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L’altra metà di Dylan

L'Accademia svedese ha assegnato a Bob Dylan il Premio Nobel per la letteratura del 2016, sollevando polemiche e discussioni. Le riflessioni di Andrea Tarabbia
Nel corso della sua storia, il Premio Nobel per la letteratura non è stato assegnato soltanto a scrittori, poeti e drammaturghi – categorie, queste, strettamente letterarie. Lo hanno vinto, tra gli altri, dei filosofi (Henri Bergson e Bertrand Russell), uno storico (Theodor Mommsen) perfino uno statista (Winston Churchill): figure capitali che non hanno granché a che spartire con i versi o con la costruzione di mondi di finzione. Pochi giorni fa, dopo molti anni in cui veniva assegnato a scrittori, il premio è toccato di nuovo a qualcuno che lavora con altre forme: Bob Dylan. Il mondo si è diviso in due, benché la scelta dell’Accademia di Svezia sia legittima e storicamente giustificata. Tuttavia, anch’io sono diviso in due. Da una parte, credo – ed è un’ovvietà – che siano poche le figure del Novecento che, per potenza e impatto sulla cultura occidentale, possano stare accanto a Dylan (Chi può sederglisi accanto? Picasso? Einstein?). E credo soprattutto che brani come Boots of Spanish leather, Visions of Johanna, Ballad of  a Thin Man e Tangled up in Blue, per citarne qualcuno, siano pietre miliari della lingua inglese. Dall’altra, il premio a Dylan ha qualcosa di disturbante: per dirla in modo semplice e diretto, mi pare che si sancisca che è un gigante, ma che lo si faccia con il premio sbagliato. Spiegare quest’affermazione significa, almeno in parte, ragionare sullo statuto della letteratura oggi. Comincio dalla motivazione che l’Accademia ha fornito per conferire il premio: «per aver creato nuove espressioni poetiche all'interno della grande tradizione della canzone americana». Si premia Dylan in quanto poeta, benché lo sia nel contesto di una tradizione non strettamente poetica, ma musicale. È un poeta, Dylan? Lo è, ma solo fino a un certo punto. Perché – e lo spiega molto bene Tiziano Scarpa in questo articolo – le sue composizioni poetiche nascono per essere messe in musica e cantate: sono dunque zoppe se private degli accordi, sono in qualche modo incomplete senza una chitarra che le sostenga. Dico questo indipendentemente dal loro valore letterario (ma: Blowin’ in the Wind è un bel testo poetico? No. E Desolation Row, invece? Sì): è una questione di statuto. I testi di Dylan possono essere letti, ma acquistano pienamente senso solo se sono ascoltati. La poesia nasce per essere accompagnata dagli strumenti musicali, ancora nel Novecento il concetto di lettura di poesie in pubblico (penso ai futuristi, alle avanguardie) è una parte fondamentale non solo della divulgazione di poesie, ma arriva a influenzare il modo in cui certi poeti (penso a Majakovskij) compongono: le loro poesie sono immaginate e scritte per essere lette ad alta voce. Eppure, fatte salve alcune arditissime sperimentazioni (che non hanno vinto il Nobel), in generale si tratta di componimenti nati per la voce ma perfettamente assimilabili attraverso una lettura tradizionale. Soprattutto – e mi piace pensare che sia questo, e non la sua proverbiale spocchia, il motivo per cui Dylan non ha ancora risposto all’Accademia – ho la sensazione che un premio squisitamente letterario come il Nobel sia qualcosa che, se solletica l’ego da un lato, dall’altro possa perfino far storcere il naso a uno come Dylan: mi premiate per i miei versi, ma vi dimenticate che io sono un musicista, che nella mia vita parole e musica non sono mai andate separate. Esiste un’altra metà di Bob Dylan che voi, nel celebrarmi, consapevolmente tenete nascosta: la musica. Penso questo da quando ho sentito i giurati dell’Accademia, immediatamente dopo l’annuncio, sostenere davanti alla telecamere che non c’è nessun problema nel premiare un cantante, perché i suoi versi hanno la dignità poetica sufficiente per essere letti. (È come se, da una parte, a Stoccolma avessero fatto una scelta d’avanguardia, consapevoli di contribuire ad allargare ufficialmente l’alveo di cosa è letterario ma, nel farlo, siano stati spinti da motivazioni conservatrici: anche la musica e le canzoni sono letteratura, ci dicono da Stoccolma, ma lo sono a patto che si tolga loro la musica). Da domani non cominceremo, credo, a leggere Dylan, benché proprio Boots of Spanish Leather sia inclusa nella prestigiosa quinta edizione della Norton Anthology of Poetry (1970). Possiamo però continuare ad ascoltarlo:
 

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