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L’Italia dalla Seconda alla Terza Repubblica (2011-2021)

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Il quadro più generale: quattro crisi

Negli ultimi anni due gravissime crisi hanno investito, in forme e misure diverse, l’intero pianeta. La prima è stata la «Grande Recessione», esplosa negli Stati Uniti tra il 2007 e il 2008 e poi dilagata in Europa e nel resto del mondo negli anni immediatamente successivi, con pesantissimi effetti economico-sociali. La seconda, di proporzioni ancora più gravi e tuttora in corso, si è aperta al principio del 2020 con la pandemia di Covid-19 che, oltre a provocare un’emergenza sanitaria di enormi dimensioni, è tornata a colpire vigorosamente le economie e le società di tutti i paesi del mondo. Tra queste due vere e proprie catastrofi di scala planetaria, altre due emergenze hanno investito con particolare intensità l’Europa. La prima è stata la cosiddetta «crisi dei rifugiati» del 2015, strettamente connessa alla guerra civile in Siria, che ha prodotto imponenti flussi migratori verso il Vecchio Continente. La seconda, pressoché contemporanea, è stata prodotta dalla riemersione del terrorismo globale di matrice islamista, che ha colpito diversi paesi europei, e in particolare la Francia, a partire dal 2015, in evidente correlazione con la nascita e l’offensiva dell’Isis, lo Stato islamico. Gli effetti politici di queste crisi, susseguitesi senza soluzione di continuità, sono stati molteplici e assai rilevanti. Con un dato in comune, quanto meno nei sistemi democratici più avanzati: una crescente sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, dei partiti e della classe politica in genere, considerata incapace di mettere in campo efficaci strumenti di «difesa della società» e percepita come una «casta» autoreferenziale dedita ai propri esclusivi interessi. Deriva da qui lo spettacolare successo dei più svariati movimenti «populisti» e il ritorno in grande stile di «nazionalismi» e «sovranismi» di ogni sorta, che hanno saputo raccogliere, almeno in termini di consenso, un bisogno di «protezione sociale» avvertito sempre più acutamente da persone che si sentono minacciate da tutto: dalle turbolenze dei mercati, dalla perdita di status, dallo spettro della povertà, dal meticciamento generato dai flussi migratori, dal terrorismo internazionale, dal progresso tecnologico, dalle malattie, dai cambiamenti climatici, e via enumerando. Da qui, ancora, una generale instabilità politica, che in molti casi ha trasformato in radice sistemi politici consolidati da decenni. Non sono state ovviamente soltanto le crisi sopra indicate a produrre l’insieme di questi effetti. Esse, tuttavia, hanno senz’altro impresso una fortissima accelerazione a processi e trasformazioni che hanno investito più in generale la politica – e soprattutto i regimi democratici – nell’età della globalizzazione. In questa prospettiva, il caso dell’Italia, pur con tutte le sue peculiarità, può essere considerato esemplare. Di esso, fino al 2014, ci siamo già in parte occupati in un precedente articolo. Vale tuttavia la pena cercare di capire come è ulteriormente cambiato da allora il sistema politico italiano in relazione alle trasformazioni economiche e sociali che hanno investito il nostro Paese. Per farlo è necessario volgere lo sguardo un po’ più indietro.  

La società italiana dal 1989 a oggi: cinque trasformazioni

Negli ultimi trent’anni – prendiamo come riferimento il biennio 1989-1991, gli anni della caduta del Muro di Berlino (1989) e poi della disintegrazione dell’Unione Sovietica (1991) – la società italiana è stata riplasmata da cinque principali trasformazioni.
Il 1 gennaio 2002 entra in circolazione l'Euro come moneta corrente in Italia e in tutti i paesi dell'Eurozona (crediti: Wikipedia)
L’adesione al Trattato di Maastricht. La prima, accolta in principio con grande entusiasmo, è stata messa in moto tra il 1992 e il 1993 dall’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht e al progetto dell’unione monetaria europea, che si è poi concretizzato con l’entrata in vigore dell’euro tra il 1999 e il 2002. Da allora il Belpaese – fin dagli anni Cinquanta tra i più attivi promotori del processo di integrazione – ha dovuto confrontarsi in modo sempre più stringente con gli imperativi del «vincolo esterno», soprattutto sul piano dei conti pubblici. Ha dovuto cioè mettere in atto politiche di bilancio ispirate a principi di rigore e di austerità che, soprattutto in un’Europa a trazione tedesca, ne hanno sensibilmente limitato la sovranità economica, con effetti di tutto rilievo soprattutto sulle politiche fiscali, di welfare e del lavoro. Il «patto di stabilità», il Fiscal Compact, inserito in Costituzione nel 2012, nel pieno della Grande Recessione, ha segnato il punto di non ritorno di questo processo. È vero che esso è stato temporaneamente sospeso nel contesto dell’attuale crisi pandemica e che probabilmente dovrà essere ripensato a fondo per i prossimi anni. Rimane il fatto che sul piano decisivo del bilancio dello Stato – il piano sul quale si decide quante tasse estrarre dai cittadini e come redistribuire le risorse – l’Italia, come tutti i Paesi dell’eurozona, è vincolata a esigenze di equilibrio monetario europeo ormai inaggirabili, che in un paese come il nostro, gravato da un elevatissimo debito pubblico, pesano moltissimo. È per questa via «europea» che l’Italia è definitivamente entrata nel mondo severo della globalizzazione, nel quale vincono i più forti e a dettar legge sono i mercati, la grande finanza internazionale, le agenzie di rating e le grandi organizzazioni economiche sovranazionali come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Banca centrale europea (BCE). Ed è contro questa situazione che hanno poco per volta alzato la voce, con crescente successo, movimenti populisti e sovranisti di ogni orientamento. Soprattutto durante e dopo la Grande Recessione. Lo choc migratorio. La seconda trasformazione ha investito, prima in sordina e poi in modo ben visibile, la struttura demografica della società italiana. In questo quadro contano soprattutto due fenomeni concomitanti. Il primo è la netta decrescita demografica del paese, di cui ci offrono un quadro molto chiaro le statistiche dell’ISTAT, e in particolare i dati relativi al «saldo naturale», vale a dire alla differenza, calcolata per anno e in valori assoluti, tra i nati vivi e i morti. Quei dati ci dicono che l’Italia è diventata poco per volta un paese a crescita zero e anzi in significativa decrescita, con un saldo negativo che negli ultimi anni è andato assestandosi intorno alle 150-190.000 unità: è come se ogni anno il Belpaese perdesse un numero di persone equivalente agli abitanti di una città di medie dimensioni come Modena o Parma. Un dato, questo, che dovrà essere ulteriormente aggiornato al ribasso ai tempi della pandemia. Accanto a questa netta decrescita, tuttavia, va collocato un secondo rilevantissimo fenomeno: la crescita del «saldo migratorio», vale a dire la differenza, di nuovo anno per anno e in cifre assolute, tra il numero di immigrati ed emigrati. Proprio a partire dal principio degli anni Novanta – quando iniziarono a sbarcare sulle nostre coste decine di migliaia di albanesi – quel saldo è andato infatti crescendo in modo sensibile, portando i migranti censiti sul nostro territorio dalle poche centinaia di migliaia della fine degli anni Ottanta ai quasi 6 milioni di oggi: poco meno di un decimo della popolazione complessiva oggi residente nella penisola. In questo modo, l’Italia, paese tradizionalmente di emigrazione, è diventata in un tempo relativamente breve un paese di immigrazione. È diventata, anzi, una delle principali frontiere dei flussi migratori provenienti dall’Est dopo la caduta dei comunismi e poi dal Sud del mondo: flussi generati dalla ricerca di un po’ di benessere, dalla fuga dalla povertà e, sempre più spesso, da guerre, Stati dispotici o falliti e catastrofi climatiche. In questo modo, il tema delle migrazioni – come in molti altri paesi europei e del mondo – è diventato uno degli argomenti più roventi dell’agenda politica nazionale, ulteriormente esasperato dai dispositivi europei definiti dai trattati di Dublino e di Schengen, i quali impongono ai paesi di prima accoglienza di farsi carico dei migranti che entrano nei propri territori. Lo dimostra la serie pressoché ininterrotta di leggi e provvedimenti – Martelli (1990), Turco-Napolitano (1998), Bossi-Fini (2002), Maroni (2009), Minniti (2017), Salvini (2018-2019) – che hanno incendiato il dibattito tra le forze politiche, divise tra prospettive di accoglienza e di chiusura, di regolarizzazione e di criminalizzazione dei migranti, soprattutto quelli illegali o clandestini. Il tutto, sullo sfondo di fenomeni diffusi di xenofobia e di vero e proprio razzismo, resi ancora più acuti dall’offensiva del terrorismo islamico, che ha contribuito a rendere, nella percezione di molti, lo straniero un potenziale «nemico assoluto». Il declino economico. La terza trasformazione riguarda l’economia italiana, che fin dagli anni Novanta è rimasta prigioniera di uno strisciante declino, registrato – sia pure imperfettamente – dai dati del prodotto interno lordo (Pil). Quei dati, infatti, mostrano che, dopo l’«età dell’oro» e del miracolo economico (gli anni Cinquanta e Sessanta), prolungatasi poi nell’«età dell’argento» (gli anni Settanta e Ottanta), l’Italia è entrata, a partire dagli anni Novanta, in una sorta di «età del bronzo». In un’età, cioè, oscillante tra stagnazione e crisi, di debolissima crescita e talora di vera e propria decrescita, ulteriormente aggravata prima dalla Grande Recessione e poi dagli effetti dell’attuale pandemia. Quinta tra le potenze più sviluppate del mondo nella seconda metà degli anni Ottanta, l’Italia è così scesa in quella classifica al dodicesimo posto all’inizio del secondo decennio del XXI secolo. Le ragioni endogene di questo declino sono riconducibili alla zavorra di un debito pubblico da tempo fuori controllo, alle inefficienze della macchina burocratica dello Stato, alla complessità e alle lentezze del sistema della giustizia, alla persistenza di una endemica corruzione pubblica e privata, alla presenza della criminalità organizzata. Il dato decisivo, tuttavia, è la peculiare forma su cui si è assestato il capitalismo italiano negli ultimi decenni: un «capitalismo tascabile» – come viene definito – fondato su medie e piccole imprese talora di grande successo anche a livello internazionale (il made in Italy), ma a basso valore aggiunto e sostanzialmente assente in tutti i principali settori innovativi e ad alta tecnologia dell’economia globale quali la telematica, le biotecnologie e le energie rinnovabili. È con questi molteplici fardelli che il Belpaese si è trovato ad affrontare le due crisi devastanti della Grande Recessione e poi della pandemia. La conseguenza è stata una rilevante crescita delle diseguaglianze, del tradizionale divario tra il Nord e il Sud, della disoccupazione, del disagio sociale, della povertà relativa e anche assoluta. Il tutto, con effetti sociali disastrosi, anche in confronto ad altri Stati europei di grandezza e forza in qualche modo comparabile. Il mutamento dei valori. In connessione con quanto si è detto fin qui – ed è la quarta trasformazione – sono andati lentamente e poi impetuosamente cambiando i valori, gli orientamenti, le aspettative e dunque le culture politiche delle persone e dei gruppi sociali. Le fiduciose certezze della «società affluente» sono state progressivamente sostituite da un clima di pesante insicurezza e disorientamento, che ha colpito soprattutto una vasta classe media impoverita e spaventata, la quale ha visto declinare e talora crollare il proprio status. I lavoratori hanno iniziato a percepire – e spesso a sperimentare concretamente – la precarietà della propria condizione, minacciata dalla disoccupazione tecnologica, dai capricci dei mercati, dalla delocalizzazione delle imprese, dalla cosiddetta «flessibilità» in entrata e in uscita. Le giovani generazioni si sono trovate imprigionate nel dramma della disoccupazione e della sottoccupazione, nella consapevolezza che, anche con livelli di istruzione più alti, assai difficilmente potranno raggiungere il livello di benessere dei propri genitori. Gli anziani, che fortunatamente vivono più a lungo, si sono ritrovati a scoprire la fragilità della propria condizione, soprattutto quando subentrano la solitudine, le malattie e le necessità dell’assistenza. Moltissime persone, poi, soprattutto tra i ceti meno agiati, hanno iniziato ad avvertire come una crescente minaccia l’esplosione del fenomeno migratorio, l’avanzata dell’«idraulico polacco», la trasformazione di pezzi consistenti dei centri urbani in terre di nessuno in cui domina l’illegalità e il disordine. In questo quadro, ai valori «post-materialisti» della società del benessere – orientati alla soddisfazione dei bisogni «secondari» del successo personale, dell’autostima, del riconoscimento, della qualità della vita, anche di quella del pianeta – è subentrato un prepotente ritorno dei «valori materialisti» e dei bisogni «primari» della sopravvivenza fisica, del salario, della sicurezza, acuiti al massimo grado – ancora una volta – dalla Grande Recessione e poi dalla crisi pandemica. La rivoluzione digitale. A questo ritorno ai «valori materialisti» – ed è la quinta trasformazione – ha fatto da contraltare la prepotente «dematerializzazione» della vita provocata dalla «rivoluzione digitale»: dallo sviluppo incredibile delle telecomunicazioni e dalla straordinaria diffusione di personal computer, telefoni cellulari e smartphone perennemente connessi al mondo turbolento e anarchico della Rete, nel quale trascorriamo ormai tutti – al netto del digital divide – un numero impressionante di ore al giorno. Un mondo che offre incredibili opportunità di sviluppo e conoscenza ma anche altrettanto straordinarie possibilità di manipolazione. Si tratta con ogni evidenza di una rivoluzione strepitosa e onnipervasiva, che orienta e plasma nuovi modelli di informazione, comunicazione, socialità e partecipazione, con effetti di enorme rilievo sui processi di costruzione della personalità e di formazione dell’opinione pubblica. In questo quadro, al mondo diventato velocemente vetusto della televisione e della videopolitica, che già aveva fatto emergere il cosiddetto «homo videns», si è di fatto sovrapposto, se non del tutto sostituito, il mondo dei social, dei tweet, della comunicazione immediata e orizzontale, che ha alimentato sogni e incubi di ogni sorta, modificando in radice, nella direzione di un crescente «direttismo», i modi stessi di pensare e praticare la politica. Le forze che hanno saputo cogliere tempestivamente gli effetti di questa trasformazione – in primo luogo il Movimento 5 Stelle e poi la Lega di Matteo Salvini – ne hanno tratto enormi vantaggi.  

La sesta trasformazione: la politica tra «Seconda» e «Terza Repubblica»

Le cinque grandi trasformazioni di cui abbiamo fissato i tratti essenziali hanno avuto rilevantissime ricadute sul piano politico. Portate al punto di rottura dagli effetti della Grande Recessione piombata sull’Italia tra il 2010 e il 2011, esse hanno prodotto, tra il 2013 e il 2018, un vero e proprio terremoto, per molti aspetti paragonabile a quello che tra il 1989 e il 1994 aveva portato al crollo della «Prima Repubblica» (1948-1994). Si è così radicata l’idea che, dopo l’esperienza in ultima analisi fallimentare della «Seconda Repubblica» (1994-2018), abbia infine preso corpo, a partire dalle elezioni politiche del 2018, una nuova e assai instabile «Terza Repubblica» (2018-oggi). Per quanto imprecise, queste denominazioni sono ormai entrate nel dibattito pubblico e, pur con le pinze, possono essere utilizzate anche in questa sede.

Mario Monti al Quirinale nel novembre 2011 (crediti: Wikipedia)

Il prologo: il governo Monti. Il prologo di questa transizione dalla Seconda alla Terza Repubblica va senz’altro collocato nell’esperienza del governo Monti: un governo di tecnici, esperti e professori fortemente voluto dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nell’ora più buia della Grande Recessione, entrato in carica nel novembre 2011 e rimasto alla guida del Paese fino alle elezioni politiche del 2013. Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo e possiamo quindi essere sintetici, peraltro con qualche elemento di giudizio in più fornito da quanto è successo in seguito. L’esperienza di quel governo – che ha importanti anche se parziali analogie con l’attuale governo semi-tecnico di Mario Draghi – rileva per due ragioni essenziali. La prima è che essa ha suggellato in modo molto chiaro il fallimento dei partiti e dell’intera classe politica della Seconda Repubblica di fronte all’emergenza della crisi economica prodotta dalla Grande Recessione. Per due anni, infatti, le «normali» dinamiche della democrazia dei partiti sono rimaste «sospese» in favore di un «governo tecnico-istituzionale» che ha imposto al paese scelte durissime e assai impopolari in materia di welfare, lavoro, pensioni, etc., in piena sintonia con le richieste di risanamento dei conti pubblici dettate dall’Unione europea, dalla BCE, dai mercati e dalle grandi organizzazioni economiche e finanziarie internazionali. Con ogni probabilità – ma non esistono controprove – politiche diverse avrebbero portato il paese al completo collasso economico e sociale. È un fatto però – ed è questa la seconda ragione dell’enorme rilievo di quell’esperienza di governo – che proprio in quei due anni sono maturate prima in sordina, poi nelle piazze e infine nelle urne, le condizioni di un rivolgimento completo degli assetti politici della Seconda Repubblica. Il governo dei tecnici ha così segnato l’inizio di un impetuoso «momento populista». Il Governo Letta nel giorno del Giuramento al Quirinale insieme al Presidente della Repubblica Napolitano (Crediti: Wikipedia) Le elezioni politiche del 2013. Il dato è emerso con estrema chiarezza nelle elezioni politiche generali del 2013, nelle quali il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, sino ad allora del tutto irrilevante se non in qualche marginale realtà locale, ha ottenuto lo stratosferico risultato del 26% circa dei consensi (circa 9 milioni di voti), di fatto eguagliando i risultati dello schieramento di centro-sinistra (gravitante attorno al Partito democratico) e di quello di centro-destra (gravitante attorno al Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi). Si è trattato di un risultato eccezionale. Per due ragioni principali. La prima è che divenne allora improvvisamente il primo partito italiano un «non-partito» sviluppatosi su un blog per iniziativa di un comico di successo e poi sceso nelle piazze nei cosiddetti «V-Day» (o Vaffa-Day), con un programma animato da visioni confuse di democrazia diretta, tipicamente «anti-partitico» e «populista», deciso a scardinare i meccanismi della democrazia rappresentativa e a promuovere il riscatto e la rivincita del «popolo» contro le élites politiche, economiche e tecnocratiche che, a suo dire, lo avevano ripetutamente ingannato e poi abbandonato al suo destino nell’ora più buia della crisi economica. La seconda ragione è che, con la spettacolare affermazione del M5S, il sistema politico italiano cambiò repentinamente natura: alla dinamica tipicamente «bipolare» della Seconda Repubblica, che dal 1994 aveva visto competere e contrapporsi due schieramenti maggioritari di centro-sinistra e centro-destra, subentrava una complicata Italia «tripolare», divisa cioè in tre grandi poli politici di forza sostanzialmente equivalente e, almeno in via di principio, inconciliabili tra loro. In questa situazione, data l’assoluta indisponibilità del M5S a qualsiasi alleanza con chicchessia, si prospettava con ogni evidenza l’estrema difficoltà di costruire una maggioranza parlamentare capace di esprimere un governo solido e in qualche modo coerente. La XVII Legislatura (2013-2018): la transizione dalla Seconda alla Terza Repubblica. È esattamente questa difficoltà che doveva emergere con nel corso della XVII Legislatura, durante la quale si consumò definitivamente il passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica attraverso una crisi sempre più manifesta dei partiti tradizionali del centro-destra e del centro-sinistra. Lo si vide fin dal principio, in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica nell’aprile 2013 che, bloccata da veti incrociati di ogni tipo, riportò al Quirinale per un secondo mandato Giorgio Napolitano, fatto del tutto inedito nella storia repubblicana. Anche la formazione del nuovo governo incontrò seri ostacoli. E fu nuovamente il Presidente della Repubblica a sbloccarla. Divenne infatti primo ministro Enrico Letta, alla guida di un litigioso e poco affidabile governo di «larghe intese» o di «grande coalizione» sostenuto dai competitors di un tempo: il Partito democratico e il Popolo della Libertà, a cui si aggiunse Scelta civica, una formazione sorta al principio del 2013 per iniziativa dell’ex premier Mario Monti. Si trattava, in sostanza, delle stesse forze che avevano sostenuto, sia pure obtorto collo, il governo dei tecnici tra il 2011 e il 2013. Forze politiche, dunque, ormai ampiamente invise a una società stremata dai sacrifici e dall’austerità, nei confronti delle quali i ruggenti 5 Stelle potevano avere – ed ebbero in effetti – buon gioco. Questo equilibrio precario fu definitivamente sconquassato da ulteriori sviluppi. Il primo fu il ritiro del Popolo della Libertà dalla compagine governativa e dalla maggioranza parlamentare tra il settembre e l’ottobre del 2013: una mossa dettata dalla «naturale» incompatibilità tra centro-destra e centro-sinistra ma anche, e in ampia misura, dai guai giudiziari di Silvio Berlusconi, condannato per frode fiscale, interdetto dai pubblici uffici, dichiarato incandidabile alle elezioni sino al 2019, privato del suo seggio senatoriale, e addirittura affidato ai servizi sociali. Fu questa l’occasione per un significativo rimescolamento delle carte. Una parte del centro-destra, sotto la leadership di Angelino Alfano, diede vita al Nuovo centrodestra staccandosi dal Popolo della Libertà (che tornò a chiamarsi Forza Italia) e restando al governo e nella maggioranza parlamentare. Nel frattempo, nel febbraio 2014, Matteo Renzi, segretario del Pd, sempre con il sostegno di Napolitano, sostituì Enrico Letta alla guida dell’esecutivo. Dicembre 2016: il simbolico "passaggio della Campanella" tra il dimissionario Matteo Renzi (a dx) e Paolo Gentiloni (a sx) (Crediti: Wikipedia) Renzi poté per qualche tempo imprimere un certo dinamismo al suo partito e al suo governo. Alle elezioni europee del 2014, infatti, riuscì a ottenere uno straordinario 40% dei consensi. La sua premiership risultò tuttavia molto deludente in vari campi, in particolar modo nelle politiche del lavoro (il Jobs Act) e in quelle sulla cosiddetta «buona scuola». A decretarne la fine, tuttavia, fu la sua volontà di scommettere su una riforma elettorale (l’Italicum) e poi su una radicale riforma della Costituzione (che tra le varie cose avrebbe di fatto abolito il Senato), la quale fu sonoramente bocciata dai cittadini nel referendum del dicembre 2016. Il tutto, mentre gli effetti ancora pesantissimi della recessione e la crisi dei rifugiati del 2015 stringevano il paese nella morsa del bisogno e dell’insicurezza. Dopo l’esito del referendum Renzi si dimise da capo del governo e poi da segretario del Partito democratico. La Legislatura giunse alla fine del suo corso naturale sotto la guida di un altro autorevole esponente del Pd, Paolo Gentiloni. E poi vennero le elezioni del marzo 2018 che dovevano cambiare tutto o quasi tutto.  

La Terza Repubblica

Abbiamo descritto l’Italia politica emersa dopo le elezioni del 2013 come un’Italia «tripolare», divisa in parti sostanzialmente equivalenti tra un polo di centro-destra, un polo di centro-sinistra e un polo interamente rappresentato dai 5 Stelle. Si deve ora aggiungere che negli anni della XVII Legislatura le cose sono andate lentamente cambiando. Poco per volta, infatti, le ormai invecchiate e indebolite forze politiche della Seconda Repubblica, il centro-destra e il centro-sinistra, hanno finito per omologarsi, non soltanto in quanto forze effettivamente coalizzate al governo e in Parlamento, ma soprattutto nella percezione generale degli italiani, e a contrapporsi e ad essere contrapposte al Movimento 5 Stelle. Sotto l’apparenza del «tripolarismo», insomma, l’Italia è progressivamente tornata ad essere «bipolare», ma in un senso e con dinamiche completamente diverse da prima. A opporsi, adesso, erano due costellazioni di forze drasticamente divise su tutto: sull’Europa, sull’atteggiamento da tenere nei confronti dei mercati e della grande finanza, sulle opportunità e i rischi della globalizzazione, sulle politiche fiscali e di welfare, sul ruolo delle istituzioni parlamentari e dei partiti, sul concetto stesso di democrazia, da intendersi nel tradizionale senso rappresentativo per le prime e nel senso della democrazia diretta e partecipativa per il secondo. È sufficiente leggere il libro-manifesto Siamo in guerra. La Rete contro i partiti, pubblicato da Grillo e Casaleggio nel 2011, per rendersi conto della radicalità di questa contrapposizione. Un anno e mezzo dopo aver ereditato la campanella da Renzi è Gentiloni a cederla a sua volta a Giuseppe Conte, nel giugno 2018 (Crediti: Wikipedia Il «momento populista»: le elezioni politiche del 2018 e il governo Conte I. Fu questa Italia «bipolare» a emergere con chiarezza nelle elezioni politiche del marzo 2018. Il Pd, che aveva raccolto un sontuoso 40% di consensi alle europee del 2014, precipitò al 19%. Sul fronte del centro-destra, Forza Italia crollò al 14%, superata di tre lunghezze dalla nuova Lega di Matteo Salvini, altra forza tipicamente e dichiaratamente populista ed euroscettica, passata dal 4% delle politiche del 2013 al 17%. I 5S, dal canto loro, ottennero un successo incredibile, il 32,6% dei voti, quasi 11 milioni di voti, diventando di gran lunga, sotto la guida di Luigi Di Maio e lo sguardo attento di Beppe Grillo, la prima forza politica del paese. Si trattò di un vero e proprio terremoto. Restava però il nodo irrisolto della formazione del governo. Nonostante la strepitosa vittoria elettorale, il M5S non aveva i numeri per formare una maggioranza parlamentare e dare vita a un governo. La coalizione vincente, peraltro, era quella del centro-destra, che tra Forza Italia (14%), la Lega per Salvini premier (17%) e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni (4,4%) e altre formazioni minori aveva raccolto circa il 37% dei voti, ben più del centro-sinistra e degli stessi 5S. Non si poteva, tuttavia, non tener conto della clamorosa vittoria dei pentastellati. Si aprì così una lunga fase di interlocuzione sotto la regia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in carica dal 2015, dopo le dimissioni anticipate di Napolitano. Essa si concluse dopo quasi tre mesi, nel giugno 2018, con uno spettacolare salto di campo della Lega di Salvini che, voltando le spalle al centro-destra, con cui pure aveva condotto la sua campagna elettorale, decise di allearsi con il M5S in un governo di «contratto» (e non di «coalizione»). A presiedere quel governo fu chiamato Giuseppe Conte, un professore universitario indipendente ma in quota 5S, affiancato dai due vicepremier Di Maio e Salvini, rispettivamente ministri del Lavoro e dello Sviluppo economico e dell’Interno. Si trattava di un governo ad altissimo tasso di populismo, diviso su molte e cruciali questioni di fondo, ma in ultima istanza tenuto insieme dalla sbandierata volontà di rispondere a quel bisogno di «difesa della società» che le elezioni avevano portato alla luce contro i vecchi partiti della Seconda Repubblica. Reddito di cittadinanza per gli sconfitti della globalizzazione, abolizione o almeno sospensione della odiata legge Fornero sulle pensioni, flat tax, sicurezza e difesa dei confini nazionali dall’«invasione» dei migranti, antieuropeismo spinto: queste le promesse dell’esecutivo gialloverde previste dal contratto di governo e poi messe anche in pratica, sia pure in forme e modi assai discutibili, nei mesi successivi. Prima di coalizzarsi, i due alleati avevano giurato di mettere da parte le proprie divergenze per dare risposte concrete, con un governo saldo e di legislatura, a un paese stremato, impoverito e spaventato. A questo doveva servire, appunto, il «contratto di governo», su cui si era impegnato a vegliare l’«avvocato del popolo» Giuseppe Conte. Le cose, tuttavia, dovevano andare in modo molto diverso. Dal primo al secondo governo Conte. Entrato in carica nel giugno del 2018, il governo gialloverde doveva cadere nell’estate del 2019, al termine di un’esistenza stentata. Due i fattori cruciali della sua caduta. Il primo è da ricondursi alle continue tensioni sviluppatesi in seno alla maggioranza, in materia di autonomie regionali, di riforma della giustizia, famiglia, e soprattutto di crescita economica attraverso investimenti e opere pubbliche. Su quest’ultimo terreno esistevano in effetti distanze incolmabili tra i pentastellati, in ampia misura sedotti dalle retoriche della «decrescita», e i leghisti, orientati invece ai principi della crescita e dello sviluppo. Le tensioni dovevano esplodere in occasione di un voto in Parlamento sull’annosa questione della TAV in Val di Susa. L’opposizione alla prosecuzione di quella grande opera era stato uno dei tradizionali cavalli di battaglia di Beppe Grillo. E per questa ragione «identitaria» i 5S votarono contro. Il Parlamento approvò lo stesso, anche senza il voto dei pentastellati, la prosecuzione dell’opera. Ma il voto contrario degli alleati di governo fu la goccia che fece traboccare il vaso, portando Salvini a chiudere l’esperienza dell’esecutivo gialloverde e a chiedere nuove elezioni e «pieni poteri» per governare il paese. Sullo sfondo di questa decisione – ed è il secondo fattore – vi era però un ulteriore dato che doveva spingere Salvini a compiere quel passo. E cioè la spettacolare crescita di consensi della Lega rispetto agli stessi 5S. Un fatto accreditato da molteplici sondaggi e poi emerso dai clamorosi risultati delle elezioni europee del maggio 2019. In quelle elezioni, infatti, i rapporti di forza tra i gialli e i verdi risultarono completamente invertiti rispetto alle politiche del 2018. Mentre i vecchi partiti della Seconda Repubblica continuavano a raccogliere consensi stentati (il 22,7% il Pd, addirittura l’8,8% Forza Italia), i pentastellati crollarono dal 32,6% al 17% e la Lega raddoppiò i suoi voti, passando dal 17% del 2018 al 34,2%. Ancora un terremoto elettorale, dunque. Da qui la decisione di Salvini di forzare la mano, far cadere il governo e chiedere elezioni immediate.
Il Presidente Sergio Mattarella con Ministre e Ministri del secondo Governo presieduto da Giuseppe Conte  (foto di Francesco Ammendola - Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)
Anche in questo caso, tuttavia, le cose andarono diversamente. Dopo spericolato ma pienamente legittimo passaggio parlamentare, si giunse – sotto la regia del Presidente Mattarella – alla formazione di una nuova maggioranza e di un nuovo governo, guidato sempre da Conte ma con una diversa coalizione, questa volta «giallorossa», che teneva insieme i 5S, il Partito democratico e Liberi e Uguali. Si trattava di un cambiamento di prospettiva davvero radicale, tanto per i 5S quanto per il Pd, che fino a poco tempo prima si erano giurati inimicizia eterna. Si trattava però anche di una sconfitta bruciante per Matteo Salvini, che dopo l’azzardo rientrò, sia pure in posizioni di forza, nello schieramento di centro-destra, pronto ad accoglierlo per risollevare le proprie sorti. Dal secondo governo Conte al governo Draghi. La pandemia. Anche il secondo governo Conte non ha avuto grande fortuna. Esso è rimasto in carica poco più di un anno, dal settembre 2019 al febbraio 2021. Criticato senza sconti dal centro-destra, soprattutto dalla Lega e da Fratelli d’Italia (in costante crescita di consensi), tormentato al suo interno dai dissidi tra Pd e 5S (che pure hanno visibilmente dismesso il loro radicalismo delle origini, soprattutto in tema di Europa), e ancora minato dai contrasti interni al Partito democratico, da cui è sorta per iniziativa di Renzi Italia Viva, il Conte II ha avuto una vita difficile, soprattutto per il sopravvenire – a partire dal febbraio-marzo 2020 – della pandemia di Covid-19. Esso ha ottenuto risultati importanti, soprattutto in Europa, riuscendo a strappare una quota assai consistente – la più consistente – dei fondi che l’Ue ha previsto di erogare con il cosiddetto Recovery Fund, il programma Next Generation EU. Per il resto, come molti altri governi europei e del mondo, esso si è trovato intrappolato tra le due emergenze difficilmente conciliabili della crisi sanitaria e della crisi economica, che lo hanno portato a compiere scelte difficili e quasi sempre contestate in materia di confinamento, chiusure, ristori per le categorie sociali più danneggiate, piani vaccinali, etc. A decretare la sua caduta è stato però un altro Matteo (Renzi), che ha tolto l’appoggio di Italia Viva al governo, ritirando i suoi ministri dall’esecutivo. Da qui la crisi parlamentare che ha poi portato, il 13 febbraio 2021, all’insediamento del governo di Mario Draghi, fortemente voluto dal Presidente Mattarella. Un governo, questa volta, di unità nazionale, in parte tecnico e in parte politico, sostenuto da tutte le maggiori forze politiche del paese, dalla Lega a Forza Italia, dal Partito democratico a Liberi e Uguali, con la solitaria opposizione di Fratelli d’Italia.
Il Prof. Mario Draghi al Quirinale nel febbraio 2021 (foto di Francesco Ammendola - Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)
 

Quali prospettive?

È difficile immaginare quali prospettive possa avere il nuovo governo. Il prestigio indiscusso di Mario Draghi, per dieci anni alla guida della Banca centrale europea, è sicuramente una garanzia e una carta vincente, soprattutto nella prospettiva del Recovery Plan che l’Italia deve a breve presentare all’Unione europea per ottenere i fondi per la ricostruzione previsti dal Next Generation EU. Oltre che sul piano della crescita, tuttavia, la pandemia continua a mordere in modo feroce anche su quello sanitario. Il che lascia sostanzialmente irrisolto, almeno per ora, il dilemma in cui il nostro paese – come molti altri paesi – continua a dibattersi: quello tra le chiusure e i lockdown da un lato, e quello delle riaperture e della ripresa di attività economiche messe letteralmente in ginocchio dalle politiche, pur necessarie, di confinamento dall’altro. In questo quadro, e a fronte di una crescente e pericolosa insofferenza del paese, alimentata dentro e fuori il governo soprattutto dalla Lega e Fratelli d’Italia, il futuro potrebbe giocare brutti scherzi. La posta in gioco, però, è troppo alta. E un eventuale fallimento della carta Draghi potrebbe avere costi elevatissimi per tutti. Si deve dunque supporre che l’attuale esecutivo, pur tra mille difficoltà, potrà durare tutto il tempo necessario per uscire almeno dalla fase più acuta della crisi. Sarà poi compito della politica e di leader davvero all’altezza della situazione riprendere in mano il corso delle cose e ridare vigore a una democrazia che ormai da troppi anni si trascina stancamente in una condizione di crisi permanente. C’è solo da sperare che vi siano ancora le risorse e le energie per riuscire nell’impresa.   Crediti immagini: Banner: Governo Draghi, Wikipedia
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