasta prigioniera di uno strisciante declino, registrato – sia pure imperfettamente – dai dati del prodotto interno lordo (Pil). Quei dati, infatti, mostrano che, dopo l’«età dell’oro» e del miracolo economico (gli anni Cinquanta e Sessanta), prolungatasi poi nell’«età dell’argento» (gli anni Settanta e Ottanta), l’Italia è entrata, a partire dagli anni Novanta, in una sorta di «età del bronzo». In un’età, cioè, oscillante tra stagnazione e crisi, di debolissima crescita e talora di vera e propria decrescita, ulteriormente aggravata prima dalla Grande Recessione e poi dagli effetti dell’attuale pandemia. Quinta tra le potenze più sviluppate del mondo nella seconda metà degli anni Ottanta, l’Italia è così scesa in quella classifica al dodicesimo posto all’inizio del secondo decennio del XXI secolo. Le ragioni endogene di questo declino sono riconducibili alla zavorra di un debito pubblico da tempo fuori controllo, alle inefficienze della macchina burocratica dello Stato, alla complessità e alle lentezze del sistema della giustizia, alla persistenza di una endemica corruzione pubblica e privata, alla presenza della criminalità organizzata. Il dato decisivo, tuttavia, è la peculiare forma su cui si è assestato il capitalismo italiano negli ultimi decenni: un «capitalismo tascabile» – come viene definito – fondato su medie e piccole imprese talora di grande successo anche a livello internazionale (il made in Italy), ma a basso valore aggiunto e sostanzialmente assente in tutti i principali settori innovativi e ad alta tecnologia dell’economia globale quali la telematica, le biotecnologie e le energie rinnovabili. È con questi molteplici fardelli che il Belpaese si è trovato ad affrontare le due crisi devastanti della Grande Recessione e poi della pandemia. La conseguenza è stata una rilevante crescita delle diseguaglianze, del tradizionale divario tra il Nord e il Sud, della disoccupazione, del disagio sociale, della povertà relativa e anche assoluta. Il tutto, con effetti sociali disastrosi, anche in confronto ad altri Stati europei di grandezza e forza in qualche modo comparabile. Il mutamento dei valori. In connessione con quanto si è detto fin qui – ed è la quarta trasformazione – sono andati lentamente e poi impetuosamente cambiando i valori, gli orientamenti, le aspettative e dunque le culture politiche delle persone e dei gruppi sociali. Le fiduciose certezze della «società affluente» sono state progressivamente sostituite da un clima di pesante insicurezza e disorientamento, che ha colpito soprattutto una vasta classe media impoverita e spaventata, la quale ha visto declinare e talora crollare il proprio status. I lavoratori hanno iniziato a percepire – e spesso a sperimentare concretamente – la precarietà della propria condizione, minacciata dalla disoccupazione tecnologica, dai capricci dei mercati, dalla delocalizzazione delle imprese, dalla cosiddetta «flessibilità» in entrata e in uscita. Le giovani generazioni si sono trovate imprigionate nel dramma della disoccupazione e della sottoccupazione, nella consapevolezza che, anche con livelli di istruzione più alti, assai difficilmente potranno raggiungere il livello di benessere dei propri genitori. Gli anziani, che fortunatamente vivono più a lungo, si sono ritrovati a scoprire la fragilità della propria condizione, soprattutto quando subentrano la solitudine, le malattie e le necessità dell’assistenza. Moltissime persone, poi, soprattutto tra i ceti meno agiati, hanno iniziato ad avvertire come una crescente minaccia l’esplosione del fenomeno migratorio, l’avanzata dell’«idraulico polacco», la trasformazione di pezzi consistenti dei centri urbani in terre di nessuno in cui domina l’illegalità e il disordine. In questo quadro, ai valori «post-materialisti» della società del benessere – orientati alla soddisfazione dei bisogni «secondari» del successo personale, dell’autostima, del riconoscimento, della qualità della vita, anche di quella del pianeta – è subentrato un prepotente ritorno dei «valori materialisti» e dei bisogni «primari» della sopravvivenza fisica, del salario, della sicurezza, acuiti al massimo grado – ancora una volta – dalla Grande Recessione e poi dalla crisi pandemica. La rivoluzione digitale. A questo ritorno ai «valori materialisti» – ed è la quinta trasformazione – ha fatto da contraltare la prepotente «dematerializzazione» della vita provocata dalla «rivoluzione digitale»: dallo sviluppo incredibile delle telecomunicazioni e dalla straordinaria diffusione di personal computer, telefoni cellulari e smartphone perennemente connessi al mondo turbolento e anarchico della Rete, nel quale trascorriamo ormai tutti – al netto del digital divide – un numero impressionante di ore al giorno. Un mondo che offre incredibili opportunità di sviluppo e conoscenza ma anche altrettanto straordinarie possibilità di manipolazione. Si tratta con ogni evidenza di una rivoluzione strepitosa e onnipervasiva, che orienta e plasma nuovi modelli di informazione, comunicazione, socialità e partecipazione, con effetti di enorme rilievo sui processi di costruzione della personalità e di formazione dell’opinione pubblica. In questo quadro, al mondo diventato velocemente vetusto della televisione e della videopolitica, che già aveva fatto emergere il cosiddetto «homo videns», si è di fatto sovrapposto, se non del tutto sostituito, il mondo dei social, dei tweet, della comunicazione immediata e orizzontale, che ha alimentato sogni e incubi di ogni sorta, modificando in radice, nella direzione di un crescente «direttismo», i modi stessi di pensare e praticare la politica. Le forze che hanno saputo cogliere tempestivamente gli effetti di questa trasformazione – in primo luogo il Movimento 5 Stelle e poi la Lega di Matteo Salvini – ne hanno tratto enormi vantaggi.La sesta trasformazione: la politica tra «Seconda» e «Terza Repubblica»
Le cinque grandi trasformazioni di cui abbiamo fissato i tratti essenziali hanno avuto rilevantissime ricadute sul piano politico. Portate al punto di rottura dagli effetti della Grande Recessione piombata sull’Italia tra il 2010 e il 2011, esse hanno prodotto, tra il 2013 e il 2018, un vero e proprio terremoto, per molti aspetti paragonabile a quello che tra il 1989 e il 1994 aveva portato al crollo della «Prima Repubblica» (1948-1994). Si è così radicata l’idea che, dopo l’esperienza in ultima analisi fallimentare della «Seconda Repubblica» (1994-2018), abbia infine preso corpo, a partire dalle elezioni politiche del 2018, una nuova e assai instabile «Terza Repubblica» (2018-oggi). Per quanto imprecise, queste denominazioni sono ormai entrate nel dibattito pubblico e, pur con le pinze, possono essere utilizzate anche in questa sede.Mario Monti al Quirinale nel novembre 2011 (crediti: Wikipedia)
Il prologo: il governo Monti. Il prologo di questa transizione dalla Seconda alla Terza Repubblica va senz’altro collocato nell’esperienza del governo Monti: un governo di tecnici, esperti e professori fortemente voluto dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nell’ora più buia della Grande Recessione, entrato in carica nel novembre 2011 e rimasto alla guida del Paese fino alle elezioni politiche del 2013. Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo e possiamo quindi essere sintetici, peraltro con qualche elemento di giudizio in più fornito da quanto è successo in seguito. L’esperienza di quel governo – che ha importanti anche se parziali analogie con l’attuale governo semi-tecnico di Mario Draghi – rileva per due ragioni essenziali. La prima è che essa ha suggellato in modo molto chiaro il fallimento dei partiti e dell’intera classe politica della Seconda Repubblica di fronte all’emergenza della crisi economica prodotta dalla Grande Recessione. Per due anni, infatti, le «normali» dinamiche della democrazia dei partiti sono rimaste «sospese» in favore di un «governo tecnico-istituzionale» che ha imposto al paese scelte durissime e assai impopolari in materia di welfare, lavoro, pensioni, etc., in piena sintonia con le richieste di risanamento dei conti pubblici dettate dall’Unione europea, dalla BCE, dai mercati e dalle grandi organizzazioni economiche e finanziarie internazionali. Con ogni probabilità – ma non esistono controprove – politiche diverse avrebbero portato il paese al completo collasso economico e sociale. È un fatto però – ed è questa la seconda ragione dell’enorme rilievo di quell’esperienza di governo – che proprio in quei due anni sono maturate prima in sordina, poi nelle piazze e infine nelle urne, le condizioni di un rivolgimento completo degli assetti politici della Seconda Repubblica. Il governo dei tecnici ha così segnato l’inizio di un impetuoso «momento populista». Il Governo Letta nel giorno del Giuramento al Quirinale insieme al Presidente della Repubblica Napolitano (Crediti: Wikipedia) Le elezioni politiche del 2013. Il dato è emerso con estrema chiarezza nelle elezioni politiche generali del 2013, nelle quali il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, sino ad allora del tutto irrilevante se non in qualche marginale realtà locale, ha ottenuto lo stratosferico risultato del 26% circa dei consensi (circa 9 milioni di voti), di fatto eguagliando i risultati dello schieramento di centro-sinistra (gravitante attorno al Partito democratico) e di quello di centro-destra (gravitante attorno al Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi). Si è trattato di un risultato eccezionale. Per due ragioni principali. La prima è che divenne allora improvvisamente il primo partito italiano un «non-partito» sviluppatosi su un blog per iniziativa di un comico di successo e poi sceso nelle piazze nei cosiddetti «V-Day» (o Vaffa-Day), con un programma animato da visioni confuse di democrazia diretta, tipicamente «anti-partitico» e «populista», deciso a scardinare i meccanismi della democrazia rappresentativa e a promuovere il riscatto e la rivincita del «popolo» contro le élites politiche, economiche e tecnocratiche che, a suo dire, lo avevano ripetutamente ingannato e poi abbandonato al suo destino nell’ora più buia della crisi economica. La seconda ragione è che, con la spettacolare affermazione del M5S, il sistema politico italiano cambiò repentinamente natura: alla dinamica tipicamente «bipolare» della Seconda Repubblica, che dal 1994 aveva visto competere e contrapporsi due schieramenti maggioritari di centro-sinistra e centro-destra, subentrava una complicata Italia «tripolare», divisa cioè in tre grandi poli politici di forza sostanzialmente equivalente e, almeno in via di principio, inconciliabili tra loro. In questa situazione, data l’assoluta indisponibilità del M5S a qualsiasi alleanza con chicchessia, si prospettava con ogni evidenza l’estrema difficoltà di costruire una maggioranza parlamentare capace di esprimere un governo solido e in qualche modo coerente. La XVII Legislatura (2013-2018): la transizione dalla Seconda alla Terza Repubblica. È esattamente questa difficoltà che doveva emergere con nel corso della XVII Legislatura, durante la quale si consumò definitivamente il passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica attraverso una crisi sempre più manifesta dei partiti tradizionali del centro-destra e del centro-sinistra. Lo si vide fin dal principio, in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica nell’aprile 2013 che, bloccata da veti incrociati di ogni tipo, riportò al Quirinale per un secondo mandato Giorgio Napolitano, fatto del tutto inedito nella storia repubblicana. Anche la formazione del nuovo governo incontrò seri ostacoli. E fu nuovamente il Presidente della Repubblica a sbloccarla. Divenne infatti primo ministro Enrico Letta, alla guida di un litigioso e poco affidabile governo di «larghe intese» o di «grande coalizione» sostenuto dai competitors di un tempo: il Partito democratico e il Popolo della Libertà, a cui si aggiunse Scelta civica, una formazione sorta al principio del 2013 per iniziativa dell’ex premier Mario Monti. Si trattava, in sostanza, delle stesse forze che avevano sostenuto, sia pure obtorto collo, il governo dei tecnici tra il 2011 e il 2013. Forze politiche, dunque, ormai ampiamente invise a una società stremata dai sacrifici e dall’austerità, nei confronti delle quali i ruggenti 5 Stelle potevano avere – ed ebbero in effetti – buon gioco. Questo equilibrio precario fu definitivamente sconquassato da ulteriori sviluppi. Il primo fu il ritiro del Popolo della Libertà dalla compagine governativa e dalla maggioranza parlamentare tra il settembre e l’ottobre del 2013: una mossa dettata dalla «naturale» incompatibilità tra centro-destra e centro-sinistra ma anche, e in ampia misura, dai guai giudiziari di Silvio Berlusconi, condannato per frode fiscale, interdetto dai pubblici uffici, dichiarato incandidabile alle elezioni sino al 2019, privato del suo seggio senatoriale, e addirittura affidato ai servizi sociali. Fu questa l’occasione per un significativo rimescolamento delle carte. Una parte del centro-destra, sotto la leadership di Angelino Alfano, diede vita al Nuovo centrodestra staccandosi dal Popolo della Libertà (che tornò a chiamarsi Forza Italia) e restando al governo e nella maggioranza parlamentare. Nel frattempo, nel febbraio 2014, Matteo Renzi, segretario del Pd, sempre con il sostegno di Napolitano, sostituì Enrico Letta alla guida dell’esecutivo. Dicembre 2016: il simbolico "passaggio della Campanella" tra il dimissionario Matteo Renzi (a dx) e Paolo Gentiloni (a sx) (Crediti: Wikipedia) Renzi poté per qualche tempo imprimere un certo dinamismo al suo partito e al suo governo. Alle elezioni europee del 2014, infatti, riuscì a ottenere uno straordinario 40% dei consensi. La sua premiership risultò tuttavia molto deludente in vari campi, in particolar modo nelle politiche del lavoro (il Jobs Act) e in quelle sulla cosiddetta «buona scuola». A decretarne la fine, tuttavia, fu la sua volontà di scommettere su una riforma elettorale (l’Italicum) e poi su una radicale riforma della Costituzione (che tra le varie cose avrebbe di fatto abolito il Senato), la quale fu sonoramente bocciata dai cittadini nel referendum del dicembre 2016. Il tutto, mentre gli effetti ancora pesantissimi della recessione e la crisi dei rifugiati del 2015 stringevano il paese nella morsa del bisogno e dell’insicurezza. Dopo l’esito del referendum Renzi si dimise da capo del governo e poi da segretario del Partito democratico. La Legislatura giunse alla fine del suo corso naturale sotto la guida di un altro autorevole esponente del Pd, Paolo Gentiloni. E poi vennero le elezioni del marzo 2018 che dovevano cambiare tutto o quasi tutto.