La caratteristica davvero unica del nostro linguaggio è la capacità di trasmettere informazioni su cose che non esistono. Il “sentiero” dedicato al futuro, il secondo su Aula di Lettere dopo quello del 2016, parte da una citazione del saggio Sapiens. Da animali a dei di Yuval Noah Harari.
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A ben vedere, il futuro è qualcosa che non esiste affatto: è un tempo – e uno spazio – che dobbiamo ancora vivere, che non c’è ancora stato, ma del quale possiamo parlare. Anzi, ne parliamo continuamente: a livello personale, pianificando la nostra giornata, la nostra settimana, le prossime vacanze, quello che non siamo e che vogliamo diventare.
Ma questo succede anche a livello collettivo. Un esempio è il cambiamento climatico: come umanità, sappiamo che succederanno eventi tragici – stanno già succedendo - se non faremo nulla per diminuire drasticamente le attività che danneggiano l’ambiente.
Il linguaggio finisce quindi per plasmare il modo in cui vediamo e consideriamo il futuro, e con esso i rischi, le opportunità, i vantaggi e gli svantaggi.
Un filone di ricerche dell’ecolinguistica, una branca degli studi del linguaggio molto promettente, sta indagando come le strutture linguistiche ci portino a vedere il mondo e, in particolare, come le culture e le lingue possono portarci a non capire eventi complessi e, appunto, futuri, come il cambiamento climatico.
Parlare una lingua può quindi portarci a vedere e immaginare un futuro che non vedremmo se ne parlassimo un’altra: come possiamo fare, quindi, ad affrontare un’emergenza globale come il cambiamento climatico se non abbiamo gli stessi meccanismi concettuali e culturali per affrontarla?