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5. LE LEZIONI DELLA CRISI

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Tre lezioni. I costi della crisi sono stati enormi. Soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, dove hanno avuto una sia pur effimera fortuna grandi movimenti spontanei di protesta come quelli di «Occupy Wall Street» e degli «indignados». Le lezioni che essa ha impartito a una parte consistente degli analisti e soprattutto dell’opinione pubblica sono tre.

Il controllo della finanza. La prima riguarda la necessità di ristabilire una qualche forma di controllo sul mondo della grande finanza internazionale e dei suoi custodi troppo spesso inattendibili, le agenzie di rating, tornando nel contempo a circoscrivere l’eccessiva espansione e le storture del sistema bancario ombra.

Le ricette anticrisi. La seconda lezione riguarda le ricette anticrisi. Sebbene il punto sia altamente controverso, è ormai ampiamente consolidata l’idea che le ricette del rigore, dell’austerità, dei tagli indiscriminati alla spesa pubblica, producono più problemi di quanti in effetti non riescano a risolverne. Per lo più – lo abbiamo visto – attivando una pericolosa spirale di recessione, contrazione dei consumi, stagnazione della crescita. Secondo molti, l’austerità, senz’al­tro indispensabile, deve essere «sostenibile» e soprattutto legarsi a consistenti politiche di stimolo alla crescita e allo sviluppo economico. Pena la paralisi.

La crisi e l’Europa. La terza lezione, infine, riguarda l’Europa e in particolare l’eurozona. La crisi, infatti, ha mostrato le criticità della costruzione europea dopo Maastricht (1992) e il Trattato di Lisbona (2009). L’esperimento di una moneta unica senza Stato ha infatti esposto alle tempeste della finanza internazionale una realtà estremamente complessa, trainata da una locomotiva potentissima – la Germania – ma composta da tanti altri paesi con pesanti difficoltà (ben 27 Stati membri dell’Ue, di cui 17 nell’euro­zona). In un quadro di questo genere, la Bce non ha avuto, né poteva avere, gli strumenti per agire come tutte le altre banche centrali del mondo. L’assenza di un governo comune della casa europea, a sua volta, ha fatto prevalere le ragioni del più forte, vale a dire di una Germania non disposta oltre a una certa misura a farsi carico dei debiti pubblici degli altri Stati membri e dunque artefice del rigore. Nel contesto della crisi, la creazione dei cosiddetti fondi salva-stati ha così costituito una soluzione di ripiego, che non può certo risolvere in radice il problema degli squilibri economici e finanziari interni all’Unione. Le ricette del rigore a cui sono stati subordinati gli aiuti – culminate nel Fiscal compact del 2 marzo 2012, con il quale 25 paesi dell’Ue si sono vincolati a rigide discipline di bilancio – non hanno poi fatto altro che accrescere le diffidenze verso l’Europa a guida tedesca e l’euroscetticismo. E tuttavia, nell’era della globalizzazione dei mercati e della grande finanza internazionale, l’Ue costituisce realisticamente un punto di non ritorno. Il problema è che essa deve procedere a piè sospinto sulla strada di una compiuta unione politica, mettendo in campo adeguate e conseguenti strategie di coesione economica e sociale. Una maggiore integrazione europea, e non lo smantellamento dell’U­nione, più Europa e non meno Europa, costituiscono a detta di molti l’imperativo del momento.

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