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Storia di oggi

4. LA CRISI NELL'EUROZONA

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La crisi nell’eurozona ha coinvolto prevalentemente e in modo quasi simultaneo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e l’Italia.


La crisi in Grecia. In Grecia la crisi ha assunto dimensioni catastrofiche. Fino alla prima metà del 2009 sembrava che il paese non avesse risentito in modo drammatico della «grande crisi». Inoltre, a differenza di quanto era o sarebbe avvenuto in altri casi – ad esempio negli Usa, in Irlanda, in Spagna – in Grecia non vi era un consistente problema di spesa privata fuori controllo di cui dovesse farsi carico lo Stato. Ad Atene a essere del tutto fuori controllo era direttamente la spesa pubblica. Solo che nessuno lo sapeva, com­presi gli stessi greci. Fu dunque un vero e proprio choc, il 19 ottobre 2009, l’annuncio del socialista George Papandreu, divenuto capo del governo dopo le elezioni del 4 ottobre, che la situazione dei conti pubblici, occultata e falsificata per anni, era semplicemente drammatica. Ne seguì un vero e proprio terremoto. Le agenzie di rating declassarono i titoli del debito pubblico greco al livello «junk», spazzatura, facendo così schizzare alle stelle lo spread. Nei primi mesi del 2010 il governo varò un piano di pesantissime misure di austerità e chiese a Ue, Bce e il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) – la troika – di intervenire con un prestito di salvataggio. Da quel momento il paese iniziò ad avvitarsi in una spirale di crisi di cui ancor oggi, nel 2013, è sostanzialmente prigioniero: una spirale fatta di nuove e sempre più dure misure di rigore, di obiettivi di risanamento mai raggiunti, di spread crescente, di nuovi prestiti assai faticosamente concessi da Ue e Fmi, di trattative defatiganti per ridurre il debito del paese nei confronti degli investitori privati, di ripetuti declassamenti da parte delle agenzie di rating, di disoccupazione e povertà in aumento, di gravissime tensioni sociali più volte esplose in violenti scontri di piazza, di crescita zero. Una situazione esplosiva, cui non sono riusciti a porre rimedio – dopo Papandreu – i governi presieduti da Lucas Papademos e poi da Antonis Samaras.

La crisi in Irlanda. La crisi irlandese presenta alcuni elementi in comune con quella dell’Islanda e degli stessi Stati Uniti. Anche questo paese, infatti, aveva conosciuto un notevole sviluppo tra gli anni Novanta e quelli della «grande crisi», al punto da essere soprannominato la «Tigre celtica». Esso aveva visto crescere i propri livelli di ricchezza e di reddito, grazie anche a un flusso consistente di investimenti stranieri e allo sviluppo del settore dei servizi finanziari, che favorirono un credito senza regole e controlli adeguati. In tale quadro, anche in Irlanda si gonfiò una bolla immobiliare che scoppiò infine nel 2007, proprio mentre era in arrivo dagli Usa l’uragano della grande crisi. La «tigre» si trasformò allora in «maiale». Tra il 2008 e il 2009 il governo si trovò costretto ad annunciare gravose iniezioni di liquidità nelle banche in dissesto, facendo ulteriormente lievitare il debito pubblico, mentre la recessione avanzava. In una simile situazione, e a fronte della persistente sfiducia dei mercati, l’Irlanda dovette accettare gli aiuti di Ue, Bce e Fmi, con l’impegno a tagliare di circa un quinto la spesa pubblica (welfare, stipendi, etc.) entro il 2014. Si aprì in tal modo uno scenario catastrofico, soprattutto per i ceti più deboli e per la massa di coloro che si erano ritrovati senza lavoro o in una situazione di crescente povertà. All’inizio del 2013, tuttavia, dopo anni durissimi, l’Irlan­da ha iniziato a dare alcuni timidi segnali di ripresa, cui hanno contribuito in misura apprezzabile strategie di crescita orientate alle energie rinnovabili e alla cosiddetta «green economy».

La crisi in Portogallo e in Spagna. Furono differenti le dinamiche della crisi nella penisola iberica. Il Portogallo entrò nel club dei «maiali» tra il 2010 e il 2011. Ciò avvenne essenzialmente per la bassissima competitività della sua economia rispetto alle grandi locomotive dello sviluppo europeo, Germania in testa, e nel contempo per gli elevati sprechi della sua spesa pubblica. Fu ancora diverso il caso della Spagna. Il paese, dopo la fine della dittatura di Franco (1975) e fino alla grande crisi, aveva conosciuto un periodo di intenso sviluppo, di cui erano stati interpreti – sia pure in modi differenti – i governi di Felipe Gonzàlez (1982-96), di José Maria Aznar (1996-2004) e, almeno sino al suo primo mandato, di José Luis Zapatero (2004-2008). Poco prima e poi durante il secondo governo Zapatero (2008-2011), questo trend si interruppe bruscamente, in concomitanza con la crisi economica mondiale. Anche in questo caso giocò un ruolo decisivo una gigantesca bolla immobiliare che era andata crescendo negli anni del «miracolo» e che scoppiò in parte per ragioni interne e in parte per effetto della stretta creditizia indotta dalla grande crisi, lasciando famiglie, aziende e banche in una situazione di pesantissimo indebitamento. Zapatero cercò di minimizzare la gravità della situazione. Già al principio del 2009, tuttavia, la Spagna era in recessione. Decine di migliaia di case erano rimaste invendute. La disoccupazione andava crescendo. I consumi calavano in modo verticale. Lo stato dei conti pubblici peggiorava. Lo spread saliva, e con esso la diffidenza dei mercati. La Spagna, insomma, era pronta a fare il suo ingresso nel «recinto dei maiali» e a diventare, anzi, uno dei paesi più a rischio d’Europa. È in questo quadro che le elezioni anticipate del 2011 portarono al governo il popolare Mariano Rajoy. Il suo programma di tagli alla spesa pubblica, sollecitato dall’Ue, costituì un vero e proprio choc per i suoi costi sociali. Nel frattempo, per l’ulteriore aggravarsi della crisi bancaria, nell’estate del 2012 la Spagna ufficializzò la sua richiesta di aiuti all’Ue, che portò a sua volta ulteriori misure di austerità, seguite da un’incontenibile aumento della disoccupazione, da un pesante calo dei consumi, da un crescente indebitamento e più in generale dal blocco della crescita del paese. Solo intorno alla metà del 2013 il paese è riuscito ad avviarsi sulla strada di una timida ripresa.

La crisi in Italia. L’Italia entrò a far parte del club dei «maiali» intorno alla seconda metà del 2011. La crisi italiana, tuttavia, fu solo indirettamente condizionata dall’andamento più generale della grande crisi. Le sue banche non erano avvelenate, se non in misura contenuta, da titoli tossici. Né vi erano state bolle speculative paragonabili a quelle statunitense o spagnola. I problemi fondamentali del paese erano di natura strutturale e di più lungo periodo. Essi erano (e sono) riconducibili a una sostanziale stagnazione economica, che affliggeva il paese da un paio di decenni e che aveva le proprie radici in molteplici fattori: la bassa competitività delle sue imprese – in gran parte di piccole dimensioni – sui mercati globali; una scarsa propensione a investire sull’innovazione; la tradizionale arretratezza del Sud; un’ele­vatissima bolletta energetica; l’alto costo del lavoro; una crisi sempre più ampia dei ceti medi e dunque dei consumi. Derivava da qui, oltre che da una pressione fiscale molto forte resa necessaria anche da livelli patologici di evasione, la scarsa crescita del paese. Essa era gravata ulteriormente dal peso di una pubblica amministrazione in alcuni casi elefantiaca e inefficiente e da un’elevata spesa sociale. È su questa realtà che doveva abbattersi la grande crisi. La contrazione del commercio mondiale e la stretta creditizia, infatti, indebolirono ulteriormente le imprese, fecero calare gli investimenti, l’occupazione, i consumi. Per circa un triennio – tra il 2008 e il 2011 – il governo Berlusconi si sforzò di tenere la rotta, negando la gravità della crisi, riducendo le tasse, tagliando la spesa pubblica e tentando di incentivare i consumi. Poi, nell’estate del 2011 – mentre Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna si paralizzavano – l’Italia entrò nel mirino delle agenzie di rating e lo spread iniziò a impennarsi. Ciò significava, ancora una volta, che l’arma del debito pubblico stava cessando di essere un’arma tagliente per finanziare il deficit e rimediare alla crisi. Il tutto, in un clima di sfiducia crescente da parte dell’Ue e dei mercati. In tale quadro Berlusconi fu costretto a dimettersi nel novembre 2011. Gli subentrò un governo «tecnico» guidato da Mario Monti, che godeva di ampio credito in Europa e che, in sintonia con le direttive Ue, rimase in carica sino ai primi mesi del 2013, potendo usufruire di importanti aiuti da parte della Bce. Le misure introdotte da questo governo – una controversa riforma del mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica e un significativo aumento delle tasse (con l’in­troduzione, tra le altre, di una pesante tassazione sugli immobili, l’Imu) – finirono per produrre l’ormai ben nota spirale di austerità e recessione. Una spirale, ancora una volta, dagli elevati costi sociali e tale da deprimere ulteriormente i consumi e dunque la crescita. In concomitanza con la complessa congiuntura politica emersa con le elezioni politiche del 2013 e poi con la formazione del governo di larghe intese presieduto da Enrico Letta, la situazione è andata almeno relativamente stabilizzandosi, grazie soprattutto all’esaurirsi della fase più virulenta e drammatica della «grande crisi». Ciò nonostante, nella seconda metà del 2013, l’Italia continua a essere un paese che non riesce a crescere in maniera significativa e per ciò stesso ancora a rischio.

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