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Recovery Fund: l’Europa al bivio

“Ho sempre creduto che l’Europa si sarebbe costruita attraverso le crisi e che sarebbe stata la somma delle loro soluzioni”. Così scriveva, nei suoi Mémoires (1976), Jean Monnet, uno dei più autorevoli padri fondatori dell’Europa comunitaria. Egli si riferiva a un passaggio cruciale del processo di integrazione: al fallimento del progetto di costituzione della CED, la Comunità Europea di Difesa, naufragato nel 1954 per l’opposizione della Francia, e al tempo stesso alla fondazione, nel 1955, del “Comitato di azione per gli Stati Uniti d’Europa”, che negli anni seguenti, proprio a partire da quel fallimento, doveva imprimere uno straordinario impulso all’unificazione del continente. Ben al di là di quel frangente, tuttavia, la frase ha assunto un significato più generale. Di regola, essa viene ripresa, e messa alla prova dei fatti, ogni volta che l’Europa precipita nel vortice di una grande crisi o deve confrontarsi con circostanze eccezionali. È accaduto – per citare solo gli sviluppi più recenti – negli anni della Grande Recessione (dal 2007-2008), che è piombata come un uragano sul vecchio continente a partire dal 2010-2011 con la cosiddetta crisi del debito sovrano. E sta accadendo nuovamente oggi, con la terribile emergenza al contempo sanitaria, economica e sociale prodotta dalla pandemia di Covid-19 e dai suoi colossali effetti. Possiamo senz’altro dire che la prima crisi ha segnato una potente battuta di arresto del processo di integrazione, portando in superficie e rafforzando robusti sentimenti antieuropeistici che si sono espressi soprattutto nel trionfo dei cosiddetti “sovranismi”. La seconda crisi invece – anche se è ancora prematuro dirlo – sta forse producendo un “effetto Monnet”: una ricerca di “soluzioni” che, pur tra mille difficoltà, potrebbero conferire all’Unione europea un nuovo e più solido profilo, togliendo un po’ di ossigeno a un antieuropeismo dilagante. È in questo senso – lo ripeto: forse – che si può leggere l’istituzione del cosiddetto Recovery Fund, con buone ragioni denominato Next Generation EU.  

La pandemia in Europa: effetti e risposte

Abbiamo visto in precedenti articoli quanto siano gravi, a livello planetario, gli effetti attuali della pandemia di Covid-19 e quelli prevedibili per il prossimo futuro, non solo sul piano sanitario, ma anche su quello economico e sociale. Vale la pena di gettare ora uno sguardo più specifico sulla situazione europea aggiornata a oggi, 28 settembre 2020. Nella lista dei paesi più colpiti elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – una lista in continuo aggiornamento – il primo Stato europeo per numero di contagi totali è la Spagna (716.481 contagiati e 31.232 morti), che si trova in ottava posizione dopo Stati Uniti, India, Brasile, Federazione Russa, Colombia, Perù e Messico. Seguono, dall’undicesimo posto in avanti, i paesi elencati nella tabella 1, la quale dà il quadro complessivo della situazione degli Stati europei disposti secondo l’ordine dei contagi totali. In questa forma grezza, tuttavia, i numeri non ci dicono moltissimo. Oltre a dipendere in ampia misura dalla quantità e dalla qualità delle rilevazioni della diffusione del virus (i “tamponi”), che variano da luogo a luogo, essi vanno per lo meno correlati al numero di abitanti dei singoli paesi. Solo in questo modo, infatti, possiamo farci un’idea almeno relativa dell’impatto della pandemia nelle diverse realtà nazionali. Con 42 morti totali – per fare solo qualche esempio più generale – la Repubblica di San Marino (34.000 abitanti circa) è attualmente in testa alla lista dei paesi che contano il maggior numero di morti totali per 1 milione di abitanti. Nella stessa graduatoria, il Brasile (210 milioni di abitanti), gli Stati Uniti (330 milioni di abitanti), l’India (1 miliardo e 380 milioni di abitanti) e la Cina (1 miliardo e 435 milioni di abitanti) si collocano rispettivamente al 7°, all’11°, all’81° e al 181° posto. Vale la stessa cosa per il numero dei contagi. Da questa prospettiva, il paese in cui il virus risulta più diffuso rispetto al numero di abitanti è il Qatar, con 43.416 casi su 1 milione di abitanti. Israele, attualmente in lockdown, è in quinta posizione, con 26.438 casi ogni milione di abitanti. E i tre paesi in assoluto più colpiti – Usa, India e Brasile – si collocano al 13°, all’11° e all’85° posto. È per questa ragione che conviene guardare, anche per i paesi europei, al numero dei contagi (Tabella 2) e dei decessi (Tabella 3) per milione di abitanti. Sia pure in modo sfuocato, questi dati possono offrirci, almeno in parte, un quadro della possibile percezione della pericolosità della pandemia da parte delle popolazioni e delle classi politiche dei singoli Stati. Si tratta tuttavia, anche in questo caso, di dati utili, ma difficilmente interpretabili, che andrebbero ancora correlati all’evoluzione temporale della pandemia – lo si può fare consultando il sito dell’OMS – e che in ogni caso non possono essere messi meccanicamente in relazione con le risposte che i singoli paesi hanno dato all’emergenza. Su quelle risposte – che hanno oscillato da severi lockdown di scala nazionale (come in Italia) al contenimento di singoli focolai locali, fino al “liberi tutti” per raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge” – hanno pesato molti altri elementi. Primo fra tutti la capacità di risposta e la tenuta dei sistemi sanitari, che in alcuni casi (di nuovo l’Italia) hanno sfiorato il collasso. Oltre ai numeri del contagio e dei decessi e alla resilienza dei sistemi sanitari, l’altra variabile decisiva che ha orientato quelle risposte è stato lo spettro assai concreto della crisi economica e sociale: della paralisi delle attività produttive e commerciali, con le conseguenze ben note del crollo degli investimenti e dei consumi, della pesante contrazione del commercio e dell’occupazione. Risposte forti alla pandemia, come quella italiana tra i mesi di marzo e giugno, hanno mostrato a tutti i paesi in cui il Covid-19 è arrivato con un po’ di ritardo gli effetti disastrosi (ma pur sempre necessari) di un lockdown generalizzato, a cui ben pochi Stati, anche quelli attualmente oggi letteralmente flagellati (Spagna e Francia soprattutto), si sentono di ricorrere. Con conseguenze sanitarie e poi di nuovo economiche – si deve però aggiungere – francamente imprevedibili. Al di là di tutto, i dati oggettivi e inaggirabili con i quali oggi molti paesi europei – e non solo europei – si trovano a doversi confrontare sono due: da un lato, una pressione rinnovata e crescente della pandemia sulle strutture sanitarie; dall’altro, e soprattutto, una crisi economica senza precedenti, che in un mondo e in un continente sempre più integrati rimbalza comunque da un paese all’altro, a prescindere dalle scelte dei singoli Stati. Impressionano le proiezioni di crescita, o meglio di decrescita, che le grandi organizzazioni internazionali hanno elaborato negli ultimi mesi. Mi limito a citare l’ultimo report del Fondo Monetario Internazionale, che risale allo scorso giugno e che più di recente è stato parzialmente aggiornato in negativo da altre agenzie. Esso prospetta per l’eurozona un crollo di -10.2 punti per il 2020 e una crescita di 6.0 punti per il 2021, con significative differenze – per citare solo i paesi maggiori – tra Germania (-7,8 e + 5,4), Francia (-12.5 e + 7,3), Italia e Spagna (entrambe -12,8 e + 6,3). Sono freddi numeri, che nel mondo reale si traducono tuttavia in contrazione degli investimenti, aumento della disoccupazione e crollo dei consumi: un circolo vizioso i cui effetti si faranno sentire ancor più duramente in relazione alla crescita ben più pronunciata dei mercati emergenti, Cina in testa (+1,0 nel 2020 e + 8,2 nel 2021). È in questa drammatica situazione che l’Unione europea – a cui non appartengono quattro paesi che abbiamo sopra considerato: Regno Unito, Svizzera, Norvegia e Islanda – ha deciso di mettere in campo, sia pure tra enormi difficoltà e molteplici resistenze, strumenti finanziari di recovery e di sostegno agli Stati assai consistenti.  

Il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità)

Uno di questi strumenti, invero, è già attivo da tempo. Si tratta del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), il cosiddetto “Fondo salva-Stati”, che è stato istituito nel 2012 – nel vortice della crisi del debito sovrano prodotta in Europa dalla Grande Recessione – in sostituzione di due precedenti programmi temporanei di assistenza finanziaria ai paesi europei, istituiti entrambi nel 2010: il Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria (MESF), cui potevano accedere tutti gli Stati dell’Ue, e il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (FESF), che si rivolgeva invece ai paesi dell’eurozona. La sua creazione è avvenuta contestualmente e in modo complementare all’introduzione del “Fiscal Compact”, il patto di bilancio cui gli Stati dell’Unione hanno aderito sempre nel 2012 (con l’eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca, che si è però aggiunta nel 2014). Come il FESF, il MES è finalizzato ad assistere finanziariamente i paesi che hanno adottato la moneta unica e che si trovino in una situazione di particolare crisi o a rischio di default, con lo scopo più generale di garantire la stabilità finanziaria dell’eurozona. A differenza del FESF e del MESF, tuttavia, è un’istituzione permanente che è gestita, con una specifica personalità giuridica e una sede in Lussemburgo, da un ente composto da un Consiglio dei Governatori di cui fanno parte i ministri delle finanze dell’eurozona, da un Consiglio di Amministrazione e da un Direttore generale. Partecipano alle sue sedute come osservatori il Presidente della BCE e il Commissario Europeo agli Affari economico-monetari.

Il Commissario Europeo agli Affari Economici Paolo Gentiloni (crediti: Commissione Europea)

Creato al di fuori delle strutture comunitarie mediante un trattato intergovernativo tra gli Stati dell’eurozona, il MES fornisce prestiti ai paesi in crisi dell’eurogruppo. I suoi fondi derivano essenzialmente dall’assunzione di debiti sui mercati finanziari che sono garantiti dagli Stati membri e che sono sottoposti, in accordo con la Commissione europea, a stretti vincoli e a severe procedure di controllo, le quali possono portare anche a forme di sorveglianza rafforzata e a vere e proprie sanzioni. La procedura formale di attivazione del MES – cui hanno fatto ricorso in passato Cipro, la Spagna, il Portogallo e la Grecia – parte da una richiesta di assistenza da parte dello Stato in crisi. Passa attraverso una verifica “comunitaria” del reale fabbisogno del paese richiedente da parte della Commissione europea e della Banca Centrale Europea (BCE), con l’eventuale coinvolgimento del FMI. Se accettata, la richiesta viene poi resa operativa dagli organi di governo del MES, i quali, dotati di una totale immunità giudiziaria, votano in proporzione alle quote versate da ogni singolo Stato per alimentare i suoi fondi. In deroga alla regola dell’unanimità, la decisione finale sui casi più urgenti è presa a maggioranza qualificata. Il MES è stato oggetto di aspre critiche, anche alla luce dell’esperienza dei paesi che vi hanno fatto ricorso, in primo luogo della Grecia. Si è contestata l’immunità giudiziaria di cui godono i membri dell’organizzazione che lo gestisce e l’inviolabilità che copre i suoi atti, i suoi documenti ufficiali e la sua stessa sede. Si è criticata la sua natura essenzialmente intergovernativa, vale a dire il fatto che il MES è gestito di fatto dai singoli Stati, per di più con un meccanismo che attribuisce ad essi un peso decisionale diverso a seconda del contributo che ognuno mette a disposizione. Molti, poi, disapprovano la dipendenza de facto del MES da investimenti sui i mercati finanziari a fini di profitto e il ruolo che sulle sue scelte esercitano grandi enti finanziatori privati che sono coinvolti, sia pure come osservatori, nelle fasi istruttorie del processo che deve portare all’erogazione dei prestiti. Le critiche maggiori, tuttavia, si concentrano sulla condizionalità assai severa che governa la concessione dei prestiti, la quale è sottoposta alle regole del Patto di stabilità e crescita e ai dettami dei Fiscal Compact. Gli Stati che vi accedono devono esibire precise condizioni di ammissibilità e, soprattutto, devono poi sottoporsi a pesanti programmi di rientro del debito pubblico che possono implicare correzioni macroeconomiche assai significative in materia di lavoro, welfare, pensioni, etc. In breve, essi devono di fatto rinunciare a quote consistenti della propria sovranità in materia di politica economica, spesso mettendo in ginocchio – quanto meno sul breve o medio periodo – i propri cittadini, com’è avvenuto per l’appunto in Grecia sotto la minaccia del default. A partire dal 2017 è stato avviato un lungo e complicato processo di riforma del MES che, ancora una volta, prospettava rilevanti condizionalità per l’accesso ai prestiti. Con il sopravvenire della pandemia e della crisi ad essa connessa, tuttavia, quel processo si è interrotto. Tra la primavera e l’estate del 2020, i paesi dell’Eurogruppo hanno invece stabilito che per tutto ciò che riguarda le spese sanitarie, e solo per esse, l’accesso ai prestiti MES sarà a tassi di interesse più favorevoli e soprattutto “senza condizioni”: è il cosiddetto “MES sanitario”, una specifica linea di credito denominata Pandemic Crisis Support, cui almeno per ora nessun paese ha ancora fatto ricorso. Esso è oggetto di un intenso dibattito in Italia e altrove tra chi lo considera una straordinaria opportunità per affrontare l’emergenza e modernizzare il sistema sanitario e chi invece lo considera semplicemente una “trappola”, di fatto ancora potenzialmente sottoposta, se non ora in futuro, a tutte le condizionalità del MES.  

Il Recovery Fund

Nel frattempo, sulla base di una proposta della Commissione europea formulata il 26 maggio 2020, tra il 17 e il 21 luglio il Consiglio Europeo ha approvato un piano estremamente ambizioso che prevede due fondamentali dispositivi per la ripresa: da un lato, l’istituzione del Recovery Fund; dall’altro, un “bilancio rafforzato” dell’Ue per il periodo 2021-2027 (circa 1.100 miliardi di euro). È soprattutto sul primo – il cosiddetto Next Generation EU – che si è concentrata l’attenzione di tutti gli osservatori. Recovery Fund significa alla lettera “Fondo per la ripresa”. Si tratta di una consistente quota di risorse finanziarie, gestite a livello comunitario, che vanno a incrementare temporaneamente di 750 miliardi di euro il bilancio europeo per il periodo 2021-2024. Queste risorse – ed è una novità di enorme rilievo – saranno raccolte sui mercati finanziari attraverso l’emissione di titoli di debito comune europei. Esse saranno poi destinate – ovviamente in misura diversa e a seconda delle necessità e delle richieste – a tutti i 27 paesi dell’Ue e non solo a quelli dell’eurozona, secondo un articolato piano di interventi per la ripresa e la resilienza, la coesione territoriale e sociale, gli investimenti strategici, lo sviluppo rurale, l’innovazione e la ricerca, etc. che la Commissione ha fissato in tre “pilastri”: 1. sostenere la ripresa degli Stati membri; 2. rilanciare l’economia e sostenere gli investimenti privati; 3. trarre insegnamenti dalla crisi.

La Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen (crediti: Parlamento Europeo)

Secondo le decisioni del Consiglio europeo tali risorse saranno distribuite ai singoli Stati a partire dal 2021, per complessivi 390 miliardi in forma di sussidi a fondo perduto (grants) e 360 miliardi in forma di prestiti (loans). Per accedere a questi fondi, i governi dovranno sottoporre tra metà ottobre 2020 e aprile 2021 dei Piani di ripresa e di resilienza nazionali (PNRR) che, ratificati a livello statale, saranno valutati e poi eventualmente approvati dalla Commissione, dall’Ecofin, il Consiglio dei ministri dell’economia e delle finanze dell’Ue, e dal Parlamento europeo. A tal fine, essi dovranno rispondere a criteri di sostenibilità ambientale ed essere orientati alla crescita della produttività, alla transizione digitale, all’equità e alla stabilità in materia di finanza pubblica. Dovranno altresì essere credibili sia sul piano dei contenuti sia su quello del cronoprogramma.

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il Ministro dell'Economia Roberto Gualtieri (crediti: MEF)

L’Italia è il paese che, insieme alla Spagna, dovrebbe beneficiare della quota più alta di finanziamenti – circa 80 miliardi di sussidi e 120 miliardi di prestiti – che implicheranno però una attenta supervisione iniziale e poi in corso d’opera da parte del Consiglio europeo e della Commissione. Deriva anche da qui, dalle consistenti risorse messe a disposizione del Recovery Fund, la resistenza di parte del governo e delle forze di opposizione ad accedere ai fondi del “MES sanitario”. Ma il dibattito è ancora del tutto aperto.  

Effetto Monnet?

Il Recovery Fund, almeno per come sta prendendo forma, costituisce una svolta epocale nella storia del processo di integrazione europea. Non soltanto per la quantità delle risorse messe a disposizione in una situazione oggettiva di gravissima crisi. Ma anche e soprattutto perché ha introdotto il principio – da sempre e da più parti contestato – della condivisione comunitaria del debito, la possibilità cioè di emettere debito comune europeo. Era a dinamiche di questo genere – crisi e soluzioni – che pensava, come si è visto in principio, Jean Monnet, il principale ispiratore della celebre Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, la quale immaginava un’Europa da costruirsi passo dopo passo, attraverso “risultati concreti” tali da creare in primo luogo una “solidarietà de facto” tra i paesi del vecchio continente.

Francobollo tedesco dedicato a Jean Monnet (crediti: Wikipedia)

È però ancora troppo presto per celebrare davvero il risultato. Il complesso iter che ha portato – tra maggio e luglio – dalla proposta della Commissione alle decisioni del Consiglio europeo e che dovrà ulteriormente avanzare nei prossimi mesi ha reso ben chiaro che, nonostante tutto, quella solidarietà è ancora estremamente fragile. Lo hanno mostrato le resistenze fortissime opposte al Recovery Plan dai paesi cosiddetti “frugali” – Olanda, Danimarca, Austria, Svezia e Finlandia – che sono state in ampia misura neutralizzate dalle prese di posizione della Francia di Emmanuel Macron e soprattutto della Germania di Angela Merkel, ma al prezzo di una significativa redistribuzione tra grants e loans delle quote previste dal Next Generation EU: rispettivamente 500 e 250 miliardi nella proposta della Commissione, diventati poi 390 e 360 miliardi nelle decisioni del Consiglio europeo. Si intravedono poi ulteriori scogli all’orizzonte. Particolarmente insidioso quello che riguarda la prospettiva di vincolare qualsiasi concessione per Ungheria e Polonia al rispetto dei principi fondamentali della democrazia e dello Stato di diritto, su cui si sta profilando uno scontro di significativo rilievo e dagli esiti imprevedibili, ancora una volta cavalcato in modo opportunistico dagli stessi “frugali”, che potrebbe ritardare l’attivazione effettiva del Recovery Fund. Al di là di tutto, un passo decisivo è stato tuttavia compiuto. C’è solo da sperare che sia una maggiore consapevolezza degli imperativi dell’integrazione da parte di tutti, e non la mera recrudescenza della pandemia, purtroppo in atto, a renderlo irreversibile. Crediti immagini: Banner: Commissione Europea (crediti: sito ufficiale) Box: Commissione Europea (crediti: sito ufficiale)

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