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Lettere classiche

Tra leggerezza e gravità: discorsi alati, parole come neve

Roberta Ioli analizza l’uso che Calvino fa del concetto di leggerezza attraverso un viaggio nelle origini antiche del termine.

leggi

Il termine leggero deriva dal latino tardo leviarium che, a sua volta, è un derivato di levis. Levis indica sia ciò che è liscio e levigato, sia ciò che è lieve e di poco peso: è spesso riferito ai soldati armati alla leggera (ad esempio in Livio VIII 8.5), alla stoffa di un abito o un mantello, al tocco delicato con cui si suona la cetra. Leggera è (secondo l’auspicio di chi resta) la terra che ricoprirà il corpo del defunto, nella celebre preghiera recitata sulla tomba dei cari: Terra sit super ossa levis (cfr. Tibullo, Eleg. II 4.50). Anche i morti sono ombre senza peso, e ciò che è lieve può essere veloce come un passo di danza, fugace come un’ora che trascorre rapidissima, tenue come un fruscio; levis, infine, indica ciò che è incostante e ingannevole come una speranza vana o come l’animo di chi cambia spesso opinione. La levitas si muove dunque tra due estremi: da una parte una leggerezza salutare, come si addice al bagaglio di colui che deve compiere un lungo viaggio o combattere una dura battaglia, dall’altra l’incostanza di una natura volubile, che rasenta la frivolezza. A levis nel senso di liscio corrisponde il greco λεῖος, mentre λεπτός, insieme al sostantivo derivato λεπτότης, ricorre per indicare l’evanescenza di una visione, la fragilità di una speranza, ma anche la sottigliezza di una mente arguta. Λεπτός è aggettivo verbale derivato da λέπω, «scorteccio», «sbuccio» (cfr. Il. 1.236): è leggero ciò che è stato privato della sua difesa esterna, ridotto alla fibra più tenera e vulnerabile, ma anche vitale, come lo scettro splendente ricavato dal tronco ripulito di foglie e corteccia.

Questa ricca rete semantica trova corrispondenza nella riflessione di Italo Calvino quando, nelle sue Lezioni americane, sceglie di occuparsi di leggerezza cogliendone, tra i tratti distintivi, la volubilità e rapidità di movimento, insieme al gioco dialettico nei confronti del peso. Il dialogo tra leggerezza e pesantezza è ben illustrato nel mondo antico dalla relazione tra atomi, vuoto e materia da essi costituita. Alla apparente inconsistenza degli atomi, che Democrito e i primi atomisti definiscono τὰ ὄντα (ossia «ciò che è»), corrisponde (grazie all’incontro con il vuoto, definito τὸ μὴ ὄν, «ciò che non è») la costituzione della materia stessa, che è parte del nostro mondo e di ciò che noi siamo. L’invisibilità costruisce dunque la realtà percepibile, così come la leggerezza dà consistenza al peso e ne struttura le variazioni.

Un’analoga antitesi tra peso e leggerezza può essere evocata, nel mondo greco, a proposito della riflessione sul rapporto tra volatilità della parola orale e consistenza immobile della scrittura. Famosissimo, in questo senso, è il mito di Teuth proposto nel Fedro da Platone, che suggerisce come la scrittura fossilizzi il pensiero, mentre l’oralità, nel flusso impalpabile della parola detta, consente uno scambio libero e fecondo con la realtà.

C’è un aspetto strano che in verità accomuna scrittura e pittura. Le immagini dipinte ti stanno davanti come se fossero vive, ma se chiedi loro qualcosa, tacciono solennemente. Lo stesso vale anche per i discorsi [scil. scritti]: potresti avere l’impressione che essi parlino, quasi abbiano la capacità di pensare, ma se chiedi loro qualcuno dei concetti che hanno espresso, con l’intenzione di comprenderlo, essi danno una sola risposta e sempre la stessa.

(Plat., Fedro 275d4-e1, trad. di M. Tondelli)

Se la scrittura immobilizza la vita del pensiero, l’oralità ne traduce il dinamismo e, attraverso la ricerca del vero, è capace di sollecitare la memoria più profonda e, con essa, l’autentico apprendimento. Anche il retore Alcidamante, nella sua orazione Sui sofisti, associa la scrittura alle immagini mute dell’arte e difende l’improvvisazione e l’oralità, in cui il discorso «respira ed è vivo e si adegua ai fatti, in tutto somigliante ai corpi viventi, mentre quello scritto ha natura simile a immagine di discorso ed è privo di ogni utilità» (Soph. 28).

Nei poemi omerici ricorre frequentemente l’espressione «parole alate» (ἔπεα πτερόεντα): essa sembra alludere alla natura volatile ma insieme pervasiva delle parole (πτερόεις, da πτερ-όν, «piuma», «ala», «freccia», presenta la medesima radice del verbo πέτ-εσθαι, «volare»). È sorprendente che in Omero πτερόεις sia detto di parole e frecce, mai di uccelli: l’implicito riferimento semantico è, probabilmente, non tanto alla leggerezza delle parole, quanto alla loro velocità ed efficacia, come una freccia che centra il bersaglio. Non è escluso, d’altra parte, che l’espressione alluda alla phōnê, cioè al processo articolatorio delle parole stesse. In questa direzione si possono ricordare alcuni antichi riferimenti alla natura specifica del fare poetico: l’abilità del lirico Alcmane si esprime, ad esempio, nella capacità di conoscere le voci di tutti gli uccelli e di saperne riprodurre i nomoi, le leggi e i ritmi. La poesia, imitando la natura, la scopre e la reinventa attraverso la musicalità del verso.

Queste parole e il canto
Alcmane ha trovato (εὗρε), raccogliendo (συνθέμενος)
la voce modulata delle pernici.

(Alcmane, fr. 39 LP)

Alcmane ha ascoltato, compreso e fatto propria quella lingua ignota che è la phonê delle pernici, ne ha articolato le sonorità inaccessibili in un linguaggio nuovo. Si tratta di una vera e propria «poetica aerea», un sistema musicale in grado di restituire la voce che il poeta non inventa, ma «trova»: con εὑρίσκειν si indica infatti la scoperta di qualcosa già esistente, trovato non per caso, ma attraverso un’operazione combinatoria in grado di accostare elementi tra loro apparentemente irrelati, eppure dialoganti in una armonia strutturata.

L’antinomia tra peso e leggerezza viene efficacemente espressa anche nei tratti tipici di alcune figure omeriche. Pensiamo ad Achille e Odisseo, due eroi che, pur nella profonda diversità, sono accomunati da un legame privilegiato con la parola e la poesia: Achille, imbattibile guerriero, è intento a suonare la cetra e a cantare le imprese degli eroi, quasi aedo di sé stesso (Il. 9.189); Odisseo più volte assume le vesti di un sapiente cantore, raccontando le proprie avventure o costruendo narrazioni menzognere (le cosiddette «menzogne cretesi») in grado di incantare l’uditorio. Achille piè veloce, la cui corsa è leggera come il vento, sa lanciare, nell’impeto della propria ira, parole che sembrano pietre o dardi mortali: Atena, accorsa per frenare la sua furia omicida ai danni di Agamennone, gli concede l’ingiuria, cioè la possibilità di trasformare l’azione violenta in parola armata, scagliata per ferire l’avversario. Odisseo è abile tessitore di racconti e libera la voce dal petto ammaliando attraverso la costruzione del proprio mythos. Nella scena iliadica sulle porte Scee, in cui Priamo descrive a Elena l’eroe incontrato molti anni prima, le parole di Odisseo sono dette «simili ai fiocchi di neve d’inverno»: cadono senza rumore, ma ricoprono tutte le cose (Il. 3.221-224). L’enigmatica espressione potrebbe riferirsi alla leggerezza incantevole del suo eloquio, o alla capacità, come la neve, di insinuarsi ovunque, ricoprendo ogni cosa fino a occultarla. Così la virtù suasoria dei discorsi di Odisseo cattura senza ricorrere alla violenza, modifica gli animi di chi ascolta con il tocco lieve – ma potentissimo – delle parole.

Nella sua lezione sulla leggerezza, anche Calvino associa la neve ora a un movimento lieve e silenzioso, ora alla pesatura esatta delle cose; il verso dell’Inferno «come di neve in alpe sanza vento» (XIV 30) è una ripresa, con poche varianti, del verso di Cavalcanti «e bianca neve scender senza venti»; mentre però in Cavalcanti tutto vortica velocemente in una fuga di visioni inafferrabili, l’immagine dantesca della neve consente al paesaggio ritratto di acquisire «consistenza e stabilità: il peso delle cose è stabilito con esattezza».

L’oscillazione tra l’incisività degli effetti e la leggerezza della voce che li determina è ben testimoniata dal sofista Gorgia di Lentini, per il quale «la parola è un signore potente, che con un corpo piccolissimo e del tutto invisibile le azioni più divine porta a compimento» (Encomio di Elena, 8). Tra l’invisibilità del corpo fonetico e la potenza dei suoi effetti, la parola è come freccia o volo piumato, come lama tagliente o intreccio canoro: può ferire o curare, come ben sanno i poeti di ogni tempo.


(Crediti immagine: L’educazione di Achille, James Barry, 1772, Yale Center for British art, Wikimedia Commons)

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