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Arrivare secondi. Ma non nello sport
Ultimo parallelo di Filippo Tuena racconta di un viaggio e di un fallimento: quello di Robert Scott e della sua spedizione in Antartide. È il 1912, e l’inglese Scott raggiunge, insieme a quattro compagni, il Polo Sud a piedi dopo una marcia di centinaia di chilometri nel ghiaccio: è la prima volta che l’uomo raggiunge il punto dove il mondo davvero finisce. E tuttavia, una volta giunti al Polo, Scott e i suoi fanno un’amara scoperta: una spedizione norvegese, capitanata da Amundsen, li ha preceduti di cinque settimane. Durante il ritorno, i cinque muoiono, sopraffatti dal clima e, forse, dal senso di impotenza. Perché Tuena, avendo la possibilità di raccontarci di Amundsen, il primo uomo a toccare il Polo, sceglie invece di raccontare la storia di una sconfitta? Perché, forse, non è così importante il racconto della scoperta geografica, o della “gara” coi norvegesi: ciò che conta è che, attraverso Scott, Tuena può mettere in luce alcuni aspetti profondi dell’essere umano, sondarne i limiti, ragionare sulla vita e sulla morte, sulla paura e la disperazione. Amundsen è un eroe, un uomo tutto d’un pezzo che ha ottenuto ciò che voleva; Scott, invece, ha dovuto fare i conti con la parte oscura che è in tutti noi: ha commesso errori, li ha pagati e ne ha lasciato testimonianza in alcuni diari miracolosamente conservati che sono stati ritrovati vicino al suo corpo. Lì dentro, e Tuena lo sa, c’è il racconto, scritto giorno per giorno finché le dita non si sono congelate del tutto, della sfida che l’uomo ha lanciato alla natura e a se stesso.
Robert Falcon Scott in Antartide. Clicca qui per vedere le foto della sua spedizione su National Geographic
L’infelicità, la perdita, la sconfitta come motori narrativi
A volte ci si domanda perché la letteratura non racconti quasi mai storie dove regna la felicità: sembra anzi che le parole, per poter essere scritte, debbano riferirsi alla perdita, al dolore, alla disperazione. I motivi sono due: il primo è che qualunque storia, per essere raccontata, deve avere al centro un problema da risolvere, un ostacolo che il protagonista deve superare. Pensateci: I promessi sposi si regge su un matrimonio «che non s’ha da fare», i gialli su delitti più o meno ingarbugliati da decifrare, i romanzi d’avventura sulla conquista di terre, tesori, donne amate e rapite (dunque su qualcosa che, almeno all’inizio, manca). Ogni narrazione è la risoluzione di un problema.
Il secondo motivo, invece, è che la felicità, la vittoria non sono raccontabili. Pensate alle favole: vi si racconta di bambini perduti, lupi famelici, streghe cannibali, e soltanto alla fine, quando tutto si è risolto e non c’è più nulla di interessante da raccontare, si può vivere felici e contenti.
Dunque la sconfitta, la perdita, l’infelicità sono il centro, i motori della narrazione. Non si narra una vittoria: la si festeggia. Si racconta invece qualcosa che è irrisolto: una pena, una disfatta.
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La sconfitta, quella vera
È proprio questo che, sottotraccia, il grande scrittore tedesco W.G. Sebald ha rimproverato alla letteratura del suo Paese: il fatto di non aver avuto il coraggio di entrare fino in fondo nella tragedia della Germania sconfitta e distrutta dopo il ‘45. In uno splendido e durissimo saggio pubblicato nel 2001, e intitolato Storia naturale della distruzione, Sebald fa, per la prima volta, i conti con un grande tabù letterario: la distruzione delle città tedesche in seguito ai bombardamenti alleati durante la Seconda guerra mondiale. Ebbene, dice Sebald, nonostante i seicentomila morti, il grande trauma collettivo che furono la sconfitta e la devastazione e, ancora, nonostante gli anni che ci vollero alla Germania post-hitleriana per ricostruire e ricominciare, la letteratura tedesca dell’epoca fece finta di niente. Non ne parlò. Non c’è traccia, nei romanzi fino alla fine degli anni Cinquanta, di questo trauma collettivo: non ci sono macerie, non c’è il dolore dei tedeschi colpiti. O meglio, c’è, se è vero che nacque un movimento letterario chiamato Trümmerliteratur, che significa “letteratura delle macerie”, e di cui fecero parte grandissimi come Böll e Schmidt: e tuttavia, a loro Sebald rimprovera il mancato coraggio di andare fino in fondo, di raccontare l’orrore, l’umiliazione del loro popolo. Non si parla delle bombe, della distruzione, ma solo del dopo. Certo, chiosa Sebald, la guerra era stata colpa loro, e si erano meritati la sconfitta, la distruzione e la vergogna: essendo colpevoli, non avevano diritto di raccontare il proprio dolore. «Il dato di fatto della distruzione di quasi tutte le maggiori città tedesche e di numerose fra quelle di minor estensione […] si cristallizza» scrive «nelle opere nate dopo il 1945, in un silenzio che lo scrittore impone a se stesso». Ci siamo meritati la sconfitta e la morte – sembrano dire gli scrittori tedeschi – e non ce ne possiamo lamentare.
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Immagine di apertura: "Voltando le spalle alla coppa" di Finizio (via flickr)
Immagine per il box: "Dresden/Sachsen 1945 - Panorambild Asisi" di Jorbasa Photographie (via flickr)