di Francesco Tuccari
(settembre 2013)
SOMMARIO
1. Uno sguardo generale
2. La crisi negli Stati Uniti. Dai mutui subprime al fallimento della Lehman Brothers
3. La pandemia globale. Dagli USA al resto del mondo
4. La crisi nell'eurozona
5. Le lezioni della crisi
1. UNO SGUARDO GENERALE
Come e oltre il 1929. La storia degli ultimi anni è stata segnata da una crisi economica di enormi proporzioni che, in modi e misure differenti, ha investito l’intero pianeta. Iniziata nel 2007 e ancor oggi solo in parte superata, essa può essere paragonata per molti aspetti alla crisi del 1929. Al tempo stesso, tuttavia, presenta elementi di forte originalità, i quali derivano dai tratti specifici che il capitalismo ha assunto nell’epoca della globalizzazione e, in particolare, dal ruolo crescente e sempre meno regolamentato che in esso gioca la grande finanza internazionale.
Dagli Stati Uniti al resto del mondo.Esplosa nel paese più avanzato del mondo – gli Stati Uniti – la «grande crisi» si è diffusa con straordinaria rapidità in gran parte del globo, mettendo sotto pressione soprattutto l’Europa e le sue istituzioni comunitarie, nonché le economie e gli assetti politici di molti dei suoi Stati membri. Italia compresa.
Le ricette e le conseguenze della crisi. La crisi ha sollecitato risposte contraddittorie, che ne hanno in parte attenuato ma in parte anche aggravato gli effetti. In diversi paesi essa è ormai in ampia misura alle spalle. In altri, invece, ha lasciato pesanti strascichi: una grave recessione, una diffusa contrazione delle attività produttive, degli scambi e dei consumi, una crescita consistente del debito pubblico, tassi elevati di disoccupazione, segnali evidenti di impoverimento delle classi medie e di aumento della «povertà assoluta», un netto acuirsi delle diseguaglianze. Con tutte le tensioni sociali e politiche che tali fenomeni tendono a produrre.
Verso nuove crisi? Data l’ormai pressoché totale interdipendenza del mondo, non è affatto da escludersi che questi strascichi possano diventare in futuro i focolai di nuove e più aspre crisi globali. Su quali siano le ricette da adottare per scongiurare il ripetersi di tali crisi o per renderne meno severi gli effetti vi sono, però, visioni differenti e talora del tutto opposte. Il che lascia aperte molte incognite su ciò che ci aspetta nei prossimi anni.
2. LA CRISI NEGLI STATI UNITI. DAI MUTUI SUBPRIME AL FALLIMENTO DELLA LEHMAN BROTHERS
La data simbolo della crisi. È difficile individuare con precisione il «punto zero» della crisi. La data che ne costituisce il simbolo – come lo è per la Grande Depressione il 24 ottobre 1929, il «giovedì nero» del crollo della Borsa di Wall Street – è il 15 settembre 2008. È in quel giorno, infatti, che la Lehman Brothers, una delle più importanti banche di investimento degli Stati Uniti, con interessi e filiali in tutto il mondo, dichiarò fallimento, seminando il panico sui mercati finanziari dell’intero pianeta e dando quindi un poderoso impulso globale alla crisi. Alla «Grande Recessione», come l’ha ribattezzata l’economista Nouriel Roubini.
L’inizio della crisi: la bolla immobiliare. All’epoca della bancarotta della Lehman Brothers, tuttavia, la crisi era già iniziata da oltre un anno. E come quasi tutte le grandi crisi economiche del passato, essa aveva preso avvio dallo scoppio di una gigantesca bolla speculativa. Vale a dire, dalla contrazione più o meno improvvisa di un mercato che per qualche tempo aveva promesso guadagni facili e sicuri, scatenando una spericolata «febbre speculativa».
Gli Stati Uniti avevano già sperimentato negli anni Novanta un fenomeno del genere con la bolla delle «dot.com», che non aveva però prodotto conseguenze sistemiche. Al principio del nuovo millennio, invece, una seconda bolla speculativa ebbe effetti devastanti. Fu questa seconda bolla il detonatore – anche se non certo la causa – della «grande crisi». In questo caso a far crescere la febbre speculativa fu il mercato immobiliare: una corsa generalizzata all’acquisto della casa, considerata come un bene di prima necessità per chi ne era privo e come un investimento sicuro per chi voleva far fruttare il proprio denaro. Nonché per le imprese edili e un’ampia schiera di intermediatori finanziari in vario modo legati al mercato immobiliare.
A rendere possibile questa corsa al mattone, ben comprensibile in un paese che stava cercando di riprendersi dal trauma anche economico dell’11 settembre 2001, contribuirono diversi fattori che dovevano finire per avvelenare la finanza mondiale. O, meglio, che dovevano mostrare quanto essa fosse già avvelenata da tempo per effetto di una deregulation radicale che aveva preso corpo negli ultimi due decenni del secolo scorso, in nome di una fiducia illimitata nelle capacità autoregolative del mercato.
I mutui subprime. Tra questi fattori ha giocato un ruolo determinante – accanto agli incentivi del governo per l’acquisto della prima casa e ai bassissimi tassi di interesse fissati per diversi anni dalla Federal Reserve (Fed), la banca centrale statunitense – la vera e propria proliferazione dei «mutui subprime». Vale a dire, di mutui concessi con estrema facilità a soggetti a elevato rischio di insolvenza.
Tali mutui, garantiti da un’ipoteca sulla casa che veniva acquistata, prevedevano di regola un pagamento a tasso fisso per due o tre anni che diventava variabile negli anni successivi, adeguandosi ai tassi di interesse definiti dalla banca centrale. In base a questo meccanismo, l’estrema facilità di accesso al credito aveva il suo corrispettivo, dopo poco tempo, in una crescita consistente delle rate che i debitori dovevano pagare per i successivi due o tre decenni. E tuttavia il costante aumento del valore delle case, prodotta dall’euforia del mattone, sembrava in grado di cancellare ogni preoccupazione. Nella peggiore delle ipotesi, infatti, i mutuatari ritenevano di poter mettere in vendita il proprio immobile e ricavarne ancora dei vantaggi. Molto spesso, anzi, i nuovi proprietari, vedendo rivalutarsi il prezzo della propria casa, chiedevano e ottenevano ulteriori prestiti, garantiti dal valore accresciuto degli immobili, per pagare le tasse universitarie ai figli o acquistare una nuova auto. In diversi casi, essi si spinsero a comprare nuove case come forma sicura di investimento. Il risultato fu un indebitamento vertiginoso delle famiglie e degli investitori.
Anche le banche e gli istituti finanziari ritenevano di non correre grandi pericoli nell’esporsi alla concessione di tali prestiti. Non tanto perché, in ultima istanza, potevano entrare in possesso delle case degli eventuali mutuatari insolventi e rimetterle in vendita a un prezzo superiore. Ma soprattutto perché avevano trovato il modo di «scaricare» sul mercato, attraverso alchimie finanziarie sempre più sofisticate, il rischio dei mutui subprime.
La cartolarizzazione dei mutui. La formula magica di questa distribuzione del rischio è stata la «cartolarizzazione». Applicabile a svariate fattispecie di crediti, essa consisteva nel trasformare i prestiti immobiliari delle banche in titoli (in «carta») da vendere in pacchetti ad altri investitori privati o istituzionali (banche di investimento, fondi pensioni, etc.) e aventi come garanzia i mutui stessi. In questo modo, «impacchettando» in forme sempre più articolate tali titoli, banche e istituti finanziari potevano liberarsi del rischio legato ai mutui e rientrare in possesso di una liquidità tale da permettere l’emissione di ulteriori mutui, che venivano dunque concessi con crescente larghezza. Gli investitori che acquistavano tali titoli, per parte loro, ritenevano di accedere a un investimento sicuro perché era impensabile l’ipotesi di una insolvenza di massa sui mutui casa. Tanto più in una fase di boom immobiliare. L’impacchettamento di questi titoli assunse – come è stato detto – forme sempre più «fantasiose» ed «esoteriche», intrecciandosi con la diffusione di strumenti finanziari di copertura del rischio come i Cds («Credit default swap»), che, al di fuori di qualsiasi regolamentazione, si prestavano a spericolate manovre speculative. Divenne così estremamente difficile valutare l’effettivo livello di rischio di una gigantesca massa di titoli circolanti non soltanto sul mercato statunitense ma, data la stretta interdipendenza della finanza mondiale, sui mercati finanziari globali.
Più in generale: la deregulation del mercato finanziario. L’incredibile proliferazione di questi titoli fu resa possibile anche da altri importanti fattori, derivanti sempre dalla deregulation degli scambi finanziari degli anni Ottanta e Novanta. Tra essi ebbe un ruolo cruciale il progressivo venir meno della barriera di separazione tra banche commerciali (che raccolgono depositi ed emettono prestiti) e banche d’investimento o d’affari (che si occupano invece della compravendita dei titoli). Questa separazione, introdotta nel 1933, venne definitivamente a cadere nel 1999, durante la presidenza Clinton, con il Financial Modernization Act, che rendeva possibile la fusione tra i due tipi di banca nonché tra esse e altre istituzioni finanziarie quali ad esempio le società assicurative. Sorsero in tal modo enormi holding finanziarie «too big to fail», troppo grandi per poter fallire, le quali potevano esporre i depositi dei risparmiatori ai rischi del gioco della finanza. Nello stesso tempo vennero meno anche le regole che fissavano limiti ai debiti che le banche d’affari potevano contrarre in relazione alle proprie riserve, le quali costituivano una importante garanzia contro le perdite derivanti da investimenti a rischio. Il tutto, sullo sfondo di uno sviluppo assai consistente del cosiddetto «sistema bancario ombra». Vale a dire, di un sistema di istituti finanziari che funzionavano come banche, ma senza la regolamentazione e le garanzie delle banche convenzionali: l’assicurazione sui depositi e la possibilità di accedere a un prestito di ultima istanza da parte della banca centrale. Due garanzie che implicavano una qualche sorveglianza sull’operato delle banche normali. Potendo offrire condizioni migliori, il sistema bancario ombra entrò in concorrenza con il sistema bancario tradizionale, inondando il mercato di titoli ad alto rischio. Esso divenne rapidamente il punto debole della crisi che stava per esplodere.
Gli altri fattori della crisi. Le ragioni del boom immobiliare risultano ancora più chiare se a quanto detto aggiungiamo ancora l’interesse delle agenzie di rating a sovrastimare i titoli cartolarizzati, peraltro oggettivamente assai difficili da valutare; il sistema dei bonus milionari di cui potevano beneficiare, ai vari livelli del business delle cartolarizzazioni, i mediatori finanziari, spinti per questo a premere l’acceleratore sull’intero processo; il senso di sicurezza di istituti finanziari «too big to fail» e dunque quasi certi di poter attingere in casi di estrema necessità alle risorse della Fed e del governo; e ancora l’enorme massa di denaro liquido con cui i paesi stranieri – fiduciosi nella locomotiva Usa – hanno finanziato il debito degli Stati Uniti acquistando una gran massa di prodotti cartolarizzati.
Dal boom alla catastrofe. In un contesto del genere il mercato immobiliare conobbe per alcuni anni una straordinaria espansione. Quando, tuttavia, l’offerta di immobili cominciò a superare la domanda, la tendenza prese a invertirsi con conseguenze catastrofiche, che dovevano andare ben al di là del mercato della casa e degli stessi confini degli Stati Uniti.
Questa inversione di tendenza cominciò a manifestarsi intorno al 2005-2006. Fu allora che, in un mercato ormai saturo, i prezzi delle case dapprima si stabilizzarono e poi iniziarono a scendere. Ciò avvenne proprio mentre la Fed aveva iniziato ad aumentare i tassi di interesse e i mutuatari dovevano cominciare a far fronte alla forte crescita delle rate dei propri mutui, passati dal tasso fisso al tasso variabile. Famiglie e investitori si ritrovarono allora indebitati al di sopra delle proprie possibilità per beni che stavano perdendo il loro valore. E in breve tempo smisero di pagare i propri mutui. Ebbe così inizio una vera e propria catena di pignoramenti, che rimetteva in circolazione beni in gran parte deprezzati e difficilmente ricollocabili sul mercato. La contrazione del mercato immobiliare finì a sua volta per far crollare il valore dei titoli cartolarizzati e per rimbalzare sulle banche e gli istituti finanziari che negli Stati Uniti e in tutto il mondo li avevano acquistati in quantità massicce. Oltre che su moltissimi investitori privati che si erano giocati i risparmi di una vita. Fu così che il panico si impadronì dei mercati, amplificato dal fatto che nessuno era ormai più in grado di capire – data la complessità dei prodotti finanziari cartolarizzati – il valore reale dei titoli e, con esso, le misure reali dell’esposizione di banche e istituzioni finanziarie.
In tale quadro la crisi di diversi istituti di credito nel corso del 2007 portò a una brusca contrazione del credito e dei prestiti interbancari e al rapido esaurirsi del flusso delle cartolarizzazioni. Il tutto, in un clima di sfiducia reciproca, mentre le agenzie di rating iniziavano a declassare un’ampia serie di titoli apparsi improvvisamente «tossici» e sullo sfondo del rischio di una generalizzata corsa agli sportelli.
La conseguenza fu che molti giganti finanziari giunsero al collasso, rendendo necessari ripetuti interventi della Fed e del governo. Il caso più spettacolare – come si è già detto – fu quello della Lehman Brothers, che dovette dichiarare fallimento il 15 settembre 2008, alimentando un’ondata di panico di scala planetaria.
3. LA PANDEMIA GLOBALE. DAGLI USA AL RESTO DEL MONDO
Le risposte alla crisi negli Usa. Negli Stati Uniti i massicci interventi della Fed riuscirono alla fine a tenere quasi del tutto sotto controllo le conseguenze più catastrofiche della crisi. Il paese, tuttavia, rimase prigioniero di una pesante stretta creditizia che per diverso tempo ebbe l’effetto di tagliare (o rendere assai più caro) il credito alle imprese, creare disoccupazione, ridurre i consumi e accentuare la recessione e i suoi costi sociali.
Il contagio globale e le sue dinamiche. Nel frattempo la crisi investì il resto del mondo. In primo luogo perché le banche di tutto il globo si ritrovarono con una gran massa di «titoli salsiccia» – come li ha definiti Roubini – insaccati a Wall Street dagli stregoni delle cartolarizzazioni e furono dunque spinte, anche per premunirsi contro l’eventualità di corse agli sportelli, sulla strada di una dura stretta creditizia. In secondo luogo perché, soprattutto all’indomani dello choc della Lehman Brothers, la contrazione dell’economia degli Stati Uniti, il più grande paese importatore del pianeta, produsse una pesante riduzione del commercio mondiale, infliggendo forti danni ai molti piccoli e grandi paesi che vi esportavano le proprie merci.
Il «contagio», tuttavia, non si diffuse con la stessa virulenza nel corpo delle altre economie del pianeta. Alcuni paesi – ad esempio il Canada e l’India – ne rimasero immuni. Molti paesi emergenti, invece, furono colpiti severamente. Così, ad esempio, quelli dell’Europa centrale e orientale, che subirono una rilevante contrazione degli investimenti stranieri. E così, ancora, con l’eccezione dell’India, diversi paesi Brics – acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – che subirono pesanti conseguenze, determinate anche da specifiche situazioni interne, presto però compensate da una straordinaria capacità di ripresa e di crescita.
Più in generale, la crisi colpì prevalentemente i paesi che presentavano già in se stessi vulnerabilità più o meno evidenti, in molti casi simili a quelle del sistema americano. Colpì, dunque, soprattutto i paesi più avanzati e in specie l’Europa. Vale a dire quelle economie che erano più interconnesse sul piano finanziario, che detenevano le maggiori quote dei titoli «tossici» statunitensi e che, anche indipendentemente dal dissesto americano, avevano praticato i giochi della finanza creativa sull’onda di svariate bolle speculative «locali». Molti di questi paesi erano in preda alla morsa della stretta creditizia e della recessione già prima del tracollo della Lehman Brothers.
La crisi in Europa. Approdando in Europa, la grande crisi si caricò di nuove implicazioni. Essa, infatti, produsse rilevanti interventi pubblici a sostegno delle banche, anche a difesa dei risparmi dei depositanti. In tal modo si posero le premesse di un profondo dissesto dei conti pubblici che, a sua volta, doveva ricadere sulle spalle dei cittadini in quanto contribuenti o fruitori di servizi, amplificando in tal modo gli effetti della grande crisi.
I primi segnali di inquietudine si manifestarono in Francia, in Gran Bretagna e in Svizzera. Fu tuttavia in Islanda che la crisi si mostrò per la prima volta in tutta la sua virulenza. Nel 2008 essa portò il paese sull’orlo del fallimento e impose severe politiche di rigore, che furono rigettate dalla popolazione tra il 2010 e il 2011 e sostituite con più accettabili (e alla fine vincenti) politiche di «austerità sostenibile».
In realtà di maggiori dimensioni la gestione della crisi risultò assai più complessa, specialmente all’interno della cosiddetta «eurozona». Vale a dire in quei paesi che, a differenza di Gran Bretagna e Islanda, condividevano l’esperimento grandioso ma estremamente problematico della moneta unica. È in questo contesto che la grande crisi ha prodotto le maggiori tensioni. Soprattutto nei paesi definiti spregiativamente Pigs («maiali»), acronimo di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, divenuti poi Piigs con l’aggiunta dell’Italia. Anche in questi paesi, infatti, la crisi si tradusse nella forma di un gravissimo deficit nelle finanze dello Stato, derivante per un verso da una contrazione delle entrate fiscali a fronte della stagnazione delle attività economiche e dei consumi e per un altro verso dal livello crescente della spesa pubblica, costretta quasi sempre ad accollarsi i costi del salvataggio di banche e imprese. Per affrontare il deficit pubblico, tuttavia, i paesi più deboli dell’eurozona avevano armi del tutto spuntate. E in breve tempo si ritrovarono sull’orlo del baratro. Vediamo prima «perché» e poi «come».
Strategie anticrisi nell’eurozona. Di regola gli Stati hanno quattro strumenti essenziali per affrontare il proprio deficit. Innanzitutto, politiche di stimolo alla crescita che rendano possibile un maggior prelievo fiscale e quindi irrobustiscano le entrate. In secondo luogo, consistenti tagli alla spesa pubblica, che abbattano invece il deficit sul fronte delle uscite. In terzo luogo, l’emissione di nuova moneta da parte delle banche centrali. Infine il ricorso al debito pubblico, vale a dire la richiesta di fondi in prestito attraverso la vendita di titoli di Stato i quali, dopo un periodo prestabilito, vengono restituiti all’acquirente-creditore con un interesse adeguato al rischio sostenuto.
In una situazione di crisi grave e improvvisa, il primo strumento – politiche di stimolo alla crescita – è almeno in principio assai difficile da attivare, perché i suoi costi non sono di solito sostenibili da finanze statali già in dissesto. Il secondo strumento – i tagli alla spesa pubblica – è stato ampiamente utilizzato dai Piigs, anche per imposizione dei vertici dell’Unione europea (Ue). Nel vortice di una crisi, tuttavia, esso tende a deprimere ulteriormente la crescita e i consumi, con costi sociali elevatissimi, rivelandosi molto spesso in gran parte controproducente anche ai fini della riduzione del debito. Il terzo strumento – l’emissione di moneta da parte delle banche centrali – funziona, sia pure con pesanti conseguenze, quando gli Stati hanno una propria banca centrale, come la Fed negli Stati Uniti e la Banca d’Inghilterra nel Regno Unito. Esso, tuttavia, era del tutto precluso ai paesi dell’eurozona, in quanto la Banca centrale europea (Bce) doveva e deve guardare agli equilibri complessivi della moneta unica, senza poter intervenire, se non indirettamente e in modo straordinario, a sciogliere le crisi di liquidità dei singoli Stati. Il quarto strumento – il ricorso al debito pubblico – funziona, infine, quando gli Stati godono di buona salute. Quando, cioè, coloro che acquistano titoli di Stato nutrono fiducia nello Stato che li emette e nella sua capacità di essere solvente. Se ciò non avviene, se gli Stati vengono considerati a rischio di insolvenza dagli investitori – ed è proprio qui che è andata addensandosi la variante europea della grande crisi – i tassi di interesse sul debito pubblico salgono in maniera vertiginosa, con l’effetto di rendere sempre più pesante l’indebitamento dello Stato medesimo esponendolo, a ogni asta di titoli, al rischio di bancarotta. Il famigerato «spread» – un termine diventato familiare con la crisi – è per l’appunto la misura dell’affidabilità di uno Stato. Sono per l’appunto i numeri magici dello spread che hanno scandito il dramma dei Piigs, sottoponendo inoltre a profonde tensioni la tenuta complessiva della moneta unica e dell’Unione europea.
4. LA CRISI NELL'EUROZONA
La crisi nell’eurozona ha coinvolto prevalentemente e in modo quasi simultaneo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e l’Italia.
La crisi in Grecia. In Grecia la crisi ha assunto dimensioni catastrofiche. Fino alla prima metà del 2009 sembrava che il paese non avesse risentito in modo drammatico della «grande crisi». Inoltre, a differenza di quanto era o sarebbe avvenuto in altri casi – ad esempio negli Usa, in Irlanda, in Spagna – in Grecia non vi era un consistente problema di spesa privata fuori controllo di cui dovesse farsi carico lo Stato. Ad Atene a essere del tutto fuori controllo era direttamente la spesa pubblica. Solo che nessuno lo sapeva, compresi gli stessi greci. Fu dunque un vero e proprio choc, il 19 ottobre 2009, l’annuncio del socialista George Papandreu, divenuto capo del governo dopo le elezioni del 4 ottobre, che la situazione dei conti pubblici, occultata e falsificata per anni, era semplicemente drammatica. Ne seguì un vero e proprio terremoto. Le agenzie di rating declassarono i titoli del debito pubblico greco al livello «junk», spazzatura, facendo così schizzare alle stelle lo spread. Nei primi mesi del 2010 il governo varò un piano di pesantissime misure di austerità e chiese a Ue, Bce e il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) – la troika – di intervenire con un prestito di salvataggio. Da quel momento il paese iniziò ad avvitarsi in una spirale di crisi di cui ancor oggi, nel 2013, è sostanzialmente prigioniero: una spirale fatta di nuove e sempre più dure misure di rigore, di obiettivi di risanamento mai raggiunti, di spread crescente, di nuovi prestiti assai faticosamente concessi da Ue e Fmi, di trattative defatiganti per ridurre il debito del paese nei confronti degli investitori privati, di ripetuti declassamenti da parte delle agenzie di rating, di disoccupazione e povertà in aumento, di gravissime tensioni sociali più volte esplose in violenti scontri di piazza, di crescita zero. Una situazione esplosiva, cui non sono riusciti a porre rimedio – dopo Papandreu – i governi presieduti da Lucas Papademos e poi da Antonis Samaras.
La crisi in Irlanda. La crisi irlandese presenta alcuni elementi in comune con quella dell’Islanda e degli stessi Stati Uniti. Anche questo paese, infatti, aveva conosciuto un notevole sviluppo tra gli anni Novanta e quelli della «grande crisi», al punto da essere soprannominato la «Tigre celtica». Esso aveva visto crescere i propri livelli di ricchezza e di reddito, grazie anche a un flusso consistente di investimenti stranieri e allo sviluppo del settore dei servizi finanziari, che favorirono un credito senza regole e controlli adeguati. In tale quadro, anche in Irlanda si gonfiò una bolla immobiliare che scoppiò infine nel 2007, proprio mentre era in arrivo dagli Usa l’uragano della grande crisi. La «tigre» si trasformò allora in «maiale». Tra il 2008 e il 2009 il governo si trovò costretto ad annunciare gravose iniezioni di liquidità nelle banche in dissesto, facendo ulteriormente lievitare il debito pubblico, mentre la recessione avanzava. In una simile situazione, e a fronte della persistente sfiducia dei mercati, l’Irlanda dovette accettare gli aiuti di Ue, Bce e Fmi, con l’impegno a tagliare di circa un quinto la spesa pubblica (welfare, stipendi, etc.) entro il 2014. Si aprì in tal modo uno scenario catastrofico, soprattutto per i ceti più deboli e per la massa di coloro che si erano ritrovati senza lavoro o in una situazione di crescente povertà. All’inizio del 2013, tuttavia, dopo anni durissimi, l’Irlanda ha iniziato a dare alcuni timidi segnali di ripresa, cui hanno contribuito in misura apprezzabile strategie di crescita orientate alle energie rinnovabili e alla cosiddetta «green economy».
La crisi in Portogallo e in Spagna. Furono differenti le dinamiche della crisi nella penisola iberica. Il Portogallo entrò nel club dei «maiali» tra il 2010 e il 2011. Ciò avvenne essenzialmente per la bassissima competitività della sua economia rispetto alle grandi locomotive dello sviluppo europeo, Germania in testa, e nel contempo per gli elevati sprechi della sua spesa pubblica. Fu ancora diverso il caso della Spagna. Il paese, dopo la fine della dittatura di Franco (1975) e fino alla grande crisi, aveva conosciuto un periodo di intenso sviluppo, di cui erano stati interpreti – sia pure in modi differenti – i governi di Felipe Gonzàlez (1982-96), di José Maria Aznar (1996-2004) e, almeno sino al suo primo mandato, di José Luis Zapatero (2004-2008). Poco prima e poi durante il secondo governo Zapatero (2008-2011), questo trend si interruppe bruscamente, in concomitanza con la crisi economica mondiale. Anche in questo caso giocò un ruolo decisivo una gigantesca bolla immobiliare che era andata crescendo negli anni del «miracolo» e che scoppiò in parte per ragioni interne e in parte per effetto della stretta creditizia indotta dalla grande crisi, lasciando famiglie, aziende e banche in una situazione di pesantissimo indebitamento. Zapatero cercò di minimizzare la gravità della situazione. Già al principio del 2009, tuttavia, la Spagna era in recessione. Decine di migliaia di case erano rimaste invendute. La disoccupazione andava crescendo. I consumi calavano in modo verticale. Lo stato dei conti pubblici peggiorava. Lo spread saliva, e con esso la diffidenza dei mercati. La Spagna, insomma, era pronta a fare il suo ingresso nel «recinto dei maiali» e a diventare, anzi, uno dei paesi più a rischio d’Europa. È in questo quadro che le elezioni anticipate del 2011 portarono al governo il popolare Mariano Rajoy. Il suo programma di tagli alla spesa pubblica, sollecitato dall’Ue, costituì un vero e proprio choc per i suoi costi sociali. Nel frattempo, per l’ulteriore aggravarsi della crisi bancaria, nell’estate del 2012 la Spagna ufficializzò la sua richiesta di aiuti all’Ue, che portò a sua volta ulteriori misure di austerità, seguite da un’incontenibile aumento della disoccupazione, da un pesante calo dei consumi, da un crescente indebitamento e più in generale dal blocco della crescita del paese. Solo intorno alla metà del 2013 il paese è riuscito ad avviarsi sulla strada di una timida ripresa.
La crisi in Italia. L’Italia entrò a far parte del club dei «maiali» intorno alla seconda metà del 2011. La crisi italiana, tuttavia, fu solo indirettamente condizionata dall’andamento più generale della grande crisi. Le sue banche non erano avvelenate, se non in misura contenuta, da titoli tossici. Né vi erano state bolle speculative paragonabili a quelle statunitense o spagnola. I problemi fondamentali del paese erano di natura strutturale e di più lungo periodo. Essi erano (e sono) riconducibili a una sostanziale stagnazione economica, che affliggeva il paese da un paio di decenni e che aveva le proprie radici in molteplici fattori: la bassa competitività delle sue imprese – in gran parte di piccole dimensioni – sui mercati globali; una scarsa propensione a investire sull’innovazione; la tradizionale arretratezza del Sud; un’elevatissima bolletta energetica; l’alto costo del lavoro; una crisi sempre più ampia dei ceti medi e dunque dei consumi. Derivava da qui, oltre che da una pressione fiscale molto forte resa necessaria anche da livelli patologici di evasione, la scarsa crescita del paese. Essa era gravata ulteriormente dal peso di una pubblica amministrazione in alcuni casi elefantiaca e inefficiente e da un’elevata spesa sociale. È su questa realtà che doveva abbattersi la grande crisi. La contrazione del commercio mondiale e la stretta creditizia, infatti, indebolirono ulteriormente le imprese, fecero calare gli investimenti, l’occupazione, i consumi. Per circa un triennio – tra il 2008 e il 2011 – il governo Berlusconi si sforzò di tenere la rotta, negando la gravità della crisi, riducendo le tasse, tagliando la spesa pubblica e tentando di incentivare i consumi. Poi, nell’estate del 2011 – mentre Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna si paralizzavano – l’Italia entrò nel mirino delle agenzie di rating e lo spread iniziò a impennarsi. Ciò significava, ancora una volta, che l’arma del debito pubblico stava cessando di essere un’arma tagliente per finanziare il deficit e rimediare alla crisi. Il tutto, in un clima di sfiducia crescente da parte dell’Ue e dei mercati. In tale quadro Berlusconi fu costretto a dimettersi nel novembre 2011. Gli subentrò un governo «tecnico» guidato da Mario Monti, che godeva di ampio credito in Europa e che, in sintonia con le direttive Ue, rimase in carica sino ai primi mesi del 2013, potendo usufruire di importanti aiuti da parte della Bce. Le misure introdotte da questo governo – una controversa riforma del mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica e un significativo aumento delle tasse (con l’introduzione, tra le altre, di una pesante tassazione sugli immobili, l’Imu) – finirono per produrre l’ormai ben nota spirale di austerità e recessione. Una spirale, ancora una volta, dagli elevati costi sociali e tale da deprimere ulteriormente i consumi e dunque la crescita. In concomitanza con la complessa congiuntura politica emersa con le elezioni politiche del 2013 e poi con la formazione del governo di larghe intese presieduto da Enrico Letta, la situazione è andata almeno relativamente stabilizzandosi, grazie soprattutto all’esaurirsi della fase più virulenta e drammatica della «grande crisi». Ciò nonostante, nella seconda metà del 2013, l’Italia continua a essere un paese che non riesce a crescere in maniera significativa e per ciò stesso ancora a rischio.
5. LE LEZIONI DELLA CRISI
Tre lezioni. I costi della crisi sono stati enormi. Soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, dove hanno avuto una sia pur effimera fortuna grandi movimenti spontanei di protesta come quelli di «Occupy Wall Street» e degli «indignados». Le lezioni che essa ha impartito a una parte consistente degli analisti e soprattutto dell’opinione pubblica sono tre.
Il controllo della finanza. La prima riguarda la necessità di ristabilire una qualche forma di controllo sul mondo della grande finanza internazionale e dei suoi custodi troppo spesso inattendibili, le agenzie di rating, tornando nel contempo a circoscrivere l’eccessiva espansione e le storture del sistema bancario ombra.
Le ricette anticrisi. La seconda lezione riguarda le ricette anticrisi. Sebbene il punto sia altamente controverso, è ormai ampiamente consolidata l’idea che le ricette del rigore, dell’austerità, dei tagli indiscriminati alla spesa pubblica, producono più problemi di quanti in effetti non riescano a risolverne. Per lo più – lo abbiamo visto – attivando una pericolosa spirale di recessione, contrazione dei consumi, stagnazione della crescita. Secondo molti, l’austerità, senz’altro indispensabile, deve essere «sostenibile» e soprattutto legarsi a consistenti politiche di stimolo alla crescita e allo sviluppo economico. Pena la paralisi.
La crisi e l’Europa. La terza lezione, infine, riguarda l’Europa e in particolare l’eurozona. La crisi, infatti, ha mostrato le criticità della costruzione europea dopo Maastricht (1992) e il Trattato di Lisbona (2009). L’esperimento di una moneta unica senza Stato ha infatti esposto alle tempeste della finanza internazionale una realtà estremamente complessa, trainata da una locomotiva potentissima – la Germania – ma composta da tanti altri paesi con pesanti difficoltà (ben 27 Stati membri dell’Ue, di cui 17 nell’eurozona). In un quadro di questo genere, la Bce non ha avuto, né poteva avere, gli strumenti per agire come tutte le altre banche centrali del mondo. L’assenza di un governo comune della casa europea, a sua volta, ha fatto prevalere le ragioni del più forte, vale a dire di una Germania non disposta oltre a una certa misura a farsi carico dei debiti pubblici degli altri Stati membri e dunque artefice del rigore. Nel contesto della crisi, la creazione dei cosiddetti fondi salva-stati ha così costituito una soluzione di ripiego, che non può certo risolvere in radice il problema degli squilibri economici e finanziari interni all’Unione. Le ricette del rigore a cui sono stati subordinati gli aiuti – culminate nel Fiscal compact del 2 marzo 2012, con il quale 25 paesi dell’Ue si sono vincolati a rigide discipline di bilancio – non hanno poi fatto altro che accrescere le diffidenze verso l’Europa a guida tedesca e l’euroscetticismo. E tuttavia, nell’era della globalizzazione dei mercati e della grande finanza internazionale, l’Ue costituisce realisticamente un punto di non ritorno. Il problema è che essa deve procedere a piè sospinto sulla strada di una compiuta unione politica, mettendo in campo adeguate e conseguenti strategie di coesione economica e sociale. Una maggiore integrazione europea, e non lo smantellamento dell’Unione, più Europa e non meno Europa, costituiscono a detta di molti l’imperativo del momento.