Poster elettorali di Emmanuel Macron (Lorie Shaull, flickr)
Questa vittoria ha un valore per molti aspetti paradigmatico e segna un passaggio importante nella storia francese più recente. Essa, infatti, non ha soltanto arginato la prepotente avanzata del Front National di Marine Le Pen, un partito dichiaratamente di destra, di netta ispirazione populista, sovranista, islamofoba e antieuropeista, che pure è giunto al ballottaggio e ha raccolto consensi molto ampi. Ha anche reso evidente, sancendo un successo in gran parte «personale», la crisi profonda in cui versano le tradizionali forze politiche della Quinta Repubblica: da un lato, il centro-destra repubblicano, alla guida del paese dal 1995 al 2012 con i presidenti Jacques Chirac (1995-2007) e Nicolas Sarkozy (2007-2012); e, dall’altro, il Partito socialista, ai vertici della politica francese prima con François Mitterrand (1981-1995) e poi con François Hollande (2012-2017).
Anche sul terreno più ampio della politica europea l’elezione di Macron è densa di implicazioni. Una vittoria del Front National avrebbe posto infatti una gravissima ipoteca sulla tenuta del processo di integrazione, già messo a dura prova in Gran Bretagna il 23 giugno 2016 dal referendum sulla Brexit. Il neo-presidente, invece, ha assunto fin dal principio della sua campagna elettorale precisi impegni pro-Europa, prospettando anche riforme strutturali finalizzate a un rafforzamento dell’Unione in termini di crescita e di armonizzazione delle politiche dei vari Stati membri, soprattutto sul piano fiscale e sociale.
Inizieremo a capire nei prossimi mesi se l’europeismo del neo-presidente potrà effettivamente contribuire a un rinnovamento delle strutture comunitarie oppure ci restituirà una riedizione di poco aggiornata di una «Europa dei forti» costruita sul tradizionale asse franco-tedesco. Di certo però, almeno per il momento, l’elezione di Macron ha eretto un’importante barriera contro il vento populista e antieuropeista che ormai da anni soffia impetuoso sui destini e il futuro dell’Ue e di molti dei suoi Stati membri.
Prima delle elezioni: l’ondata populista
Svariati fattori hanno contribuito al successo del neo-presidente, il più giovane della storia francese, entrato in carica a 39 anni. La sua vittoria, tuttavia, fino a qualche tempo prima della corsa presidenziale, non era affatto scontata.
Le ultime consultazioni elettorali tenutesi in Francia – le europee del 2014 – avevano infatti lanciato un messaggio di segno ben diverso. A prevalere era stata allora l’ultradestra del Front National di Marine Le Pen, affermatosi come il primo partito politico francese, con quasi il 25% dei consensi a fronte del 20,80% del centro-destra e del 13,98% del Partito socialista alleato con il Partito radicale di sinistra.
La candidata del Front National Marine Le Pen (Global Panorama, flickr)
Questo risultato non era soltanto il frutto degli specifici equilibri politici interni della République. Era anche il prodotto di una più ampia «ondata populista» che nel maggio 2014, all’epoca delle elezioni europee, doveva scuotere l’intero continente, segnando una netta affermazione di movimenti e partiti in vario modo riconducibili alla categoria del «populismo». Si trattava, con ogni evidenza, di un’ondata generata dalla grave crisi economica che dagli Stati Uniti si era poi abbattuta con grande virulenza, a partire dal 2010-2011, sui paesi europei, in particolare quelli dell’eurozona.
È difficile fissare in poche parole il significato e le implicazioni del fenomeno complesso del populismo, su cui è andata fiorendo negli ultimi anni una vastissima letteratura scientifica. Di regola, ma con importanti eccezioni, i movimenti e i partiti populisti non si autodefiniscono come tali. Sono i loro avversari politici a definirli e stigmatizzarli con questo termine, che ha un chiaro significato peggiorativo. «Populismo», tuttavia, è qualcosa di più di una semplice parola della battaglia politica. È una tendenza – una «sindrome» dicono molti studiosi – che si manifesta in molteplici formazioni politiche (vecchie e nuove) del nostro tempo, che attraversa le tradizionali distinzioni fra destra e sinistra e che a ben vedere accompagna pressoché da sempre, in varia misura, la storia delle moderne democrazie rappresentative. Al netto delle sue molteplici varianti – e prescindendo dall’esperienza dei populismi «storici» (i narodniki russi della seconda metà dell’Ottocento, il People’s Party americano di fine XIX secolo e il peronismo nell’Argentina di metà Novecento) – questa sindrome presenta due caratteri essenziali che ricorrono con una certa qual regolarità, in modo confuso ma assai efficace. Il primo è una radicale pulsione anti-establishment, un sentimento di vera e propria rivolta contro le élites del potere, siano esse politiche o economiche, nazionali o sovranazionali. Il secondo è un robusto richiamo all’esigenza di restituire lo scettro del principe a un «popolo» considerato come un’unità mitica e virtuosa. Un «popolo» – si deve aggiungere – inteso di volta in volta in senso molto diverso: come ethnos o comunità nazionale, come insieme politico dei «cittadini» oppure come soggetto sociale espropriato del potere, dei diritti e delle risorse che gli spetterebbero da élites corrotte e onnipotenti. In molti casi, soprattutto laddove il «popolo» è identificato con la «nazione», entra a far parte del programma e delle retoriche populiste un terzo essenziale elemento, il cosiddetto «sovranismo». Vale a dire la rivendicazione della piena e assoluta «sovranità» del proprio popolo e del proprio Stato di contro alle sempre più intrusive limitazioni imposte da agenzie o organizzazioni internazionali quali ad esempio – e non è un semplice esempio – l’Unione europea. Molto spesso infine, ed è un quarto elemento tipico, la sindrome populista si lega all’emersione di figure particolarmente energiche di leader più o meno carismatici che attribuiscono alla propria persona la missione semi-sacrale di agire au nom du peuple, come recita uno degli slogan preferiti di Marine Le Pen.
Com’è noto, anche dopo il 2014 la sindrome populista ha continuato a irrobustirsi su scala globale, trovando in Europa le sue più significative espressioni in formazioni politiche quali Podemos in Spagna, Syriza in Grecia, l’Ukip in Gran Bretagna, la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle in Italia, Fidesz in Ungheria, il Partito della Libertà in Austria, il Partito per la libertà in Olanda, il Partito Legge e Giustizia in Polonia. Tra le sue più clamorose e recenti affermazioni spiccano il trionfo del «leave» nel già citato referendum sulla Brexit del giugno 2016 e poi l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti nel novembre dello stesso anno: due casi di successo caratterizzati da fortissime venature «nazionaliste» e «sovraniste», ben sintetizzate nell’«America First» di Trump e nel «We Want Our Country Back» di Nigel Farage.
Un segnale differente, in verità, lo avevano dato, poco dopo la vittoria di Trump, le elezioni in Austria (4 dicembre 2016) e in Olanda (14 marzo 2017). In esse, infatti, sia pure di stretta misura, avevano finito per prevalere rispettivamente il verde Alexander Van der Bellen e il liberale Mark Rutte sui due candidati della destra populista, nazionalista, islamofoba e anti-Ue: Norbert Hofer in Austria e Geert Wilders in Olanda. Per quanto parzialmente attenuato da questi esiti più recenti, l’impressione che l’onda lunga del populismo potesse investire e travolgere la République nelle vesti del Front National rimaneva tuttavia diffusa tra osservatori, analisti e attori politici. Soprattutto a fronte della crisi evidente dei tradizionali partiti francesi, il repubblicano e il socialista.
In Francia, del resto, agivano con particolare efficacia alcune condizioni di fondo che favoriscono tipicamente l’esplosione della bomba populista. Accanto a una tradizione nazionalista e sovranista radicata da molto tempo in ampie fasce della classe politica e della popolazione, sempre più insofferente ai vincoli imposti soprattutto dall’Ue, la più importante di queste condizioni era e rimane la grande sfida della società multiculturale. Una sfida resa inaggirabile dal gigantesco e vorticoso movimento di uomini caratteristica dell’era globale e che di regola, lungi dal produrre integrazione, genera almeno come prima reazione paure, insicurezza, xenofobia, pulsioni di chiusura, muri, reciproche avversioni.
In Francia, paese di forte immigrazione, costellato di banlieue in cui immigrazione, fallita integrazione e disagio sociale si fondono in una miscela esplosiva, questa sfida è stata portata a ebollizione non soltanto dalla grande crisi migratoria che ha investito in modo virulento tutta l’Europa mediterranea dalla Grecia alla Spagna, ma anche e soprattutto dalla piaga del terrorismo di matrice jihadista. Una piaga che, esasperando la paura e l’odio dell’«altro», ha colpito il paese ripetutamente e con particolare ferocia tra il 2015 e il 2016: due volte a Parigi (gennaio e novembre 2015) e una volta a Nizza (luglio 2016).
Da qui il fortissimo richiamo esercitato nel paese dal Front National, ruvidamente anti-Ue, anti-Islam, anti-immigrazione, nazionalista, sovranista. E da qui la grande incertezza che, anche a causa della debolezza di repubblicani e socialisti, ha segnato la lunga vigilia delle elezioni presidenziali. Quanto meno fino ai primi sondaggi in favore dell’outsider che doveva poi risultare vincitore.
Le ragioni di una vittoria
Almeno a prima vista Macron appariva come il personaggio meno indicato per ingaggiare una competizione vittoriosa con i rudi avversari del Front National. Laureato in filosofia con Paul Ricoeur, studente modello a SciencePo e poi all’école Nationale d’Administration (ENA) – una fucina di tecnocrati di altissimo livello – funzionario di primo piano dell’amministrazione repubblicana, banchiere di successo presso la banca d’affari Rothschild, diventato milionario grazie a importanti intermediazioni finanziarie, ministro della repubblica e, come se non bastasse, convinto europeista, egli incarnava la perfetta espressione di quella élite del potere che costituisce il nemico mortale e al tempo stesso il bersaglio preferito di ogni populismo. In questo caso, tuttavia, il bersaglio doveva rivelarsi tutt’altro che facile da colpire.
I manifesti elettorali dei candidati all'Eliseo (stanjourdan, flickr)
Sono molteplici i fattori che, nonostante i crescenti successi del Front National, hanno giocato in favore della corsa di Macron alla presidenza. Tre di essi in particolare, strettamente correlati, dovevano risultare davvero decisivi.
Il primo – come si è già anticipato – è stata la profonda crisi di prospettive e di leadership dei tradizionali partiti di governo della République. Questa crisi ha investito in modo particolare il Partito socialista. Essa non è stata alimentata soltanto dal deludente quinquennio della presidenza Hollande, che infatti non si è ricandidato all’Eliseo per non esporre il partito a sicura sconfitta. È stata anche il frutto delle forti divisioni – che oggi in verità attraversano tutti i partiti europei di tradizione socialista – tra un’ala centrista orientata in senso social-liberale, rappresentata da Manuel Valls in continuità con Hollande, e un’ala collocata più a sinistra e fautrice di strategie radicali in materia di politiche sociali e del lavoro. Un’ala rappresentata da Bénoit Hamon, risultato vincitore alle primarie del partito nel gennaio 2017 e quindi in corsa per la presidenza. Si presentava altrettanto divisa la galassia dei Repubblicani, tra cui spiccavano le figure di Alain Juppé (ex primo ministro dal 1995 al 1997), Nicolas Sarkozy (ex presidente della Repubblica dal 2007 al 2012) e di François Fillon (anch’egli ex primo ministro durante la presidenza di Sarkozy). Fu quest’ultimo ad affermarsi di gran lunga come il vincitore delle primarie del partito, tenutesi nel novembre 2016, e a mettersi in corsa per la presidenza, inizialmente con pronostici assai favorevoli ma poi travolto da una serie di gravi scandali personali che dovevano indebolirne drasticamente la candidatura.
Il secondo fattore che doveva favorire la vittoria di Macron è la significativa frammentazione del quadro politico nazionale – un dato niente affatto inedito nelle presidenziali in Francia – e soprattutto la sua crescente radicalizzazione. Accanto a «En Marche!» e alle tre forze politiche più strutturate e radicate – i Repubblicani, il Partito socialista e il Front National – diverse altre formazioni erano infatti in corsa per il primo turno delle presidenziali, a cui dovevano partecipare complessivamente 11 candidati. La più importante di esse, in diretta competizione con il Partito socialista di Hamon, era «France Insoumise» di Jean-Luc Mélenchon, orientato su posizioni di sinistra radicale e anti-establishment e deciso a raccogliere la più «autentica» eredità della sinistra socialista senza scendere a compromessi con il Ps: con robuste misure di redistribuzione della ricchezza e la promessa di politiche altrettanto energiche contro l’Europa della finanza, dei banchieri, delle grandi imprese e delle tecno-burocrazie. Altrettanto radicali e anti-establishment erano quasi tutti gli altri soggetti politici in corsa, destinati peraltro a raccogliere limitati o addirittura limitatissimi consensi: a sinistra, «Lutte Ouvrière» di Nathalie Arthaud, «Résistons!» di Jean Lassalle, il «Nouveau Parti Anticapitaliste» di Philippe Poutou; e a destra «Solidarité et Progrès» di Jacques Cheminade, l’«Union Popoulaire Républicaine» di François Asselineau, e ancora «Debout la République» di Nicolas Dupont-Aignan.
In questo quadro – con molte analogie con la situazione venutasi a creare in diversi paesi europei negli ultimi anni – le presidenziali francesi vedevano dunque contrapporsi principalmente forze di establishment in crisi di consenso (Repubblicani e Socialisti) e robuste forze anti-establishment distribuite però su un ampio spettro di posizioni oscillanti tra la sinistra estrema e la destra radicale (in primis «France Insoumisse» di Mélenchon e il «Front National» di Marine Le Pen). In mezzo rimaneva «En Marche!»: una formazione tipicamente di establishment, guidata però da un outsider di talento, in acrobatico equilibrio tra destra e sinistra, capace di muoversi nelle alte sfere della politica e dell’amministrazione francese, nel mondo delle banche e della grande finanza, e al tempo stesso di entrare in sintonia con ampie fasce dell’elettorato dei tradizionali partiti di governo, con uno stile non privo di tratti populisti, ma capace di neutralizzare le paure che i populismi «veri» tendono a suscitare.
È in questo quadro che ha giocato un ruolo cruciale il terzo e davvero fondamentale fattore della vittoria di Macron: il peculiare sistema elettorale francese, un sistema maggioritario a doppio turno.
Le elezioni: primo e secondo turno
Il sistema elettorale francese per le presidenziali prevede che vinca la carica di presidente della Repubblica il candidato che ottiene al primo turno il 50% più uno dei voti. Qualora ciò non avvenga – e non avviene mai – accedono a un secondo turno di ballottaggio i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti al primo turno. Un sistema del genere spinge gli elettori a votare in prima istanza il candidato del partito in cui si riconoscono e al secondo turno il candidato che è meno distante dalle proprie posizioni: a votare – come spesso si dice – la prima volta con il «cuore» e la seconda con il «cervello». Si tratta, in generale, di un meccanismo che tende a depotenziare le formazioni politiche più radicali e a favorire la convergenza dei consensi verso il centro dello schieramento politico.
È questo meccanismo, insieme alla crisi dei Repubblicani e dei Socialisti, che ha reso da ultimo possibile la vittoria di Macron.
La prima tornata elettorale, svoltasi il 23 aprile, ha infatti segnato l’affermazione di «En Marche!» e del «Front National» rispettivamente con il 24,01% e il 21,30% dei voti, con un’affluenza alle urne pari a quasi il 78% degli aventi diritto. I Repubblicani di Fillon, travolto dagli scandali, hanno ottenuto il 20,01%. Il Partito socialista di Hamon, a sua volta, è crollato al 6,36%, ampiamente superato dalla sinistra radicale di «France Insoumisse» guidata da Mélenchon, che ha raccolto uno straordinario 19,58% dei voti. Tutti gli altri candidati – con l’unica eccezione di Nicolas Dupont-Aignan di «Debout la République» (4,7%) – hanno ottenuto percentuali di consensi molto basse, oscillanti tra 1,21% di «Résistons!» e lo 0,18% di «Solidarité et Progrès».
Francois Fillon, candidato per i Repubblicani (EPP, flickr)
Alla luce di questo risultato, sia Fillon e i Repubblicani sia Hamon e il Partito socialista hanno invitato i propri elettori a votare per Macron, l’unico candidato di establishment sopravvissuto alla competizione elettorale a fronte della candidata anti-establishment Marine Le Pen. E, com’era altamente prevedibile, il primo ha battuto la seconda con il 66,1% dei voti contro il 33,9%, con un’affluenza alle urne di quasi il 75% degli aventi diritto.
Per rendersi conto di quanto è avvenuto tra il primo e il secondo turno è sufficiente osservare che Macron, scelto al primo turno da poco più di 8 milioni e mezzo di francesi, è stato votato al secondo turno da quasi 21 milioni di elettori. La Le Pen, che aveva raccolto al primo turno 7 milioni e settecentomila voti circa al primo turno, ne ha invece ottenuti al secondo circa 3 milioni in più (10 milioni e settecentomila).
Bilancio e prospettive
La vittoria di Macron è stata salutata da molti con sollievo, in Francia e all’estero. I suoi effetti sono di grandissimo rilievo, ma andranno messi all’ulteriore prova dei fatti.
Il giovane presidente, infatti, ha inflitto senza dubbio una severa sconfitta al populismo di ultradestra di Marine Le Pen. Rimane tuttavia il dato che circa un terzo dei francesi gli hanno preferito le sirene populiste del Front National. Il che non è certo da sottovalutare per ciò che riguarda il futuro della Francia e più in generale dell’Europa.
Macron ha al tempo stesso rimescolato gli equilibri politici del paese, dando forma e sostanza a una crisi quasi senza precedenti del tradizionale bipartitismo francese, se si fa eccezione per le presidenziali del 2002, che videro contrapporsi al ballottaggio Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen, padre di Marine e fondatore del Front National. E lo ha fatto – cosa ancora più significativa – con una creatura politica, «En Marche!», che appartiene con ogni evidenza al genere, oggi sempre più di successo, del «partito personale»: con un «partito del leader» che tradisce, destando in molti acute preoccupazioni, una profonda trasformazione delle moderne democrazie rappresentative. In che misura, però, la sua vittoria sia davvero da attribuirsi alle sue doti di leader e alla sua capacità politica e piuttosto che alla crisi forse solo temporanea dei tradizionali partiti della République e alle peculiari proprietà del suo sistema elettorale è tutto da verificare.
Un banco di prova decisivo saranno le ormai imminenti elezioni legislative, che si celebreranno, anch’esse in due turni, l’11 e il 18 giugno. È su questo terreno che si potranno valutare con maggiore chiarezza i rapporti di forza tra i diversi partiti politici francesi. Ed è su questo terreno che si decideranno anche i destini del governo che in Francia – repubblica semipresidenziale – è «condiviso» tra un presidente e un primo ministro che viene nominato dal capo dello Stato ma deve ottenere la fiducia del Parlamento. Com’è già avvenuto più volte con la cosiddetta «coabitazione», può dunque tranquillamente accadere che il primo ministro non appartenga allo stesso partito del presidente. Ciò garantisce importanti meccanismi di checks and balances, ma può anche rendere più complessa e talora meno incisiva l’azione politica dell’esecutivo nel suo insieme. Soprattutto se la distanza politica tra presidente e primo ministro è assai pronunciata.
Crediti immagini: Elysee.fr e Lorie Shaull, flickr