Qui puoi trovare un resoconto sintetico delle invenzioni militari di Archimede in Cassio Dione, nel libro XV. Qui un esempio di tecnologia applicata agli armamenti: il caso della balista, oggetto di costante perfezionamento tecnico. Infine, qui puoi trovare dati recenti sui brevetti negli USA.
Corollari (ovvi, ma forse no)
Tecnologia e guerra sono dunque un connubio di vecchia data. Cosa ne è seguito? Considerando in prospettiva storica il rapporto tra tecnologia e conduzione di una guerra, si arriva a stabilire un rapporto di tipo inversamente proporzionale, con la paradossale (ma neanche poi troppo) conclusione per cui più sono buone le armi, peggiori possono essere i soldati. La guerra, storicamente fatta dagli uomini, dal loro coraggio, dalla loro prestanza fisica, dal loro addestramento, dal loro numero, risulta condizionata, altrettanto storicamente, sempre meno da loro e in misura crescente dalle loro armi e dall'efficienza dei loro sistemi produttivi.
Prendiamo come punto di partenza, scelto del tutto arbitrariamente, uno scenario guerresco noto a tutti e ormai parte integrante dell’immaginario collettivo delle culture occidentali: l’Iliade. Ebbene, l'ideale eroico che pervade il poema, pur sotto il segno di una condanna della guerra in sé, poggia sul valore individuale. Lo scontro per eccellenza è il duello (con lancia, spada, pietra: Menelao e Paride, Ettore e Patroclo, Achille ed Ettore e via elencando). Uno scontro in cui ci si parla, ci si insulta, ci si supplica: uno scontro all'insegna del contatto fisico, visivo, uditivo, in cui ci si uccide toccandosi. L'arco, che uccide da lontano, non è arma eroica: con l'arco si può dimostrare abilità (Odisseo docet), ma il valore, l'areté, si prova e si dimostra nel corpo a corpo. L'etica eroica, in buona sostanza, non approva chi uccide da lontano.
Da questa distanza zero, che richiede diverse capacità e che comporta diverse responsabilità (morali e psicologiche: ma qui il discorso diventa altro) si arriva, col tempo, all'estremo opposto, a una distanza che tende ad infinito, passando dall'arco alla macchina che lancia proiettili (balista, catapulta etc.), dal fucile al cannone, dal bombardamento aereo e missilistico al combattimento senza uomini, quello con i droni (e in questa direzione si segnala il libro di W. Langewiesche, Esecuzioni a distanza, Milano 2011). Tutte risultanze dell'applicazione agli armamenti di nuove scoperte scientifiche e tecnologiche. Tutte armi dal duplice scopo: potenziare la capacità distruttiva e aumentare il più possibile la distanza dal nemico da colpire. Uccidere più che si può senza rischiare di essere uccisi.
Ma la distanza cambia la percezione: la percezione delle conseguenze dell'uso delle armi. E anche qui con un rapporto inversamente proporzionale: tanto maggiore è la distanza fisica tra uccisore e ucciso, tanto minore il senso di responsabilità (specialmente individuale) che ne deriva. Ed è ancora la distanza spaziale che funziona da filtro (di coscienza?) e che rende possibile l'uso di alcune armi dal potenziale distruttivo enorme. Con una conseguenza: muoiono sempre più civili e sempre meno soldati. La distanza fisica che separa chi spara dal suo bersaglio diviene una distanza morale, psicologica, emotiva: spingere un bottone non è percepito come uccidere. Almeno non subito. La percezione, quando avviene, è tardiva. "Mio Dio ... che abbiamo fatto!": l'aneddoto sul pilota di Enola Gay, vero o no che sia, valga a dimostrazione.
Tibbets a bordo dell'Enola Gay (immagine: Wikipedia)