Una breve premessa
È sempre estremamente difficile raccontare e analizzare i fatti che si svolgono sotto i nostri occhi. Soprattutto se ci colgono di sorpresa con le loro drammatiche e a volte brutali conseguenze. È capitato due anni or sono con la pandemia, che dal principio del 2020 ha continuato senza sosta a fare il suo corso e non è certo del tutto finita. Sta capitando di nuovo in questi giorni con il cruento conflitto che si è acceso all’improvviso con l’invasione russa dell’Ucraina, iniziata all’alba del 24 febbraio 2022 e in travolgente evoluzione.
Almeno per ora – 3 marzo – si registrano bombardamenti martellanti, distruzioni, morti, violenze sui civili, coprifuochi, prime consistenti prove di guerriglia, esodi di massa, pesantissime sanzioni internazionali, faticosi e per ora inutili o poco concludenti negoziati, da ultimo una formale condanna dell’aggressione da parte dell’Onu (2 marzo). Non si può tuttavia escludere una deflagrazione più generale, con il coinvolgimento della Nato, degli Stati Uniti e della stessa Europa. Il rischio, semplicemente impensabile ma pur sempre possibile, è quello di una “ascesa agli estremi”, incluso il ricorso alle armi nucleari, già più volte velatamente e apertamente minacciato da Mosca.
Tutto, naturalmente, è più o meno prevedibile, soprattutto col senno di poi. Lo era la pandemia, ampiamente annunciata da fior di scienziati. E lo era anche l’attuale guerra russo-ucraina, su cui numerosi analisti e studiosi avevano da tempo richiamato l’attenzione, mettendo al microscopio le ambizioni neo-imperiali della Russia di Putin.
Poi, però, quando le cose “previste” accadono per davvero, i conti ricominciano a non tornare e si ricade nella dimensione dell’imprevedibile. Riprende il sopravvento la contingenza, che è intessuta di eventi improvvisi, di scelte sagge o folli, eroiche o criminali, di grandi e piccoli uomini in carne e ossa, di passioni, di effetti non previsti o non voluti e quant’altro. Il risultato è che in presa diretta non si riesce a comprendere veramente che cosa stia succedendo. Si rischia di mettere insieme dei fatti che alla fine, e solo alla fine, possono raccontare una storia molto diversa da quella che avevamo immaginato all’inizio. È già successo innumerevoli volte e in modo paradigmatico poco più di un secolo fa.
È con questa ovvia ma opportuna avvertenza che si può oggi tentare di leggere e comprendere la guerra di Vladimir Putin. Con l’importante aggiunta che, trattandosi di guerra, di una guerra vera, esposta per di più al rischio di un’escalation assai pericolosa, i fatti stessi – oltre a essere tantissimi, confusi e incontrollabili – sono anche difficilmente estraibili dal vortice della propaganda, della disinformazione e della contro-informazione che accompagnano da sempre ogni conflitto e che oggi, nell’epoca dei social, delle fake news e della post-verità, semplicemente dilagano.
Guerra a sorpresa
Da diversi mesi molti analisti occidentali, soprattutto statunitensi, avevano acceso i riflettori sulla possibilità di un imminente conflitto russo-ucraino. Massicce esercitazioni militari, movimenti sempre più consistenti di truppe, aerei, rampe di lancio, missili e mezzi corazzati russi ripresi da satelliti e droni segnalavano che qualcosa stava effettivamente accadendo. Specialmente sul confine orientale dell’Ucraina, là dove era aperta e bruciante la ferita della Crimea e delle due repubbliche separatiste filorusse del Donbass (Doneck e Lugansk), da anni al centro di un’aspra contesa tra Kiev e Mosca e teatro di una strisciante guerra civile. Quando però, all’alba del 24 febbraio, l’invasione russa del territorio ucraino è iniziata per davvero – a est dalla Federazione russa, a sud dalla penisola di Crimea e a nord dalla Bielorussia – le opinioni pubbliche del mondo intero si sono risvegliate in un incubo.
Non era infatti iniziata soltanto una guerra a sorpresa che Putin, fino all’ultimo istante, aveva risolutamente negato di voler condurre, accusando di paranoia e arroganza le situation rooms e l’intelligence del mondo occidentale, Stati Uniti in testa. Era successo qualcosa di assai più rilevante e sconvolgente. La guerra, la guerra vera, quella che si combatte con gli eserciti, che mobilita Stati e coalizioni di Stati e che si ispira ai tradizionali principi della “politica di potenza” – la Machtpolitik – era tornata a bussare in modo prepotente alle porte dell’Europa. È stata questa, per molti, l’autentica e gelida sorpresa, a oltre trent’anni dalla fine della guerra fredda e dal tramonto del mondo bipolare.
Si deve infatti ricordare che il crollo dei regimi comunisti e dell’Unione Sovietica tra il 1989 e il 1991 era stato accolto e celebrato come l’atto inaugurale di un’epoca di progressiva pacificazione delle relazioni internazionali. Era iniziata – si diceva – la “fine della storia” (F. Fukuyama, The End of History?, 1989). Le democrazie – si ripeteva – si stavano moltiplicando a tutte le latitudini, rimpiazzando i regimi autoritari, compresi quelli comunisti, il che costituiva un buon auspicio per la pace mondiale visto che le democrazie tendenzialmente non confliggono tra loro (S.P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, 1991). E così ancora – si aggiungeva – le guerre stesse, per lo meno le major wars, le guerre tra grandi potenze, che alla fine danneggiano quasi in egual misura vincitori e vinti, erano ormai diventate obsolete. Come avevano già più volte profetizzato Kant e molti altri autori classici, l’avvento dell’”età del commercio” e dell’interconnessione sempre più stretta tra i popoli era destinata, in prospettiva, a ridurre la guerra a un arcaico e polveroso anacronismo, come il duello e la schiavitù (J. Mueller, Retreat from Doomsday. The Obsolescence of Major Wars, 1990). Soprattutto in Europa, che dal 1945 non aveva più fatto l’esperienza di conflitti armati – peraltro dopo secoli di guerre ininterrotte culminate nelle due guerre mondiali – queste idee dovevano entrare a far parte del DNA delle giovani generazioni e sedimentarsi ulteriormente grazie ai pur difficili progressi del processo di integrazione europea.
Tra il 1989 e il 1991 questa visione ottimistica del futuro delle relazioni internazionali era più che comprensibile. Con il crollo dell’Unione Sovietica, in effetti, era venuto improvvisamente meno il rischio, più volte sfiorato, di un planet-ending conflict, di una guerra da fine del mondo, condotta tra i due “blocchi” con armi di distruzione di massa spaventose, tali da annientare metà del genere umano e di rigettare l’altra metà nell’età della pietra. E tuttavia, come ben sappiamo, alla fine della guerra fredda non doveva seguire una solida stagione di pace ma un’epoca confusa e disordinata di guerre calde e pressoché ininterrotte: guerre, spesso assai cruente, che dovevano accendersi ovunque, insieme a svariate forme di violenza organizzata su vasta scala di tipo etnico, nazionale, religioso, terroristico.
L’elenco è lungo ma è opportuno scorrerlo almeno a grandi linee, per scovarvi cosa manca. Vi troviamo la prima guerra del Golfo (1991) contro l’Iraq di Saddam Hussein che nel 1990 aveva invaso il Kuwait; l’interminabile e violentissima guerra nella ex Jugoslavia (1991-2001); il genocidio in Rwanda (1994); le guerre in Cecenia (a partire dal 1994) e in altre svariate regioni dell’ex impero sovietico (il turbolentissimo «ovale eurasiatico» su cui dovremo tornare); gli attentati terroristici – per lo più di matrice religiosa - di New York (1993), Tokyo (1995), contro le ambasciate USA in Kenya e Tanzania (1998) e contro il cacciatorpediniere USS Cole nel golfo di Aden (2000), le ripetute violenze, con tanto di attentati suicidi, legate al conflitto tra Israele e Palestina. Vi troviamo poi, in un crescendo spaventoso, gli spettacolari attentati dell’11 settembre 2001 contro le Twin Towers e il Pentagono; la guerra in Afghanistan, durata vent’anni e terminata solo pochi mesi fa con il ritiro degli americani e il ritorno dei talebani al potere (2001-2021); la seconda guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein (2003-2011); gli attentati di al-Qaeda a Madrid (2004) e Londra (2005); le terribili guerre civili e al tempo stesso internazionali seguite alle cosiddette “primavere arabe” dal 2011, soprattutto in Libia e in Siria; la prima drammatica crisi delle relazioni russo-ucraine nel 2013-2014, conclusasi con la conquista della Crimea da parte di Mosca; la nascita dello Stato Islamico (Isis) nel 2014 e la sua impressionante espansione militare tra Iraq e Siria negli anni immediatamente seguenti; gli attentati islamisti in Europa e soprattutto in Francia dal 2015, oltre che in Asia e in Africa; le pericolosissime tensioni tra gli USA e la Corea del Nord e l’Iran sul tema delle armi nucleari.
A tutto questo bisogna ancora aggiungere altri cruciali fattori di destabilizzazione: anzitutto, la disastrosa crisi economica mondiale iniziata nel 2007-2008 negli Stati Uniti, presto deflagrata in tutto il pianeta e ancor oggi non del tutto superata; poi il dilagare di flussi migratori fuori controllo di disperati in fuga dalla miseria, dalla guerra, da violente dittature, da catastrofi climatiche di ogni genere (in particolare la cosiddetta “crisi dei rifugiati” siriani del 2015, che rischia oggi di ripetersi in proporzioni ben più ampie da est); quindi lo strepitoso successo, per tutto il corso dell’ultimo decennio, di aggressivi movimenti “sovranisti” di ogni tipo, dagli USA (Trump) alla Gran Bretagna (Brexit) fino a tutta l’Europa continentale; e infine la già citata pandemia, che dal 2020 ha causato milioni di morti nel mondo intero. Il tutto, sullo sfondo della straordinaria crescita economica e anche politico-militare della Cina, che sta modificando in radice gli equilibri della potenza mondiale, conferendo tra l’altro un crescente appeal ai regimi autoritari contrapposti alle vecchie e stanche democrazie. Non è esattamente l’Eden che la fine della guerra fredda sembrava promettere.
La recentissima guerra russo-ucraina, tuttavia, aggiunge oggi un ulteriore tassello al quadro di questo mondo in frammenti. Un tassello di qualità diversa, che ci riporta pericolosamente indietro nel tempo e che merita di essere fissato nella sua cornice più generale, prima ancora di provare a ricostruire, per quanto è possibile, le ragioni e i primi confusi sviluppi del conflitto.
Vecchie e nuove guerre
Di fronte ai fatti che ho prima elencato, negli ultimi trent’anni gli studiosi di relazioni internazionali e di scienze strategiche sono tornati a riflettere ad ampio raggio sul tema della natura e delle forme della guerra, dando molto spesso per scontato che l’epoca delle major wars – le guerre “classiche” tra le grandi potenze, sul modello della Prima e della Seconda guerra mondiale – fosse ormai definitivamente al tramonto. Non tutti, ovviamente, la pensavano e la pensano così. François Heisbourg, per esempio, in un volumetto pubblicato alla fine degli anni Novanta del secolo scorso scriveva che quel tipo di guerra – conflitti da XIX secolo condotti con gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia del XXI – si sarebbe ancora prepotentemente manifestato in Asia, accanto però, nel resto del mondo, a guerre di “Stati criminali”, a guerre di “secessione” di ogni tipo e a ipermoderne guerre cibernetiche soprattutto in Occidente (F. Heisbourg, Il futuro della guerra, 1997). La visione più diffusa, tuttavia, è stata fissata all’incirca negli stessi anni da Mary Kaldor, in un libro intitolato Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale (1999), che faceva tesoro di svariate esperienze di guerra dell’ultimo decennio del secolo scorso, in particolare del conflitto che, nel cuore stesso della vecchia Europa, aveva portato – tra violenze indicibili – alla dissoluzione della Jugoslavia. La sua tesi era che le “vecchie guerre” tra Stati, le cosiddette guerre “clausewitziane” (dal nome del più autorevole teorico della guerra del XIX secolo, il prussiano Carl von Clausewitz, autore del celebre Della guerra, 1832), stavano sempre più lasciando il posto a “nuove guerre” di natura assai diversa. E cioè a forme di violenza organizzata i cui protagonisti non erano più gli Stati, che stavano perdendo in modo crescente il tradizionale monopolio della forza, ma attori che emergevano da una crisi radicale e generalizzata dello Stato nell’epoca della globalizzazione: unità paramilitari, signori locali della guerra, bande criminali, gruppi mercenari, fuoriusciti, terroristi e via enumerando.
Contestualmente – aggiungeva Kaldor – stavano cambiando gli stessi metodi di combattimento, sempre più orientati verso le tecniche della guerriglia e della controinsurrezione, con l’obiettivo di infliggere ai civili i maggiori danni possibili, con deportazioni forzate, uccisioni in massa e conseguenti esodi di profughi e rifugiati. Stavano cambiando, ancora, i modi di finanziare la guerra, che non traeva più le proprie risorse dalle politiche centralizzate dello Stato ma dal sostegno dei gruppi della diaspora, dal saccheggio, dal mercato nero, dal commercio illegale di armi, droga, petrolio, diamanti ed esseri umani e persino dalla “tassazione” dell’assistenza umanitaria. Stavano cambiando, infine, gli scopi stessi della guerra, che non avevano più a che fare con dispute e contrapposizioni territoriali e/o ideologiche, ma con le politiche dell’identità e dell’odio su base etnica, nazionale e religiosa. Veniva così fissato un quadro assai poco edificante di trasformazione (e di “privatizzazione”) della guerra, che dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e quello che ne è seguito – prima con al-Qaeda e poi con l’Isis – si è ulteriormente definito con l’inclusione in grande stile del terrorismo globale e in particolare del “terrorismo in nome di Dio” (M. Juergensmeyer, Terroristi in nome di Dio, 2000). Da allora, più che di guerre (al plurale), si è preso a parlare di un’unica “guerra globale”, molecolare, a intensità relativamente bassa, ma tale da appannare o addirittura annullare dappertutto – nelle zone di guerra vera ma anche nelle tranquille e pacifiche metropoli occidentali – le tradizionali differenze tra interno ed esterno, tra militari e civili, tra pubblico e privato (C. Galli, La guerra globale, 2002). Oppure, senza troppi complimenti, di “guerra senza limiti”, così com’era stata teorizzata poco prima da due colonnelli cinesi, Quiao Liang e Wang Xiangsui, in un libro di estremo interesse (Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica tra terrorismo e globalizzazione, 1999).
In effetti, la gran parte dei conflitti degli ultimi trent’anni rientrano in qualche modo in questa descrizione. Molti di essi sono riconducibili a vere e proprie “guerre civili”, che sono andate poi in varia misura internazionalizzandosi (ad es. Jugoslavia, Libia, Siria). Altri si sono configurati come squilibratissime “guerre asimmetriche” (ad es. Afghanistan e Iraq) che, dopo la potenza iniziale dispiegata dagli Stati nella guerra vera e propria (di solito di breve o brevissima durata), sono poi andate impantanandosi in estenuanti e violentissimi “dopoguerra”, in cui di regola i deboli – attraverso guerriglia, terrorismo e forme varie di resistenza – prevalgono alla fine sui forti. Altri ancora, poi, sono stati condotti per “ragioni umanitarie” (Kosovo), in base al principio – scivolosissimo sul piano del diritto internazionale – della responsibility to protect, della responsabilità di proteggere le popolazioni da violazioni su vasta scala dei diritti umani. Nessuno di quei conflitti, tuttavia, compreso quello più importante e drammatico di tutti, il conflitto nella ex Jugoslavia, ha preso la forma di una “vecchia guerra”, la guerra tra Stati. E soprattutto nessuno di essi ha visto contrapporsi frontalmente, e non soltanto “per procura”, le grandi potenze di oggi: gli Stati Uniti, la Russia e l’Europa, con la Cina che per ora sta a guardare, forse con qualche retropensiero su Taiwan, il Tibet e Hong Kong. Ma è esattamente questo che sta rischiando di accadere oggi, con conseguenze altamente imprevedibili. È su questo sfondo più generale che possiamo leggere la guerra attuale e la “vecchia novità” che essa riporta all’ordine del giorno.
Le ragioni e la posta in gioco del conflitto
In qualsiasi guerra la storia e le memorie contano. Talvolta, però, è altrettanto importante, se non addirittura più importante, la geografia. Senza dunque addentrarci nel vortice degli “usi pubblici della storia” e scomodare la Rus’ di Kiev, Caterina e Pietro il Grande, Lenin e Stalin, la Seconda guerra mondiale, etc. – tutte cose ovviamente importantissime – conviene avvicinarsi ad alcune delle ragioni dell’attuale conflitto russo-ucraino per una via diversa: ritornando agli anni finali della guerra fredda e poi della caduta dell’impero sovietico e provando a gettare lo sguardo su qualche mappa geopolitica. Avendo però ben chiaro che anche le mappe non dicono tutto e non giustificano nulla.
Ancora nel 1989, l’Unione Sovietica, almeno sulla carta, costituiva un blocco geopolitico di dimensioni colossali. Essa si componeva di 15 repubbliche socialiste dislocate, a partire dalla stessa Russia, tra Asia ed Europa. Vale la pena di enumerarle, procedendo da est verso ovest e poi da sud verso nord. Si trattava delle repubbliche russa, kazaka, kirghiza, tagika, uzbeka, turkmena, azera, armena, georgiana, ucraina, moldava, bielorussa, lituana, lettone ed estone. Esse occupavano uno spazio enorme – circa cinque volte l’attuale Unione Europea – esteso dallo Stretto di Bering fino alle propaggini orientali dell’Europa, risalendo a nord sino all’immenso confine russo-finlandese e al piccolo confine russo-norvegese. Sempre restando al 1989, questo colosso era saldamente legato e sovraordinato dal punto di vista politico e militare, tramite il Patto di Varsavia (1955), a una serie assai importante di paesi satelliti dell’Europa centro-orientale, che costituivano il suo cordone di sicurezza a ovest. Da nord verso sud: la Polonia e la Repubblica democratica tedesca, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria e l’Albania, a cui si deve aggiungere – nei Balcani – la pur non allineata Jugoslavia di Tito.
Solo due anni dopo, alla fine del 1991, questo enorme blocco di potere era improvvisamente scomparso. Erano caduti tutti i regimi comunisti dell’Europa centro-orientale. Le due Germanie – la cui divisione era il simbolo stesso della guerra fredda e dell’età bipolare – si erano riunificate (ottobre 1990). Si era sciolto il Patto di Varsavia (luglio 1991). La stessa URSS si era disintegrata (dicembre 1991). Le quindici repubbliche che la componevano erano diventate indipendenti, con diversi livelli di riottosità. Dodici di esse – prima fra tutte la Federazione russa – erano entrate a far parte della cosiddetta Comunità degli Stati Indipendenti (Csi). Mancavano all’appello i tre Stati baltici – Lettonia, Estonia e Lituania – e la Georgia, che vi aderì nel 1993. Il Turkmenistan doveva di fatto uscirne nel 2005. La Georgia e l’Ucraina ne uscirono rispettivamente nel 2009 e nel 2014, a seguito di veri e propri conflitti con Mosca che costituiscono i più immediati antecedenti della guerra attuale.
Questo immenso spazio geopolitico costituiva il classico gigante dai piedi di argilla. Con la relativa eccezione della Federazione russa (su cui torneremo tra poco), si trattava in sostanza di un intricatissimo coacervo di etnie e nazioni diverse, ma sempre con una significativa presenza di popolazioni russe e/o russofone, frutto delle politiche di russificazione degli zar e poi dell’URSS. In breve: di una miscela di popoli estremamente frammentati sul piano etnico, culturale, linguistico e anche religioso e sempre sul punto di esplodere in un vortice di violente rivendicazioni di autonomia e indipendenza, che in svariati casi avevano portato alla formazione di piccoli Stati autoproclamatisi indipendenti al centro di aspre dispute territoriali tra le neonate repubbliche post-sovietiche e soprattutto la Federazione russa. Tra questi, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, nel Caucaso, contese tra la Russia e la Georgia; il Nagorno Karabakh, in Transcaucasia, conteso tra Armenia e Azerbaigian con il sostegno rispettivamente di Turchia e Russia; la Transnistria, in Europa orientale, contesa tra Moldavia e Russia; e dal 2014 la Crimea e le due repubbliche di Doneck e Lugansk, in territorio ucraino, contese per l’appunto tra Mosca e Kiev.
La stessa Federazione russa – quella che chiamiamo semplicemente Russia e che ha raccolto l’eredità principale dell’URSS, compreso il seggio permanente alle Nazioni Unite – è per l’appunto una «federazione», che comprende 22 repubbliche dotate di diversi gradi di autonomia, frutto di una storia e di accordi complicatissimi. Essa costituiva e costituisce, dunque, tutt’altro che un monolite, con diverse spine nel fianco. Prima fra tutte la Cecenia, con la quale Mosca ha ingaggiato due vere e proprie guerre nel 1994-1996 e poi nel 1999-2009, a suon di bombardamenti, scontri militari, violenze di massa sui civili, attentati terroristici di matrice indipendentista e islamista (particolarmente significativo quello al teatro Dubrovka di Mosca, nell’ottobre 2002, risoltosi con l’intervento delle forze speciali russe e con circa 400 morti).
È questo spazio significativamente ridotto, tumultuoso, frammentato, altamente instabile soprattutto nell’ampia striscia che mette in contatto Europa e Asia (l’”ovale eurasiatico”), che raccoglieva l’eredità della Grande Russia e poi dell’Unione Sovietica. Esso costituiva – come ha scritto Zbigniew Brzezinski già al principio degli anni Novanta – «il buco nero della storia contemporanea». Portava infatti in superficie, con la caduta del ferreo dominio sovietico, un pericolosissimo «vuoto geopolitico» in Eurasia: un vuoto che non poteva essere in alcun modo “riordinato” dagli Stati Uniti o dall’Europa (profondamente divisa) e che prometteva quindi conflitti senza sosta al prezzo di una instabilità generalizzata, contribuendo così a rendere il mondo nel suo complesso “ingovernabile”, “fuori controllo” (Z. Brzezinski, Il mondo fuori controllo, 1993).
Si deve ancora aggiungere che quello stesso spazio era sì ricchissimo di risorse naturali strategiche per l’approvvigionamento energetico europeo e mondiale (anzitutto il gas), ma era al contempo afflitto – Federazione russa compresa – da immensi problemi economici e di sviluppo, resi drammatici da una complicata transizione dalla vecchia economia pianificata di stampo sovietico all’economia di mercato, che non doveva certo sollevare il basso tenore di vita delle popolazioni e attenuare il loro crescente malcontento. Quella transizione, infatti, doveva svolgersi in modo estremamente disordinato e a tutto vantaggio di ristrette, autoritarie e spesso criminali oligarchie – i famosi “oligarchi” da molto tempo agli onori delle cronache – legate saldamente, in Russia e altrove (Ucraina compresa), al sistema di potere post-sovietico. Da qui, sostanzialmente, la benzina che in molti paesi doveva accendere – certo con diversa energia e tra successi e insuccessi – i motori delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, spesso insieme a una crescente propensione a guardare verso l’Europa e l’Occidente: in Georgia nel 2003, in Ucraina nel 2004-2005, in Kirghizistan nel 2005, in Azerbaigian nel 2005, in Bielorussia nel 2004-2005 e in Mongolia nel 2005.
Per completare il quadro, però, si deve ancora spostare lo sguardo a ovest, gettando una rapida occhiata ad altre due mappe: quella dell’Unione Europea e quella della Nato, che hanno conosciuto negli ultimi decenni una significativa espansione verso Est. La prima – l’Ue – è stata letteralmente stravolta tra il 2004 e il 2013 dall’adesione dei paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica, un tempo vassalli dell’URSS. Dopo l’ingresso di Finlandia e Svezia nel 1995, vi aderirono infatti (guardando solo a est) nel 2004 Lettonia, Lituania, Estonia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, Slovenia; nel 2007 Bulgaria e Romania; e nel 2013 la Croazia, con la prospettiva di una futura inclusione di altri paesi balcanici quali la Macedonia del nord, il Montenegro, l’Albania, la Serbia, il Kosovo e la Bosnia Erzegovina, oltre che della Turchia (un caso complicatissimo, soprattutto dopo la virata autoritaria e islamista di Erdogan nel 2016).
Quanto alla seconda – la Nato, l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, creata nel 1949 come alleanza “difensiva collettiva” e di collaborazione militare e contrapposta dal 1955 al già citato Patto di Varsavia – basta soltanto ricordare che vi appartengono oggi 30 paesi. A parte Stati Uniti e Canada, a cui si deve aggiungere – dettaglio importante – la Turchia, si tratta di fatto dell’intera Europa occidentale, centrale, orientale, settentrionale, meridionale e balcanica, con l’eccezione della Finlandia (sull’immenso confine russo) e della Svezia, paesi neutrali. Gli ex paesi satelliti dell’URSS cominciarono a entrarvi nel 1990 (ex Repubblica democratica tedesca), seguiti nel 1999 da Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca; nel 2004 da Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Slovenia; nel 2009 da Croazia e Albania; nel 2017 dal Montenegro; e nel 2020 dalla Macedonia del Nord.
È in questo scenario esplosivo di frammentazione, di scarso sviluppo economico, di disagio sociale e di accerchiamento internazionale – a tutti i livelli, insomma, estremamente problematico – che si sono mossi i leader post-sovietici: prima Boris Eltsin, presidente della Federazione russa dal 1991 al 1999, e poi soprattutto Vladimir Putin, ininterrottamente al potere dal 1999 a oggi, alternativamente come presidente e come primo ministro della Russia. Si trattava di uno scenario da paranoia per una ex grandissima potenza stretta in una morsa autocratica e oggi forse ridotta – come ha scritto Paul Krugman sul “New York Times” del 1° marzo 2022 – a una Potemkin Superpower. Con un Pil – per citare un unico dato della Banca mondiale relativo al 2020 – inferiore a quello di paesi come l’Italia e la Francia. Ma con un arsenale nucleare da fine del mondo.
È su questa linea di orizzonte che si possono comprendere – non certo giustificare – la guerra tra Russia e Georgia nel 2008 per l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia e poi soprattutto la grave crisi russo-ucraina del 2013-2014, cui abbiamo già dedicato un altro articolo, conclusasi alla fine con l’annessione russa della Crimea.
Quella crisi, gravissima ma certo assai meno devastante di quella attuale, era stata attivata da un’ondata di colossali manifestazioni democratiche contro gli oligarchi filorussi al potere, che da Maidan, la “piazza” di Kiev, rivendicavano un cambio di regime e un risoluto avvicinamento del paese all’Europa. Quasi subito infiltrata da elementi nazionalisti ucraini – al tempo stesso antirussi e antieuropei – la protesta doveva però assumere un profilo diverso, con un improvviso spostamento dell’epicentro della crisi da Kiev alla Crimea, dove la popolazione è in grande maggioranza russa e, soprattutto, dove era ed è di stanza la flotta militare russa del Mar Nero. Il risultato fu che tra il febbraio e il marzo del 2014, con il sostegno degli elementi locali filorussi, la Russia, con i propri militari, ha incorporato la Crimea e Sebastopoli nella Federazione russa. Un atto condotto in spregio di tutti gli accordi – compresi quelli istitutivi della Csi – e non riconosciuto dalla comunità internazionale. Sul terreno rimaneva altresì aperta la questione delle due repubbliche indipendentiste del Donbass – Doneck e Lugansk – a nord est della Crimea, autoproclamatesi indipendenti nell’aprile del 2014, senza alcun riconoscimento internazionale, e teatro da allora di uno strisciante conflitto tra ucraini, milizie filorusse e militari russi.
La guerra, i suoi primi sviluppi, le prospettive
È proprio da qui che è improvvisamente iniziato l’attuale e ben più devastante conflitto russo-ucraino. Il suo atto iniziale è stato il riconoscimento ufficiale dell’indipendenza delle due repubbliche da parte di Putin il 21 febbraio 2022. A esso doveva seguire, all’alba del 24 febbraio, tra la sorpresa e la costernazione di tutto il mondo, l’inizio dell’invasione vera e propria del territorio ucraino, con sbandierate ma solo retoriche finalità di peacekeeping nel Donbass conteso. L’invasione, tuttavia, non doveva partire soltanto da est, e cioè dai territori della Federazione contigui alle due repubbliche secessioniste. Ma anche da nord, dalla Bielorussia, e da sud, dalla Crimea, con l’impiego di circa 200.000 soldati e un impressionante dispiegamento di mezzi militari, mai visto in Europa dopo il 1945. Nulla, quindi, di anche solo lontanamente paragonabile alla guerra in Cecenia, in Georgia e nella stessa Crimea del 2014.
L’aggressione russa all’Ucraina ha fatto e sta facendo danni enormi. Sta mietendo un gran numero di morti tra i civili e i militari (anche russi), migliaia e forse decine di migliaia, uccisi strada per strada, con missili, bombe a grappolo e termobariche. Sta riducendo villaggi e città intere, ospedali, asili, scuole e luoghi simbolici in un cumulo di macerie. Sta disarticolando l’intero paese. Sta generando una pesantissima crisi umanitaria ed esodi di massa della popolazione – si calcola per ora circa un milione di profughi – verso i paesi europei più vicini. Sta evocando scenari apocalittici di guerra generale – europea e mondiale – senza l’esclusione del ricorso agli armamenti nucleari. Sta mettendo in moto i tribunali internazionali per crimini di guerra e contro l’umanità.
Da quel che si può capire, al di là di bombardamenti relativamente isolati (per es. Leopoli), è l’intera Ucraina da nord-nord est (Kiev, Chernihiv, Kharkiv), da sud-est (Mariupol) e da sud (Kherson) a essere caduta nella morsa dell’esercito russo, che continua ad avanzare. Le notizie sono tuttavia troppe ed estremamente confuse, e circolano dappertutto, talora senza controllo e talora costruite ad arte per ragioni di propaganda e di contro-informazione. Conviene seguirle giorno per giorno, nella misura del possibile, sui quotidiani e i telegiornali. Di certo, invece che pacificare il Donbass, le armate russe stanno incendiando l’intero paese e forse anche la pace mondiale.
Per il resto, il dato cruciale è che la Potemkin Superpower, a una settimana dall’inizio dell’aggressione, non ha sfondato. Se contava su ciò a cui aspirano tutti gli aggressori, un Blitzkrieg – la guerra lampo, che riesce invero assai raramente – per ora ha fallito e il tempo gioca minuto per minuto a suo svantaggio. La resistenza ucraina è andata crescendo enormemente di intensità, sotto la guida del presidente Volodymyr Zelenski, che è diventato ormai un’icona mondiale. Nella stessa Russia il malcontento si sta generalizzando, in una spirale interminabile di proteste, arresti e repressione. Anche Stati Uniti ed Europa, senza per fortuna cedere alle sirene dello scontro e manifestando una dose rilevante di “moderazione strategica”, hanno agito in modo coordinato, infliggendo pesantissime sanzioni economiche alla Russia e anche personalmente ai suoi oligarchi, con lo scopo esplicito di strangolare l’aggressore e provocare un cambio di regime a Mosca. Senza rinunciare a pattugliare per terra e nei cieli i confini dell’Europa e a inviare armi agli insorti ucraini. La Cina, sia pure ambiguamente, sta a guardare, ma ha manifestato una gelida freddezza nei confronti dell’azione di Putin. Il voto di condanna della guerra all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (2 marzo) è stato infatti quasi un plebiscito contro Putin: 141 paesi hanno votato a favore, solo cinque si sono rifiutati di farlo (la stessa Russia, la Bielorussia, la Corea del Nord, la Siria e l’Eritrea) e 35 – tra cui la Cina – si sono astenuti. Le piazze pacifiste e le stesse piazze affari si sono rivoltate. Persino Anonymous ha giurato di scatenare la furia di tutti gli hackers del mondo contro Putin, probabilmente infliggendo già qualche danno, nella dimensione cruciale della cyberwar (di cui peraltro i russi sono maestri), agli apparati di sicurezza e alle infrastrutture di Mosca.
Si dovrà dunque vedere e capire come procederanno i negoziati e le trattative diplomatiche, tra i due contendenti e più in generale nella comunità internazionale. Purtroppo, mentre le persone continuano a morire. Il primo round si è svolto a Gomel, in Bielorussia, il 1° marzo 2022 e si è risolto in un nulla di fatto. Il secondo si sta svolgendo in queste ore (3 marzo) e lascia forse intravedere qualche spiraglio da parte russa, almeno in termini di apertura di corridoi umanitari per i civili in fuga dalla guerra. Staremo a vedere.
Rimangono aperte due domande centrali, a cui è pressoché impossibile rispondere in modo chiaro almeno per il momento. Vale però la pena almeno di formularle.
La prima domanda è: perché Putin ha deciso di scatenare proprio adesso una guerra del genere e con quali obiettivi? La progettava da anni, come si è più volte ripetuto in questi giorni? Oppure da qualche settimana, come verrebbe da dire vedendo mezzi corazzati senza benzina, soldati ventenni convinti di fare esercitazioni e che si trovano in mezzo a una guerra vera, ecc.? A quale presunta minaccia imminente egli ha voluto rispondere? Per mettere in sicurezza (da cosa esattamente?) la Crimea, la repubblica di Doneck e quella di Lugansk? Per spegnere la guerra civile strisciante che effettivamente tormenta quella parte di Ucraina, a costo però di accendere una ben più ampia e brutale guerra civile in tutto il paese? Difficile crederlo. Per impedire, allora, l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue e addirittura nella Nato, vale a dire due cose che non sono affatto all’ordine del giorno e che Ue e Nato non vogliono per ora nemmeno sentir dire? Per conquistare militarmente l’Ucraina, impantanandosi in una probabile guerra decennale o ventennale sul tipo dell’Afghanistan? Per lanciare un monito a Finlandia e Svezia circa l’ipotesi di un loro ingresso nella Nato (che in effetti – ma dopo l’inizio della guerra – si stanno orientando proprio in quel senso)? Oppure alla Georgia, che proprio oggi infatti – dunque sempre dopo l’inizio della guerra – ha chiesto di aderire all’Ue (pare seguita nei prossimi giorni dalla Moldova)? Per separare USA e Ue e poi gli stessi paesi europei nel momento critico della faticosa uscita da due anni di pandemia? Per rinegoziare nientemeno che il sistema di sicurezza europeo e mondiale dopo l’umiliazione del tracollo dell’URSS e l’allargamento a est di Ue e Nato, come se quel tracollo e quell’allargamento non ci fossero mai stati e non fossero stati il frutto di una libera scelta? Sono tutte ipotesi possibili. Ma è davvero difficile credere che un Realpolitiker del calibro di Putin, ben attento ai reali rapporti di forza, possa davvero ragionare in questi termini, se non in una azzardatissima partita di poker da ultimi giorni. Se queste sono le ipotesi in campo, forse non stiamo più parlando dello stesso Putin di un tempo. È più probabile invece – e ci sono illustri precedenti in tal senso – che sulla decisione della guerra abbiano influito pesantemente l’isolamento del leader – dannazione tipica di tutti governi autocratici, visivamente restituita dalle poche apparizioni Tv del capo a nove metri dai suoi pochissimi fedeli – e soprattutto la volontà di tenere insieme un regime e un sistema di potere interno ormai scricchiolanti con la ricerca del prestigio all’estero. Che l’operazione sia riuscita più volte nella storia non significa che debba riuscire sempre. Anzi.
La seconda domanda è: che cosa succederà dunque? È possibile e ovviamente auspicabile che il conflitto russo-ucraino si fermi subito e del tutto, ridando la parola alla diplomazia, come chiedono le piazze pacifiste di tutto il pianeta e, con qualche eccezione, il preoccupatissimo mondo dell’economia globale. È altrettanto possibile – e già meno auspicabile – che esso si trasformi, dopo l’urto inziale, in una logorante guerra di occupazione del tipo di quelle che l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti hanno già assaggiato in Afghanistan rispettivamente nel 1979-1987 e nel 2001-2021, uscendone sconfitte. È tuttavia anche possibile – sempre al netto di qualche incidente irrimediabile che risolva tutto in un colpo solo – che l’Ucraina, alle porte dell’Europa, diventi e rimanga per lungo tempo la pedina di un gioco assai più grande e pericoloso per la pace mondiale, che coinvolga cioè Europa e Stati Uniti e forse la Cina in una deflagrazione più generale. Non si possono certo fare previsioni, anche perché i regimi autocratici, come quello russo, agiscono su questo terreno in modo del tutto imprevedibile, soprattutto se messi alle strette, suscitando alla fine reazioni estreme.
Per ora, limitiamoci amaramente a registrare che, come era già successo circa un secolo fa con il primo conflitto mondiale e con la pandemia di spagnola, malattie e guerre – due flagelli che hanno accompagnato l’intera storia del genere umano – sono tornati a farci una triste compagnia.
Crediti immagini:
Banner: Matti-Pexels (Link)
Carte: faseduestudio.com