Il Presidente siriano Bashar al-Assad (Wikipedia)
La crisi che affligge la Siria è estremamente complessa. Il coinvolgimento di svariati attori quali gli Stati Uniti, la Russia, la Turchia, l’Iran, Hezbollah, i curdi, al Qaeda – per citare solo i principali – e la sua parziale sovrapposizione con la vicenda dell’ascesa e poi del declino dello «Stato Islamico» (Isis) l’hanno resa e la rendono tuttora suscettibile di sviluppi del tutto imprevedibili. Per comprenderne le dinamiche, la posta in gioco e le prospettive future è necessario risalire alle sue origini, che vanno collocate nella breve stagione della cosiddetta «primavera araba», tra il 2010 e il 2011. È da allora, infatti, che in un crescendo di violenza e disordine la Siria è precipitata nel caos di un conflitto di cui non si riesce ancora a intravedere la fine.
Le origini della crisi: la «primavera» siriana
Fino alla vigilia della «primavera araba» – o delle «rivolte arabe» del 2010-2011, come alcuni studiosi preferiscono dire – la Siria era un paese segnato da forti tensioni ma sostanzialmente stabile. Tra il principio degli anni Settanta e il giugno del 2000 essa era stata saldamente governata da Hafiz al-Assad, leader del partito Ba’th e dal 1971 più volte rieletto presidente della Repubblica, che impose un regime autoritario e monopartitico per molto tempo strettamente legato all’Unione Sovietica e fortemente ostile a Israele. Un regime, si deve aggiungere, nettamente avverso alla minoranza curda stanziata nella parte settentrionale del paese e nel contempo assai poco gradito alla componente sunnita della popolazione, maggioritaria in Siria. Assad, infatti, apparteneva alla corrente sciita degli alawiti e negli Ottanta era entrato in rotta di collisione con i Fratelli Musulmani. Ne era seguita una spirale di attentati terroristici e di azioni repressive che dovevano culminare nel febbraio 1982 nel massacro di Hama, in cui persero la vita migliaia di insorti anti-governativi. Nel giugno-luglio 2000 a Hafiz succedette il figlio Bashar al-Assad, che è tuttora il presidente di ciò che rimane della repubblica siriana. Salito al potere a poco meno di 35 anni, il giovane Assad, dopo vaghe promesse di riforme, lasciò sostanzialmente intatte le strutture autoritarie del regime paterno, assumendo al tempo stesso atteggiamenti sempre più apertamente ostili nei confronti di Usa e Israele, soprattutto all’indomani dell’invasione americana dell’Iraq (2003). Contro il suo governo si consolidò nel corso del tempo un variegato fronte di opposizione il quale, a partire dal febbraio-marzo del 2011, iniziò a promuovere una serie di manifestazioni popolari che chiedevano maggiore libertà e democrazia e lo smantellamento del regime. I tempi sembravano propizi. Negli stessi mesi, infatti, sull’onda della «primavera araba», erano caduti il regime di Ben Ali in Tunisia (14 gennaio 2018) e di Mubarak in Egitto (11 febbraio 2018). Contemporaneamente in Libia, in una situazione assai più incerta e resa poi estremamente complessa dall’intervento della comunità internazionale, era iniziata la rivolta contro il regime di Gheddafi, che doveva trasformarsi in una sanguinosa guerra civile, destinata a protrarsi ben oltre la cattura e l’assassinio del dittatore libico (20 ottobre 2011). Molte altre rivolte e proteste – nello Yemen, in Iraq, in Marocco, in Giordania, in Kuwait, in Bahrein, etc. – sembravano comunque suggerire che fosse ormai all’ordine del giorno la crisi terminale dei regimi autoritari del mondo arabo. In Siria, però, le cose dovevano andare molto diversamente. Il governo di Bashar al-Assad, infatti, non solo riuscì a resistere ai suoi oppositori, ma trovò anche le risorse per scatenare una violenta repressione. Da qui l’incancrenirsi delle proteste in una terribile guerra civile, complicata dalla contrapposizione religiosa tra sciiti e sunniti e dalla questione curda, avvelenata dalla presenza di formazioni terroristiche di matrice islamista e dello Stato islamico e presto sostenuta in vario modo, su fronti opposti, dalle grandi potenze regionali e mondiali. Il tutto in un contesto regionale di grave crisi.Gli inizi della guerra civile
La ribellione aperta contro il regime di Assad prese avvio nelle regioni meridionali (e più povere) del paese, dove era prevalente l’elemento sunnita. Intorno alla metà di marzo 2011 le manifestazioni contro il regime iniziarono a farsi sempre più imponenti e, a partire dalla città di Dar’a, si moltiplicarono in tutta la Siria. Il governo rispose con una feroce repressione, schierando l’esercito e facendo numerose vittime. Anche i manifestanti, tra le cui fila iniziò a registrarsi la presenza dei Fratelli Musulmani, presero dunque ad armarsi. È in questo quadro di crescente violenza, aspramente condannata dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, che i ribelli, nel luglio 2011, si organizzarono militarmente nell’Esercito siriano libero, in cui confluirono molti elementi delle forze armate regolari. Poco dopo essi si diedero anche una struttura di coordinamento politico, istituendo un Consiglio nazionale siriano in esilio in Turchia. A quel punto le manifestazioni contro il regime lasciarono il posto a scontri armati su vasta scala, spesso intrecciati a reciproche violenze tra gruppi religiosi contrapposti, che diedero inizio a un processo di crescente frammentazione del paese in enclave rivali. A rendere ancor più gravi e complessi gli sviluppi della guerra civile contribuirono tre ulteriori fattori. Il primo fu l’intervento in essa, a partire dal 2012, del Fronte al-Nusra, un gruppo terroristico legato ad Al Qaeda e al fondamentalismo islamico di matrice sunnita. Questa organizzazione, pur agendo in maniera indipendente dall’Esercito libero, contribuì a esacerbare il conflitto, ricorrendo a tecniche tipicamente terroristiche contro il regime di Assad, compresi micidiali attacchi suicidi. La risposta del governo fu l’impiego sempre più massiccio delle milizie shabiha, vale a dire di bande criminali e di gruppi paramilitari che, a partire dalla primavera del 2012, misero in atto veri e propri massacri indiscriminati di ribelli e civili. È in questo clima di crescenti violenze – è il secondo fattore – che la guerra civile cominciò negli stessi mesi a internazionalizzarsi in modo sempre più netto. Iniziarono infatti a schierarsi con i ribelli dell’Esercito libero – fornendo in varia misura armi, denaro, consiglieri, addestramento – la Turchia, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, il Qatar e l’Arabia Saudita. Il regime di Assad, a sua volta, ricevette aiuti altrettanto concreti dalla Russia, suo tradizionale alleato, e dall’Iran, deciso a presidiare la tenuta della cosiddetta «mezzaluna sciita», vale a dire dell’asse geopolitico che lega Teheran, Damasco e Hezbollah in Libano. In tal modo la crisi siriana si apriva a pericolose prospettive di escalation, diventando parte di un gioco assai più grande e complesso la cui posta era l’affermazione di egemonie regionali e al contempo globali. Un terzo fattore doveva altresì rendere la guerra civile ancor più caotica e ingovernabile: l’annosa questione curda. Essa si riaccese nel luglio di 2012, proprio mentre l’Esercito libero e altri gruppi islamisti, sia pure con esiti incerti, attaccavano le forze governative sui due fronti di Damasco e di Aleppo. Stanziati nelle regioni settentrionali del paese, a lungo discriminati e perseguitati dal regime, i curdi approfittarono della crisi del governo centrale per scatenare una campagna militare finalizzata alla «liberazione» dei territori siriani del Nord, a maggioranza curda. In tal modo, quanto meno di fatto, il fronte anti-governativo si ampliò ulteriormente, senza assumere però una fisionomia unitaria. I curdi, infatti, agivano in modo sostanzialmente indipendente dai ribelli, guardando anzi con grande sospetto ai legami che li univano alla Turchia e agli islamisti, due soggetti tradizionalmente del tutto ostili alla loro causa. È con questi attori in campo – le forze armate governative, l’Esercito libero, gli islamisti di al-Nusra e di altre formazioni fondamentaliste e i curdi – che la guerra civile, sia pure con diversa intensità, dilagò in tutto il paese producendo violenze indicibili e, nel contempo, ben pochi risultati stabili e strategicamente rilevanti. Poco per volta però, tra il 2012 e il 2013, nella lotta contro il regime assunsero un ruolo crescente e poi preponderante le milizie islamiste. Il che, oltre a suscitare la reazione di altre minoranze etniche e religiose, doveva complicare ulteriormente il teatro del conflitto.Lo Stato islamico e l’internazionalizzazione del conflitto
I successi degli islamisti – che nel marzo 2013 riuscirono tra l’altro a conquistare la città di Raqqa – spinsero l’Iran sciita a sostenere in modo più deciso il regime di Assad attraverso le milizie libanesi di Hezbollah, che si unirono all’esercito regolare siriano, infliggendo gravi perdite ai ribelli in varie parti del paese. Quasi contemporaneamente, al fronte anti-governativo si aggiunsero, sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi, i miliziani dell’emergente Stato islamico dell’Iraq (Isi), poi Stato islamico dell’Iraq e della Siria (Isis), che nel giugno 2014 dovevano proclamare lo Stato islamico tout court, ponendo il proprio quartier generale a Raqqa e di fatto cancellando la frontiera tra Siria e Iraq. L’ingresso dell’Isis nel conflitto siriano impresse una prepotente accelerazione ai suoi ulteriori sviluppi. In parte osteggiato dagli stessi militanti di al-Nusra, che pur in un quadro di sostanziale collaborazione si opposero alla fusione dei due gruppi, esso spezzò il già fragile fronte che ancora legava gli islamisti ai ribelli dell’Esercito libero. Quest’ultimo divenne anzi uno degli obiettivi espliciti degli attacchi dell’Isis, perdendo rapidamente molte delle proprie posizioni nella lotta contro Assad. Crebbero altresì, nel nord del paese, gli attriti tra i curdi e le forze islamiste. Il tutto in un contesto di crescente dilagare delle violenze, soprattutto ai danni della popolazione civile. Un segno chiaro dell’imbarbarimento progressivo degli scontri fu, nell’agosto del 2013, l’attacco chimico di Ghuta, nei pressi di Damasco, di cui si accusarono reciprocamente le forze governative e i ribelli. L’attacco, oltre a provocare centinaia di vittime, suscitò una grave crisi internazionale. Gli Stati Uniti, insieme a Gran Bretagna, Francia e Turchia, si dichiararono infatti pronti a intervenire militarmente a favore dei ribelli. Lo stesso fecero, ma a favore di Assad, la Russia e l’Iran. Il Mediterraneo e il Mar Nero iniziarono ad affollarsi di navi e portaerei americane e russe. La crisi, tuttavia, anche per le pressioni della Cina, fu scongiurata per vie diplomatiche e si chiuse nel mese di settembre con una risoluzione Onu che imponeva, in cambio del non intervento degli Usa e dei loro alleati, la distruzione dell’arsenale chimico del regime.
Gli ispettori dell'ONU in Siria dopo un presunto attacco chimico (William Proby, flickr)
Questi sviluppi, così come la successiva e fallimentare conferenza di pace di Ginevra indetta dall’Onu nel gennaio-febbraio 2014, non arrestarono in alcun modo la continuazione della guerra civile. Nei primi mesi del 2014 essa vide prevalere in diverse parti del paese le forze governative e spaccarsi ulteriormente il fronte dei ribelli, con aperti scontri tra gli stessi gruppi islamisti legati rispettivamente ad al-Nusra e all’Isis. Sia pure in un contesto caotico, il 3 giugno 2014 si poterono comunque celebrare le elezioni presidenziali, che per la terza volta confermarono per altri sette anni, e a grande maggioranza, il mandato di Bashar al Assad.
Nel giro di poche settimane, tuttavia, la situazione doveva drasticamente mutare con la travolgente offensiva dell’Isis tra l’Iraq e la Siria, culminata – come si è detto – con la proclamazione del califfato il 29 giugno 2014. Da quel momento e sino alla fine del 2017, quando fu sostanzialmente smantellato, fu lo Stato islamico, sostenuto da migliaia di foreign fighters, a imprimere il maggiore (ma non certo unico) impulso al caos siriano e – si deve aggiungere – iracheno. La sua violentissima espansione, anche nelle province curde irachene e siriane, ebbe l’effetto di internazionalizzare ulteriormente il conflitto e di farne emergere le molteplici contraddizioni.
Mentre sul terreno continuavano gli scontri tra le diverse parti in lotta, furono infatti dapprima gli Stati Uniti, nel settembre 2014, a bombardare le postazioni dell’Isis in Siria (con il rischio, però, di offrire importanti vantaggi al regime di Assad) e poi a sostenere sempre più massicciamente l’avanzata dei ribelli curdi nel nord del paese, che doveva a sua volta preoccupare la Turchia. A partire dal settembre 2015, di fronte alla crescente debolezza delle forze governative, furono poi soprattutto i russi a bombardare le postazioni dei ribelli e dell’Isis e a sostenere in seguito le offensive dell’esercito del regime, insieme a Hezbollah e all’Iran. In tal modo, attraverso una miriade di attacchi e contrattacchi, assedi, offensive e controffensive, fragili tregue e riprese violentissime delle ostilità – a Damasco, Aleppo, Homs, Kobane, Palmira e moltissime altre città siriane – nel corso del 2016, poco per volta, lo Stato islamico cominciò a perdere posizioni. Il suo smantellamento quasi completo ebbe luogo verso la fine del 2017, con la caduta di Raqqa nelle mani dei curdi e di Deir ez-Zor in quelle dell’esercito governativo.
Nel frattempo, la guerra civile siriana aveva proiettato la sua ombra ben oltre i confini del paese. In particolare nel 2015, l’anno degli attentati terroristici di Parigi (a gennaio e poi a novembre) e della colossale «crisi migratoria» o «dei rifugiati» che dovevano mettere in ginocchio l’Europa.
Gli sviluppi più recenti e le prospettive future
Il tramonto dello Stato islamico, le cui conseguenze non sono ancora chiaramente prevedibili, non ha significato la fine della guerra civile siriana. Esso al contrario, in un contesto assai confuso, segnato da interventi diretti della Turchia nelle province curde e da bombardamenti effettuati dall’aviazione americana contro truppe e milizie governative, ha in parte ridato fiato all’offensiva del regime di Assad contro il fronte ancora assai composito dei suoi oppositori. È in questo quadro che si colloca il grave attacco chimico contro la cittadina di Douma, roccaforte dei ribelli a est di Damasco, compiuto il 7 aprile 2018 – si presume – dalle forze governative.
Meeting internazionale sul nucleare iraniano, altra questione che rende estremamente complicato il quadro dell'area medio-orientale, tenutasi nel 2015 a Londra (flickr)
Come era già accaduto in passato, il presidente siriano ha respinto energicamente l’accusa di aver fatto ricorso ad armi chimiche. Secondo le sue dichiarazioni, energicamente confermate anche dalla diplomazia russa, sarebbero state le fazioni in lotta contro il suo regime a utilizzarle contro civili inermi per provocare la reazione della comunità internazionale. Per il momento, dunque, i dettagli di quanto è effettivamente successo sono assai poco chiari. È un fatto, tuttavia, che una settimana più tardi, il 14 aprile, dopo un crescendo di minacce e avvertimenti, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno sferrato un attacco missilistico congiunto in Siria, con l’obiettivo di colpire e neutralizzare l’arsenale di Assad. L’attacco doveva al contempo lanciare, ancora una volta, un chiaro monito ai principali alleati del regime siriano: la Russia, l’Iran e Hezbollah in Libano.
In questo modo, in un’area che è diventata nel corso degli anni un crocevia strategico degli interessi delle grandi potenze e della guerra al terrorismo, la crisi siriana è tornata prepotentemente alla ribalta della politica mondiale in tutta la sua drammatica e pericolosa complessità. Il recentissimo annuncio dell’uscita degli Stati Uniti dagli accordi sul nucleare con l’Iran (maggio 2018), peraltro fortemente osteggiata dall’Europa, i missili iraniani lanciati sulle alture del Golan e le rappresaglie israeliane in Siria non sembrano promettere niente di buono. Parrebbero, al contrario, annunciare un’ulteriore e assai pericolosa escalation dei conflitti che da ormai da decenni insanguinano il Medio Oriente contemporaneo. Un’area che sempre più sta diventando uno dei terreni decisivi su cui si giocano gli equilibri e il futuro della politica mondiale.