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Il terrorismo colpisce ancora

Nei primi mesi del 2015 il terrorismo internazionale di matrice islamista ha messo a segno tre attentati: Parigi, Copenaghen a Tunisi. Una escalation del terrorismo a sfondo religioso, che è diventato un’emergenza globale
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Nei primi mesi del 2015 il terrorismo internazionale di matrice islamista ha messo a segno tre drammatici e spettacolari attentati: a Parigi il 7-9 gennaio, a Copenaghen il 14-15 febbraio e a Tunisi il 18 marzo. Questi tre eventi si collocano nel quadro di una più ampia escalation del terrorismo a sfondo religioso, che è diventato ormai un’emergenza globale. Il fatto che essi abbiano colpito il cuore dell’Europa e uno dei pochi paesi nei quali le “pri­mavere arabe” avevano avviato un significativo processo di transizione democratica suscita, tuttavia, una particolare apprensione. Che diviene ancora maggiore se quegli eventi vengono messi in relazione con ­la virulenta avan­zata del cosiddetto “Stato islamico” (Isis) tra la Siria e l’Iraq e con i suoi espliciti appelli alla violenza e al terrore. Il risultato è che un profondo senso di insicurezza – che è il primo obiettivo e la naturale conseguenza di qualsiasi atto terroristico – ha ripreso a dilagare dappertutto, come non accadeva or­mai da diversi anni. 1. Gli attentati di Parigi (7-9 gennaio 2015) Gli attentati di Parigi si sono svolti in due diverse sequenze durate complessivamente più di due giorni, dalla mattina del 7 gennaio al tardo pomeriggio del 9. Il che ha dato un’enorme risonanza all’evento, seguito in diretta dalle televisioni di tutto il mondo.

La prima sequenza ebbe inizio la mattina del 7 gennaio 2015 con l’assalto di due uomini armati di kalashnikov alla sede della redazione di Charlie Hebdo, un settimanale satirico già da tempo nel mirino delle frange più radicali dell’in­tegralismo islamico per le sue dissacranti vignette su Maometto. Questo primo assalto, realizzato nel cuore di Parigi con tecniche militari e armi da guerra, provocò 12 vittime: otto redattori e disegnatori di Charlie Hebdo, tra cui il direttore Stephane Charbonnier; la sua guardia del corpo; un ospite del giornale; il custode dell’edificio; e poi, nel corso di una fuga tutt’altro che precipitosa – ripresa in un drammatico video – un poliziotto giunto sul posto, prima ferito e quindi freddato con un colpo alla testa da uno dei due terroristi, i quali riuscirono a dileguarsi. Da quel momento ebbe inizio una gigantesca caccia all’uo­mo che doveva protrarsi per oltre due giorni. Nel frattempo – è la seconda sequenza – la mattina dell’8 gennaio un altro attentatore uccise con una mitragliatrice un’agente di polizia in un sobborgo di Parigi, facendo poi perdere le proprie tracce. In un primo momento questo secondo episodio non fu collegato al primo. Col passare delle ore divenne invece chiaro che i loro protagonisti – nel primo caso i fratelli Cherif e Said Kouachi, nati in Francia e cittadini francesi di origine algerina, nel secondo Amedy Coulibaly, anch’egli cittadino francese nato in Francia da immigrati del Mali – erano legati da stretti rapporti. Si comprese, insomma, che i due attentati rispondevano a un medesima regia, di matrice islamista. Fu allora che l’intera città di Parigi, paralizzata da un imponente schieramento di forze dell’ordi­ne, precipitò nel panico.

 La fuga dei terroristi, però, doveva durare ancora molte ore. I fratelli Kouachi, a lungo braccati dalla polizia, il 9 gennaio riuscirono ad asserragliarsi con alcuni ostaggi in una tipografia a Dammartin-en-Goële, a una cinquantina chilometri da Parigi. Lo stesso giorno Amedy Coulibaly fece a sua volta irruzione in un ipermercato Kosher nei quartieri est di Parigi, dichiarando la sua affiliazione all’Isis, prendendo diversi ostaggi e minacciando di fare una strage se gli attentatori di Charlie Hebdo non fossero stati rilasciati. È a questo punto che le forze speciali francesi poterono finalmente intervenire. Con un doppio blitz pressoché simultaneo, tra le 17 e le 17.30 esse riuscirono prima a neutralizzare e uccidere i fratelli Kouachi e subito dopo a fare irruzione nell’ipermercato Kosher e a eliminare Coulibaly. Nel­l’iper­mercato trovarono i cadaveri delle vittime della sua furia omicida: quattro cittadini francesi di religione ebraica. Si concluse così, dopo oltre cinquanta ore, e con un bilancio di 17 morti, un incubo seguito in diretta dalle televisioni di tutto il pianeta. 2. Gli attentati di Copenaghen (14-15 febbraio 2015) Meno sanguinosi e spettacolari di quelli di Parigi, gli attentati di Copenaghen ne ripeterono quasi alla lettera il copione. Con ogni probabilità, essi ebbero una qualche relazione con i fatti che avevano sconvolto la Francia poche settimane prima. Anche in questo caso l’attacco terroristico, organizzato in modo assai meno “professionale”, si svolse in due tempi. Esso prese dapprima di mira, nel pomeriggio del 14 febbraio, un locale cittadino in cui si stava svolgendo un dibattito in memoria della tragedia di Charlie Hebdo, dedicato al tema dei rapporti tra arte, blasfemia e libertà di espressione. Tra i partecipanti vi era un noto vignettista satirico, lo svedese Lars Vilks il quale, come i disegnatori di Charlie Hebdo, aveva in precedenza pubblicato alcune vignette che dissacravano Maometto. Intorno alle 15.30 l’atten­tatore fece improvvisamente irruzione nel locale con un fucile d’assalto. Aprì il fuoco, probabilmente con l’in­tenzione di uccidere Vilks. Ma colpì a morte un altro uomo e ferì diversi agenti di polizia che stavano pattugliando la zona, riuscendo poi a fuggire. Diverse ore più tardi, poco dopo la mezzanotte, la scena si spostò davanti alla Grande Sinagoga di Copenaghen, nella quale si stava svolgendo una cerimonia religiosa. Anche in questo caso l’attentatore – lo stesso che aveva già agito nel pomeriggio, secondo le ricostruzioni della polizia – aprì il fuoco uccidendo il custode della Sinagoga e ferendo tre agenti. Intercettato qualche ora dopo, egli fu a sua volta ucciso in uno scontro a fuoco. Si trattava di Omar El-Hussein, un giovane di 22 anni, nato in Danimarca e cittadino danese ma di origini giordano-palestine­si, convertitosi al radicalismo islamico e fan dichiarato dell’Isis. 3. L’attentato di Tunisi (18 marzo 2015) Poco più di un mese dopo, un nuovo e assai più virulento attentato ebbe luogo presso il museo del Bardo di Tunisi. Ancora una volta davanti alle telecamere dei grandi network televisivi mon­diali.

In questo caso il terrorismo non colpì una metropoli europea, ma la capitale di un paese in cui il grande fermento delle “primavere arabe” – a differenza di quanto era avvenuto soprattutto in Egitto, in Siria e in Libia – stava iniziando a produrre un significativo consolidamento delle istituzioni democratiche. Le dinamiche dell’attentato non sono state ancora del tutto chiarite. La prossimità del museo del Bardo alla sede del Parlamento tunisino, in cui proprio il 18 marzo era in discussione una legge “antiterrorismo”, hanno aperto il campo alle più diverse ipotesi. Le vittime dell’attentato, tuttavia, furono i turisti in visita al museo, segno della volontà di colpire comunque non soltanto il regime moderato di Tunisi e una fonte preziosa delle risorse economiche del paese, ma anche un bersaglio genericamente “occidentale”. L’assalto fu particolarmente cruento e fu poi rivendicato dalla galassia dei gruppi jihadisti facenti capo all’Isis. Esso è stato compiuto da almeno tre uomini con armi da guerra che – dopo aver forse tentato di irrompere nel Parlamento – hanno aperto il fuoco contro diversi pullman di turisti, si sono poi barricati nelle sale del museo con svariati ostaggi procedendo a esecuzioni sommarie, e sono stati infine neutralizzati in un violento blitz delle teste di cuoio tunisine. Il tutto, nel giro di un paio di ore, tra le 12 e le 14 circa del 18 marzo. Il bilancio dell’attacco è di 22 morti, in maggioranza europei, tra cui quattro italiani. E di svariate decine di feriti. 4. Vecchie e nuove forme del terrorismo È estremamente difficile decifrare il senso di questi tre clamorosi atti terroristici. In termini generali si possono fare tre considerazioni, che sono oggi al centro di un ampio dibattito tra gli analisti e gli studiosi. La prima riguarda la virulenza del fenomeno del terrorismo. I mega-attentati dell’11 settembre 2001, che fecero oltre 3000 morti con una spettacolarità e un’organizzazione ineguagliabile, colpendo i simboli del potere economico e militare americano, le Twin Towers a New York e il Pentagono a Washington, hanno per qualche tempo narcotizzato, nella loro folle esagerazione, la nostra percezione della persistente intensità della violenza terroristica. Soprattutto di quella perpetrata “in nome di Dio”. Dopo l’11 settembre, infatti, il livello di quella violenza è rimasto altissimo, a dispetto dell’attenzione solo intermittente dei media. Se consultiamo il Global Terrorism Index del 2014 apprendiamo infatti che negli ultimi quindici anni – tolta una parentesi di relativa remissione tra il 2007 e il 2011 – il numero delle vittime del terrorismo è quintuplicato, passando da 3.361 nel 2000 alla cifra astronomica di 17.958 morti nel 2013 (i dati successivi non sono ancora disponibili). Apprendiamo inoltre che nel 2013 sono state principalmente quattro – e tutte di ispirazione islamista – le organizzazioni responsabili della maggior parte di questi attentati (il 66%): l’Isis, Boko Haram, i Talebani e al-Qaeda. E, ancora, che i paesi maggiormente colpiti da atti di terrorismo – nei quali cioè ha perso la vita oltre l’80% delle persone globalmente uccise in eventi del genere – sono l’Iraq, l’Afghanistan, il Pakistan, la Nigeria e la Siria. Il che rende assai evidente che il target principale del terrorismo islamista non è stato soltanto l’Occidente cristiano ma anche, e forse soprattutto, lo stesso mondo islamico. Questi dati faranno ancora più impressione quando saranno contabilizzate le migliaia di morti che il terrorismo islamista ha continuato a mietere nel 2014 e fino ad oggi soprattutto in Medio Oriente e in Africa. Si pensi soltanto, per fare l’esempio al momento più recente, alla vera e propria strage compiuta il 2 aprile nel campus universitario di Garissa, in Kenya, che ha provocato circa 150 morti, in questo caso soprattutto cristiani. Rispetto all’insieme di questi orrori i pur drammatici attentati di Parigi, Copenaghen e Tunisi appaiono come gocce in un gigantesco mare di sangue. Proprio questi attentati – è la seconda considerazione – hanno peraltro avuto molteplici precedenti. Negli anni passati, infatti, l’Eu­ropa è già stata più volte teatro di gravissimi atti di terrorismo di matrice islamista. È sufficiente ricordare gli attentati alla stazione Atocha di Madrid dell’11 marzo 2004, che fecero oltre 190 morti e più di 2.000 feriti, e quelli di Londra del 7 luglio 2005, che provocarono 55 morti e circa 700 feriti. Anche la violenza contro la dissacrazione dell’Islam ha inquietanti precedenti, dal truculento assassinio del regista Theo Van Gogh ad Amsterdam il 2 novembre 2004 fino alle violentissime reazioni innescate nel 2005 dalle caricature di Maometto pubblicate su un quotidiano danese, che causarono nella sola Nigeria più di 100 morti. Lo stesso può dirsi degli attentati contro i turisti che, ben prima dei fatti di Tunisi, hanno lasciato una lunga scia di sangue, dai massacri di Luxor (1997, 58 morti) a quelli di Kuta in Indonesia (2002, 101 morti) e di Sharm el Sheikh (2005, 91 morti), per citarne solo alcuni. Il Global Terrorism Database ne conta complessivamente 167 tra il 2000 e il 2013. Nonostante questi precedenti – è la terza considerazione – vi è però qualcosa di nuovo nelle dinamiche più recenti del terrorismo internazionale di matrice islamista. Vi è innanzitutto lo “Stato islamico”, che non è più soltanto un semplice gruppo terroristico, ma una inedita realtà territoriale di grandi dimensioni, che è in grado di fornire alla luce del sole uomini, mezzi, risorse, addestramento e soprattutto potentissime “motivazioni” ai suoi adepti, che vanno crescendo a ritmi impressionanti in tutto il mondo. Lo dimostra l’attra­zione straordinaria che esso esercita sui cosiddetti “foreign fighters”. Vi è poi una altrettanto inedita spinta a forme di terrorismo individuale e “fai da te” – i “lupi solitari” – che possono svilupparsi assai facilmente, come dimostrano le biografie degli attentatori di Parigi e Copenaghen, sul terreno dell’e­mar­gina­zio­ne, della povertà, del disagio sociale e delle frustrazioni prodotte da società che non sono riuscite a integrare al proprio interno le diverse culture che in esse si trovano a convivere. Vi è infine il ruolo crescente giocato da Internet nei processi che fanno maturare, organizzare e poi connettere tra loro i diversi individui e gruppi che scelgono la strada del terrorismo. Soprattutto del “terrorismo in nome di Dio”. Sia pure in diversa misura, la combinazione di questi tre elementi ha giocato un ruolo decisivo nelle stragi di Parigi, Copenaghen e Tunisi. Più in generale, essa rende il terrorismo contemporaneo un fenomeno estremamente inquietante e sempre più difficile da estir­pare.
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