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Gli Stati Uniti da Trump a Biden. Una democrazia in bilico?

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Il 20 gennaio 2021 il democratico Joe Biden è entrato ufficialmente in carica come 46° Presidente degli Stati Uniti d’America, subentrando al repubblicano Donald Trump. L’avvicendamento al potere dei due Presidenti è stato estremamente complicato e turbolento. Non soltanto per la complessità delle regole che governano le elezioni presidenziali americane, rese in questo frangente ancor più ingarbugliate dalla pandemia di Covid-19 e da un ricorso massiccio al «voto anticipato» e al «voto postale», particolarmente esposti al rischio contestazioni. Ma anche e soprattutto perché il Presidente in carica, nonostante il verdetto delle urne, si è rifiutato fin dal principio di riconoscere la vittoria del suo competitor. Per oltre due mesi, infatti, egli ha continuato a evocare senza sosta lo spettro di elezioni «truccate» e «rubate». Ha minacciato spettacolari azioni legali e fatto scendere in campo – senza successo – i suoi avvocati, a partire dal più celebre di tutti, l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani. Ha anche esercitato indebite pressioni sui governi di alcuni Stati repubblicani per annullare migliaia di schede a favore di Biden. Infine, con i suoi ripetuti appelli al «popolo», specialmente attraverso i social, ha fomentato e in ampia misura legittimato, prima dell’insediamento ufficiale del suo successore, un vero e proprio assalto alla sede del Congresso americano che ne stava ratificando l’elezione. In quel tumulto – che il 6 gennaio 2021 ha mobilitato migliaia di suoi sostenitori e che secondo i suoi accusatori il Presidente in persona avrebbe addirittura «premeditato» – hanno perso la vita cinque persone. Qualche giorno più tardi, ancor prima di disertare irritualmente la cerimonia di insediamento di Biden, Trump si è visto «bannare» i propri account su Twitter e Facebook. Un trattamento che, nell’era della comunicazione politica via social, ha messo a tacere il Presidente ancora in carica della più grande potenza del mondo. Questi fatti gravissimi – in primo luogo naturalmente l’attacco al Campidoglio, senza precedenti nella storia degli Stati Uniti – non sembrerebbero aver prodotto per il momento conseguenze politiche di particolare rilievo, a parte l’avvio di una procedura di impeachment a carico di Trump, conclusasi peraltro il 13 febbraio con la sua assoluzione. Ma hanno inflitto una ferita profonda, se non alla sostanza, certo all’immagine della democrazia americana nel mondo. Al tempo stesso, hanno mostrato con grande chiarezza quali potenziali pericoli si annidino nei «populismi» del nostro tempo, di cui Trump è stato – e promette di essere ancora – uno dei principali campioni.

Il Presidente Joe Biden e la Vicepresidente Kamala Harris (WhiteHouse.gov)

Per ricostruire la vicenda di questa delicata congiuntura della storia statunitense occorre partire dall’Election Day, il 3 novembre 2020, e seguirne gli sviluppi nei due mesi e mezzo successivi, fino al 20 gennaio 2021, l’Inauguration Day: il giorno in cui Biden è diventato effettivamente Presidente degli Stati Uniti, affiancato dalla vicepresidente Kamala Harris, in una Washington letteralmente blindata da forze dell’ordine, reparti della Guardia Nazionale e corpi speciali. Prima di concentrarsi sull’Election Day, è però opportuno gettare un rapido sguardo agli Stati Uniti alla vigilia del voto e al profilo dei due candidati in competizione.  

La vigilia del voto

Come abbiamo visto in un precedente articolo, l’Election Day è il giorno in cui i cittadini degli Stati Uniti si recano alle urne non solo per scegliere il proprio Presidente, ma anche per eleggere la Camera dei Rappresentanti e rinnovare un terzo del Senato, che insieme formano i due rami del Congresso. Secondo una regola ormai consolidata, quel giorno cade «il primo martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre». Nel caso delle ultime elezioni la data fissata era dunque il 3 novembre 2020. Alla vigilia di quell’appuntamento era arduo fare previsioni nette sugli esiti del voto. Molte incognite pesavano sulla figura dello sfidante, Joe Biden, risultato vincitore alle primarie dei democratici. Classe 1942, cattolico, politico di lungo corso, senatore per il Delaware sin dal 1973, vicepresidente di Barack Obama tra il 2009 e il 2017, Biden aveva un profilo assai più rassicurante – almeno per l’elettorato moderato – del suo competitor alle primarie, il «socialista» Bernie Sanders, e dello stesso Presidente in carica. Si trattava però di un personaggio pienamente integrato in quelle élites di Washington che Trump, fin dal suo Inaugural Address del 2017, aveva dichiarato di voler combattere senza quartiere per restituire lo scettro del potere al vero e unico «principe», il popolo. Biden poteva senz’altro contare su ampi consensi, soprattutto in alcuni Stati e in particolare nelle aree urbane. Aveva buoni rapporti con importanti settori della working class, con la comunità afroamericana e altre minoranze, ulteriormente rafforzati dalla scelta di Kamala Harris, di origini indiane e giamaicane, come vicepresidente. Poteva soprattutto avvantaggiarsi delle straordinarie difficoltà che si erano abbattute sul Paese e sul Presidente in carica fin dal principio dell’annus horribilis 2020. Era difficile stabilire, tuttavia, quale fosse il suo reale gradimento su scala nazionale e nei singoli Stati, soprattutto dopo una campagna elettorale tra le peggiori della storia americana. Una campagna quasi interamente costruita su insulti e scambi di accuse personali, nello stile ruvido e volgare imposto da Trump al suo rivale, sul modello del celebre reality , da lui stesso condotto per ben 14 stagioni tra il 2004 e il 2017. Anche sul Presidente in carica, tuttavia, gravavano pesanti incognite. Al principio del 2020, invero, la sua popolarità era ancora alle stelle, soprattutto per la rilevante ripresa economica del Paese durante i primi tre anni del suo mandato, che aveva prodotto una assai significativa diminuzione dei tassi di disoccupazione. Era allora opinione largamente diffusa – e sua ferrea convinzione personale – che la rielezione alla Presidenza sarebbe stata poco più che una passeggiata, soprattutto a fronte di potenziali competitor «radicali» come Sanders o «scialbi» come Biden. Nel corso di quell’anno, tuttavia, diversi fattori dovevano rendere decisamente meno scontato, alla vigilia dell’Election Day, l’esito della sua corsa verso il secondo mandato. Il più importante di tutti è stato senza dubbio il dilagare nel paese della pandemia di Coronavirus fin dal principio dell’anno. A essa, infatti, Trump aveva risposto con scelte assai discutibili e oscillanti, ispirate a una sostanziale sottovalutazione della minaccia pandemica e a un’ostilità di fondo all’ipotesi di paralizzare, con lockdown più o meno estesi e duraturi, la società e soprattutto l’economia americana. Il costo di queste scelte – fatte contro le raccomandazioni delle massime autorità sanitarie del paese e solleticando gli istinti «libertari» di un’ampia platea di negazionisti e complottisti di ogni genere – è stato ed è tuttora pesantissimo. Basti pensare, per citare un solo dato, che il 2 novembre, alla vigilia delle elezioni, gli Stati Uniti erano nettamente in testa (in verità già da molti mesi) alla graduatoria dei paesi con il maggior numero assoluto di contagi (oltre 9 milioni) e di morti (oltre 210.000). Si trattava di un dato disastroso, che non poteva certo essere cancellato dalla postura muscolare con cui lo stesso Trump, contagiato dal virus agli inizi di ottobre e ricoverato in ospedale per seri problemi respiratori, aveva in pochi giorni superato la malattia, esibendosi tra l’altro in un criticatissimo giro in auto fuori dall’ospedale per salutare e tranquillizzare i suoi fans.
Il neopresidente Joe Biden ha fatto del contrasto alla pandemia di Covid-19 la priorità del suo mandato (crediti: Twitter, @WhiteHouse.Gov)
Con la pandemia fuori controllo, anche gli indici della crescita economica del Paese e quelli relativi all’occupazione avevano iniziato a vacillare in misura significativa, ponendo una grave ipoteca sui pur importanti risultati ottenuti nel primo triennio di presidenza. Ma non è tutto. A rendere ulteriormente incerte le quotazioni di un secondo mandato dovevano ancora contribuire, sempre nel corso del 2020, altri elementi, tutti in vario modo caratterizzati da una crescente – e per molti preoccupante – estremizzazione delle posizioni del Presidente in politica estera e in politica interna. Per quanto riguarda la prima, mi limito a ricordare, accanto alle persistenti tensioni con la Cina e la Russia e ad atteggiamenti talora sprezzanti nei confronti dell’Unione Europea, il riacutizzarsi del contrasto con l’Iran in seguito all’«assassinio mirato» del generale Qassem Soleimani, comandante delle Guardie Rivoluzionarie, ucciso da un drone americano il 2 gennaio: un fatto che doveva far soffiare pericolosi venti di guerra sul mondo intero. Sul piano interno pesarono in modo decisivo le rinnovate tensioni razziali seguite alla morte di George Floyd a Minneapolis il 28 maggio, un nero soffocato da un agente bianco nel corso di un fermo di polizia.
Veglia commemorativa in ricordo di George Floyd a Houston, Texas (2C2K Photography, flickr, CC-BY-2.0)
Divampate in molte città americane per le proteste della comunità nera e del movimento Black Lives Matter e diventate in molti casi violente e fuori controllo, esse furono ulteriormente esasperate dalle prese di posizione securitarie e repressive – law and order ­– di Trump. Divenne nel contempo sempre più manifesto il suo avvicinamento alle galassie più estremiste della destra americana, razzista, libertaria, ossessionata da deliranti visioni di complotti orchestrati dalle forze oscure del deep state e della grande finanza globale ai danni del «popolo» e del suo indomito Presidente. Si aggiunga ancora il primo processo di impeachment a suo carico – conclusosi peraltro con un’assoluzione il 5 febbraio 2020 – con l’accusa di aver fatto pressioni indebite sul governo ucraino per danneggiare l’ex vicepresidente di Obama e potenziale candidato democratico alle elezioni presidenziali Joe Biden. Imprevedibile, spregiudicato, spavaldo, imprudente, politicamente scorretto, in rotta di collisione con tutti, a partire dai suoi stessi collaboratori, sempre più orientato verso le posizioni di una destra radicale, fanatica e complottista: è con questo profilo tutt’altro che rassicurante che il presidente in carica si presentava dunque all’appuntamento con le elezioni. Lo confermarono i sondaggi della vigilia. È vero che nelle elezioni presidenziali precedenti, nel 2016, essi si erano poi dimostrati completamente sbagliati dando quasi per certa l’elezione di Hillary Clinton. Adesso, tuttavia, quei sondaggi, pur riconoscendo una relativa tenuta di Trump in alcuni Stati chiave, davano un vantaggio di 12 punti percentuali su scala nazionale al democratico Biden (54%) su Trump (42%). A contare nelle presidenziali americane sono però i risultati elettorali nei singoli Stati, dove vige – come abbiamo visto – il sistema Winner Takes All, in base al quale il partito che ottiene la maggioranza dei voti si attribuisce tutti i grandi elettori dello Stato stesso, i quali poi eleggono effettivamente il Presidente. Da qui le tante incertezze e le molte apprensioni prima del voto.  

3 novembre 2020: l’Election Day e il «voto popolare»

L’Election Day del 3 novembre 2020 è stato un «giorno» assai anomalo. Per almeno due ragioni. La prima è la straordinaria partecipazione al voto dei cittadini americani. A conti fatti, i votanti furono poco meno di 160 milioni, vale a dire il 66,7% degli aventi diritto. Si trattava della più alta percentuale di partecipazione mai registrata fin dal 1920, quando era stato introdotto – con il XIX emendamento alla Costituzione – il suffragio universale vero e proprio, comprese le donne. Da allora, infatti, nessuna elezione presidenziale aveva mai registrato una soglia di affluenza superiore al 65%. E solo in sei casi era stata superata la barriera del 60%: nel 1952, nel 1960, nel 1964, nel 1968, nel 2004 e nel 2008, quando furono eletti rispettivamente Dwight Eisenhower, John F. Kennedy, Lyndon B. Johnson, Richard Nixon, George W. Bush jr. e Barack Obama. A questa prima anomalia bisogna aggiungerne una seconda, che ha pesato moltissimo su ciò che doveva seguire all’Election Day. Essa riguarda le particolari modalità di questa straordinaria e inedita partecipazione. Quando infatti i seggi elettorali sparsi in tutto il paese si aprirono il 3 novembre per accogliere gli elettori, un gran numero di cittadini aveva in realtà già espresso il proprio voto da giorni, se non da settimane, di persona oppure inviando per posta la propria scheda elettorale. Più esattamente – è bene ribadirlo – le schede elettorali (al plurale): per le elezioni del Presidente (in realtà dei «grandi elettori»), della Camera dei Rappresentanti e del Senato. A fine ottobre, circa 80 milioni di cittadini avevano scelto questa modalità di espressione del voto, esplicitamente prevista, sia pure con regole differenti, dalla legislazione di ben 38 Stati su 50 e nel District of Columbia. Di questi 80 milioni, poco più di 28 milioni avevano già votato di persona in anticipo sulla data del 3 novembre («voto anticipato») e quasi 52 milioni avevano votato per posta («voto postale»). Furono dunque 78 milioni gli elettori che votarono effettivamente nell’Election Day. Meno della metà del numero complessivo dei votanti. E molti di essi (circa 20 milioni) lo fecero anche allora tramite il voto postale, dato che in diversi Stati era possibile votare con quella modalità fino allo stesso 3 novembre. In sostanza, si recarono effettivamente alle urne circa 60 milioni di elettori. Ovviamente, il dato si spiega in ampia misura con l’imperversare della pandemia e con la scelta di molti Stati di favorire il più possibile queste modalità di voto per ragionevoli motivi «sanitari»: evitare assembramenti, mantenere il distanziamento sociale, etc. E tuttavia, il «voto anticipato» e soprattutto «il voto postale», che storicamente aveva quasi sempre premiato il Partito democratico, entrarono subito nel mirino del Presidente in carica. Fin dall’estate egli lo aveva definito come una costosissima «catastrofe», puntando pubblicamente il dito contro le inefficienze del Postal Service, istituzione sacra negli Usa, e contro gli Stati democratici che facevano di tutto per raccomandarlo, con il rischio evidente – a suo dire – di brogli su larga scala. In verità il voto anticipato e quello postale erano caldeggiati anche da molti Stati tradizionalmente repubblicani. Ad ogni modo, dall’estate in poi, le accuse di Trump andarono crescendo di intensità fino alla paranoia, trovando un’eco significativa in gruppi negazionisti e libertari di ogni genere, convinti che si stesse ormai consumando un gigantesco imbroglio contro il «loro» Presidente. Cominciarono così a trovare ascolto e credito, tra le altre, le infondate farneticazioni di «QAnon»: un’incredibile teoria del complotto che circolava alla velocità della luce sui social e soprattutto nel dark web. Essa immaginava improbabili trame ai danni di Trump ordite – per conquistare il dominio mondiale – dai poteri occulti del deep state e della grande finanza collegati a una rete planetaria di pedofili, ebrei, comunisti e quant’altro. Il clima, insomma, si stava evidentemente surriscaldando, con la complicità esplicita e irresponsabile del Presidente in carica.
10 novembre 2020, praticamente definitivo anche il dato della Pennsylvania, dove Biden vince per una manciata di voti e si assicura i Grandi Elettori di quello Stato (infografica del New York Times, pubblicata sulla pagina Facebook)
Su un punto, tuttavia, egli aveva ragione, anche se non ci voleva molto per immaginarlo. Il voto anticipato e soprattutto il voto postale erano destinati a prolungare lo spoglio delle schede ben oltre la notte del 3 novembre. E così in effetti accadde. Con regole molto diverse nei singoli casi, alcuni Stati poterono iniziare a verificare le schede elettorali già al momento della loro ricezione, prima cioè dell’Election Day. Altri invece iniziarono a contarle soltanto il 3 novembre. E altri ancora prevedevano che fossero ancora pienamente valide le schede che, pur pervenute un certo numero di giorni dopo il 3 novembre, recassero il timbro postale del giorno delle elezioni (o, s’intende, dei giorni immediatamente precedenti). Iowa, Minnesota, North Carolina e Ohio – per citare quattro Stati in bilico (swing states) – riconoscevano la validità delle schede spedite entro il 3 e pervenute rispettivamente entro il 9, il 10, il 12 e il 13 novembre. Ciò significava che i risultati delle elezioni si sarebbero potuti considerare definitivi soltanto 10-15 giorni dopo l’Election Day. Un’attesa snervante, resa sempre più incandescente dalle continue dichiarazioni di Trump e dalle fake news che egli fece ampiamente circolare via social. Questo spoglio al rallentatore fu messo sotto il microscopio da tutti gli analisti del Paese e del mondo, particolarmente attenti ovviamente ai risultati di quegli Stati in bilico che potevano decidere, già prima del verdetto finale delle urne, il risultato delle elezioni. In questo quadro complicatissimo e di crescenti tensioni, la vittoria di Biden divenne chiara il 7 novembre, quando il candidato Presidente, sulla base delle indicazioni dei media e di autorevoli analisti, poté finalmente dichiarare, in particolare dopo i risultati ottenuti in Pennsylvania e ulteriori risultati e proiezioni in altri Stati, di essere «onorato di essere stato scelto per guidare il paese». Era, sia pure informalmente, il giorno della vittoria. Il divario tra i due candidati – in termini non tanto di «voti popolari» (i voti espressi dai cittadini) quanto di «voti elettorali» (i voti che avrebbero poi espresso i «grandi elettori» eletti appunto con il voto popolare) – era in effetti ormai incolmabile. Dai suoi campi di golf, tuttavia, Trump doveva gelare immediatamente il rivale. Le elezioni – questo il suo messaggio – non erano affatto «finite». Stava anzi per iniziare la battaglia legale, con una valanga di ricorsi, annunciati soprattutto in Winsconsin, Michigan, Georgia e Pennsylvania, per il riconteggio dei voti, che in effetti in alcuni casi separavano i due candidati di poche migliaia di unità. Il che poi però – per le regole del sistema elettorale americano – si traduceva in un numero di «voti elettorali» assai più consistente. Il termine ultimo per dirimere a livello federale ogni controversia legale sul conteggio dei voti era fissato all’8 dicembre. Sei giorni dopo, infatti, il 14 dicembre, i «grandi elettori» avrebbero dovuto esprimere il proprio voto, quello realmente decisivo, che avrebbe attribuito la vittoria al candidato che avesse ottenuto almeno 270 «voti elettorali». Una corsa contro il tempo, costellata da accuse e controaccuse di ogni genere, che dovevano avvelenare in misura crescente il clima politico generale.
I risultati definitivi delle elezioni 2020 in una infografica del New York Times (crediti: pagina facebook, New York Times)
Il 23 novembre – quando la maggior parte degli Stati aveva ormai «certificato» i risultati elettorali, la partita era ormai perduta per Trump. Pur senza riconoscere la vittoria del suo avversario e ribadendo anzi la tesi delle «elezioni rubate», egli diede disposizioni affinché prendesse finalmente avvio il passaggio di consegne per la nuova amministrazione. Questi, a ogni modo, i risultati definitivi: Biden aveva totalizzato 81.268.924 voti popolari, Trump 74.216.154. Tradotto in voti elettorali significava 306 a 232: una vittoria netta. Soddisfacenti, sempre per i democratici, anche i risultati delle elezioni del Congresso. Alla Camera dei Rappresentanti Biden avrebbe potuto contare su 222 seggi contro i 212 dei repubblicani. Molto meno netta la situazione del Senato, il cui rinnovo portò, dopo un ballottaggio per i due seggi della Georgia tenutosi il 5 gennaio, a una situazione di parità tra i due partiti (50 senatori a testa su 100). Poiché tuttavia negli Usa la presidenza del Senato è attribuita al vicepresidente eletto – in questo caso Kamala Harris – i democratici potevano contare di fatto sulla maggioranza anche in questo ramo del Congresso, qualora si fosse verificata una votazione in situazione di parità tra i due partiti. La vittoria del nuovo Presidente era dunque relativamente piena, tra l’altro con il risultato più alto di sempre in numero assoluto di voti popolari. Restavano però due fatti pesanti come macigni. Il primo, importante soprattutto in prospettiva, è che lo «sconfitto» Trump continuava a godere nel paese di un consenso popolare enorme. Lo avevano votato oltre 74 milioni di cittadini, quasi 12 milioni in più di quelli che lo avevano scelto nel 2016. Tolto Biden, nessun candidato presidente aveva perso e soprattutto nemmeno vinto un’elezione con un numero così elevato di voti. Il secondo fatto, importante nell’immediato, è che Trump continuava, nonostante tutto, a non riconoscere la vittoria del suo competitor e a diffondere con ogni mezzo le tesi più strampalate e tendenziose sui brogli che avrebbero permesso ai democratici di «rubare» le elezioni, compresa quella, a dir poco fantascientifica, di un’incursione informatica che avrebbe spostato a favore di Biden milioni di voti in realtà suoi. In questo modo egli doveva letteralmente avvelenare i pozzi. Da qui gli eventi successivi.  

Dal «voto elettorale» (14 dicembre 2020) all’assalto a Capitol Hill (6 gennaio 2021)

Delle decine ricorsi legali messi in campo dagli avvocati di Trump in svariati Stati nessuno ha prodotto risultati di alcun genere. Anche le sue ruvide e imbarazzanti pressioni sul Segretario di Stato della Georgia, repubblicano, per rovesciare l’esito delle elezioni in quello Stato (dove in effetti Biden aveva vinto per soli 11.000 voti) – pressioni rivelate dal Washington Post e immortalate dalla registrazione della lunga telefonata tra i due risalente al 3 gennaio – non sortirono alcun effetto. La Costituzione e le leggi non lasciavano alcuno scampo al Presidente in carica, mentre si avvicinava la data che doveva sancire la fine di ogni contestazione – l’8 dicembre – e soprattutto quella del voto dei «grandi elettori», il 14 dicembre, i quali in effetti confermarono l’esito del voto popolare attribuendo a Biden 306 voti elettorali contro i 232 di Trump. Il passaggio successivo era la ratifica del voto elettorale nel neoeletto Congresso, che si doveva insediare il 3 gennaio e ratificare l’elezione del presidente il 6. Passaggi, di regola, poco più che formali. Il 7 novembre 2020 i principali network americani annunciano la vittoria di Biden. Sulla CNN, il commentatore Van Jones si commuove in diretta (crediti: CNN, canale YouTube) La vicenda, tuttavia, non era affatto conclusa. Doveva anzi spostarsi, con esiti infine drammatici, dalle corti di giustizia e dagli studi legali alle piazze, aizzate di continuo dal Presidente ormai uscente con discorsi e tweet infuocati. Diverse manifestazioni pro-Trump si erano già più o meno spontaneamente prodotte fin dal giorno successivo all’Election Day in varie parti del paese, con slogan del tipo «Stop the Steal», a cui era associata anche una pagina Facebook con 300.000 followers, presto chiusa dai responsabili dell’azienda. Col passare del tempo, esse crebbero di intensità, con una presenza rilevante di suprematisti bianchi e miliziani armati dell’estrema destra americana, tra cui i cosiddetti «Proud Boys», quasi sempre in tenuta militare, con armi, caschi, tute mimetiche e giubbotti antiproiettile. La più imponente di queste manifestazioni, almeno per allora, si tenne a Washington il 14 novembre, con migliaia di sostenitori, la presenza di membri repubblicani del Congresso e il saluto dello stesso Trump dall’auto presidenziale che attraversava il corteo. Un po’ dappertutto si moltiplicarono gli scontri e le violenze tra manifestanti, contro-manifestanti e forze di polizia, in un clima di crescente polarizzazione. La situazione precipitò a Washington il 6 gennaio, il giorno in cui era prevista la ratifica da parte del Congresso dell’elezione di Biden, sotto la direzione del vicepresidente di Trump Mike Pence, sempre più distante dalle posizioni del suo capo. Fu allora, infatti, che la «Save America March», con migliaia di partecipanti, si trasformò – anche per effetto dei discorsi infuocati di Rudy Giuliani e dello stesso Presidente in carica tenuti quella mattina stessa e del martellamento continuo dei social di estrema destra – in un vero e proprio assalto armato al Congresso per impedire la ratifica dell’elezione del nuovo Presidente. Protagonisti dell’assalto, iniziato intorno alle 14 (ora locale), furono in primo luogo i Proud Boys, gli Oath Keepers, i Three Percenters, svariati gruppi neonazisti e seguaci di QAnon, che riuscirono a superare i controlli di sicurezza – forse con la complicità di alcuni elementi della sicurezza stessa – e a far entrare nel Campidoglio e in altri uffici federali un’enorme massa di persone. Seguirono quattro ore di vera follia, resa immediatamente percepibile dalla presenza di personaggi a dir poco inquietanti come Jake Angeli, lo «sciamano» di Capitol Hill, uno dei leader e dei simboli della rivolta, adepto di QAnon. La seduta di ratifica fu ovviamente interrotta. Invasi da una folla disordinata e minacciosa, i locali del Congresso furono evacuati in tutta fretta dai servizi di sicurezza. Il «traditore» Mike Pence, apostrofato con dure parole nei tweet di Trump, fu portato al sicuro, insieme a molti altri deputati e senatori. Seguirono scontri a fuoco, tafferugli e devastazioni di ogni tipo. Furono sottratti o distrutti svariati computer e documenti dei Congressmen, in primo luogo della presidente democratica della Camera Nancy Pelosi, grande avversaria di Trump per tutto il corso del suo mandato e nemica numero uno dei rivoltosi. Forze dell’ordine e manifestanti fecero largo uso di gas lacrimogeni e spray urticanti, in una situazione assai difficile da riportare all’ordine. Furono anche trovati, nei pressi del Campidoglio, rudimentali ordigni esplosivi. Nel frattempo, la sindaca di Washington proclamò il coprifuoco in tutta la città a partire dalle 18, mentre attorno Capitol Hill si schieravano corpi speciali e, pur con qualche difficoltà, reparti della Guardia Nazionale. Era una specie di ultimatum indirizzato ai rivoltosi e alle migliaia di persone che continuavano ad accalcarsi attorno al Congresso. Fu proprio verso quell’ora che le forze dell’ordine riuscirono a riprendere il pieno controllo del Campidoglio, senza peraltro riuscire a disperdere del tutto i manifestanti che ancora circolavano per la città. Qualche ora più tardi riprese infine il processo di ratifica, che si concluse di notte, nelle prime ore del 7 gennaio, quando Pence annunciò finalmente che Joe Biden e Kamala Harris sarebbero entrati in carica il 20 gennaio.

L'assalto a Capitol Hill (crediti: CNN, canale YouTube)

Gravissimo l’atteggiamento di Trump durante queste ore di confusione e di violenza. Poco prima dei fatti, furono i suoi tweet contro la ratifica e Mike Pence – che invitavano a marciare sul Campidoglio e a «combattere come dannati» – a istigare di fatto l’assalto. E anche quando questo ebbe inizio, pur invitando i rivoltosi ad agire pacificamente, egli continuò a «cinguettare», dallo Studio Ovale, che le elezioni erano state una truffa. Fu l’intervento di Biden a sbloccare la situazione due ore dopo l’irruzione. In una drammatica diretta televisiva egli affermò che la «protesta» si era ormai trasformata in una vera e propria «sedizione», invitando Trump a parlare alla nazione per porre fine alle violenze (che rischiavano tra l’altro di esplodere anche in altre parti del paese). Fu solo allora che il Presidente in carica, ribadendo ancora una volta che le elezioni erano state truccate, chiese esplicitamente ai rivoltosi di tornare a casa: «Siete speciali – disse – ma andate a casa, andate a casa in pace». Il che finalmente accadde qualche ora più tardi. Il bilancio degli scontri del 6 gennaio è stato assai pesante: cinque morti, tra i quali un poliziotto, e una dozzina di feriti. Sul piano simbolico, lo spettacolo del Campidoglio violato e saccheggiato – una cosa mai successa, se non nell’ormai remoto 1814 quando, in ben altro contesto, i britannici lo diedero alle fiamme – restituiva l’immagine di un paese diviso e rancoroso e di una democrazia ferita. Non di una democrazia qualsiasi, ma di quella considerata più solida del mondo.  

L’«Inauguration Day», l’impeachment e le prospettive future

Alla «sedizione» seguirono decine di arresti. Trump promise finalmente una «transizione pacifica» alla nuova Presidenza, pur ribadendo le sue tesi circa le elezioni truccate in una situazione di perdurante tensione. Nel frattempo, tra l’8 e il 9 gennaio Twitter e Facebook – con una decisione molto forte e assai criticata – decisero di bannare «per sempre» i suoi account in quanto pericolosissimi motori di «politiche dell’odio» e di «minacce alla legalità». Nel timore di ulteriori incidenti nei giorni che ancora mancavano all’insediamento ufficiale di Biden, si fecero largo due diverse ipotesi. La prima, molto discutibile, era che il vicepresidente in carica Pence potesse addirittura rimuovere, in caso di necessità, il Presidente e assumerne i poteri sulla base del XXV emendamento, il quale prevede un dispositivo del genere qualora il Presidente manifesti una evidente «incapacità» di «adempiere le funzioni e i doveri del suo ufficio». La seconda, caldeggiata soprattutto dai democratici con un occhio alle elezioni del 2024, era quella di attivare una procedura di impeachment ai danni di Trump per istigazione alla sedizione. Fu soprattutto la presidente della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi – «Satana» in persona per i rivoltosi – a premere in questa direzione, nonostante i tempi strettissimi per mettere in piedi una procedura del genere, che doveva colpire un presidente ancora in carica. Il dispositivo dell’impeachment si mise in moto dunque il 13 gennaio.

Il video dell'insediamento di Joe Biden (YouTube, WhiteHouse.gov)

Nel frattempo, giunse finalmente il 20 gennaio, l’Inauguration Day. Trump, ovviamente, lo disertò, recandosi platealmente in Florida con la moglie Melania. «Ci rivedremo» – disse quel giorno – salendo a bordo dell’Air Force One, con una evidente allusione a una sua ricandidatura nel 2024. La cerimonia di investitura del nuovo Presidente si svolse in una città blindata. Nel suo Inaugural Address Biden sottolineò che la democrazia aveva vinto nonostante tutto. Bisognava, tuttavia, superare le divisioni, ritrovare l’unità del paese e riposizionarlo nel mondo. Combattere anzitutto la pandemia con robuste misure sanitarie ed economiche, riprendere le politiche di contrasto al riscaldamento globale interrotte dal suo predecessore, ristabilire un clima di fiducia sul tema dell’immigrazione, anche esso avvelenato da Trump in particolare con il muro al confine col Messico: erano queste le priorità della sua presidenza. Su di essa, però, è tornato quasi subito a rimaterializzarsi l’incubo Trump. Un mese dopo l’avvio dell’impeachment, il 13 febbraio, l’ex presidente è stato infatti assolto da ogni accusa in Senato, con 57 voti favorevoli e 43 contrari: meno dei voti necessari – 67 – perché la procedura avesse effetto. Certo, restavano ancora in campo diversi procedimenti giudiziari a suo carico. E tuttavia, il progetto di escluderlo per sempre da una nuova possibile corsa alla Casa Bianca sembra essere fallito. È difficile dire se questa potrà essere davvero una prospettiva concreta. Di certo, con i 74 milioni di voti che ha raccolto nell’Election Day, l’ex presidente potrà continuare a tallonare e a mettere sotto pressione l’amministrazione Biden per molto tempo. Saranno altri, magari, a raccogliere tra qualche anno la sua ricchissima eredità in termini di consensi. A oggi quello che si vede, nonostante tutte le buone intenzioni espresse da molti dopo la tempesta, è ancora un’America profondamente divisa e rancorosa, che sarà molto difficile riunire per davvero. Soprattutto se gli effetti sanitari, economici e sociali della pandemia persisteranno ancora a lungo. Crediti: Box: screenshot dal discorso di insediamento del Presidente Joe Biden, WhiteHouse.gov Banner: WhiteHouse.gov
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