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Storia dell'arte

Calvino, “fantasticare dentro le figure”

Cos’hanno in comune Italo Calvino, Giorgio De Chirico ed Eugène Delacroix? Partendo dal presupposto che le opere d’arte, come i romanzi, raccontano sempre delle storie, Valentina Casarotto fa dialogare Calvino con le opere di questi due grandi artisti.

L’ambito artistico è stato un fedele compagno della produzione di Italo Calvino. Lo scrittore ligure ha dedicato alle arti citazioni, recensioni, digressioni su opere e autori antichi e contemporanei. Ha inoltre sottolineato spesso che con queste frequentazioni non voleva invadere i territori della critica d’arte, ma indagare le arti visive con intento narrativo, ponendosi domande atte a scandagliare una dimensione introspettiva dell’opera e dell’artista. Abbiamo scelto di ricordare alcuni dei numerosi esempi.

La scrittura, “fantasticare dentro le figure”.

Articolato, complesso e libero è stato il rapporto dello scrittore con le immagini, messe in relazione con il suo processo di scrittura. Come ha notato la critica, nella sua prosa egli usa spesso l’analogia e la metafora, figure retoriche che sono tipiche del pensiero visivo.

Nella quarta delle Lezioni americane (1988), Italo Calvino disserta sul tema dell’immaginazione come componente della sua pratica di scrittura e ripercorre la propria storia. Egli ricorda l’inizio della sua carriera, quando ancora non si poneva problemi teorici, e scriveva “solo” storie di fantasia:
«… nell'ideazione d'un racconto la prima cosa che mi viene alla mente è un'immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato, anche se non saprei formulare questo significato in termini discorsivi o concettuali. Appena l'immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé. […] Nello stesso tempo la scrittura, la resa verbale, assume sempre più importanza; direi che dal momento in cui comincio a mettere nero su bianco, è la parola scritta che conta: prima come ricerca d’un equivalente dell’immagine visiva, poi come sviluppo coerente dell’impostazione stilistica iniziale, e a poco a poco resta padrona del campo.” (I. Calvino, Lezioni americane, 1988, Visibilità)

Da queste immagini hanno preso vita i personaggi dei romanzi della trilogia I nostri antenati: “il Barone Rampante”, un ragazzo che vive sugli alberi senza mai toccare terra; “Il visconte dimezzato”, sulla vita indipendente delle due metà di un uomo colpito da una palla di cannone; “Il cavaliere inesistente”, su un’armatura animata senza cavaliere.

Come recupera Calvino gli stimoli visivi che possono accendere il processo creativo di scrittura? L’autore si dichiara figlio della “civiltà delle immagini” quando questa era agli albori, attorno agli anni Venti. Ricorda con una certa fierezza e una leggera malinconia la sua fanciullezza, quando il suo modo di guardare le immagini gli ha fornito la libertà interpretativa di fantasticare. Tra i tre e i sei anni, ancor prima di imparare a leggere, Calvino era un avido lettore del “Corriere dei piccoli”. Sulla stampa italiana di quegli anni però, le immagini colorate dei fumetti americani venivano riprodotte senza vignette, che erano sostituite da poche e banali parole inserite come didascalie all’immagine.

Corriere dei Piccoli del 27 dicembre 1908

Prima pagina del "Corriere dei Piccoli" del 27 dicembre 1908 (Wikimedia Commons)

«Comunque io che non sapevo leggere potevo benissimo fare a meno delle parole, perché mi bastavano le figure. Vivevo con questo giornalino che mia madre aveva cominciato a comprare e a collezionare già prima della mia nascita e di cui faceva rilegare le annate. Passavo le ore percorrendo i cartoons d’ogni serie da un numero all’altro, mi raccontavo mentalmente le storie interpretando le scene in diversi modi, producevo varianti, fondevo i singoli episodi in una storia più ampia, scoprivo e isolavo e collegavo le costanti in ogni serie, contaminavo una serie con l’altra, immaginavo nuove serie in cui i personaggi secondari diventavano protagonisti.» (Idem)

Una volta imparato a leggere, Calvino ricorda di aver deciso di snobbare quei versi sempliciotti o fuorvianti, spesso fuori contesto, per esercitare la propria libertà, «e continuare nella mia occupazione favorita di fantasticare “dentro” le figure e nella loro successione. […] la lettura delle figure senza parole è stata certo per me una scuola di fabulazione, di stilizzazione, di composizione dell’immagine. […]». (Idem)

Lo scrittore torna a ragionare sul suo processo ideativo di scrittura nella prefazione al romanzo Il Castello dei destini incrociati. Qui l’interpretazione misterica delle figure dei famosi tarocchi miniati per i Duchi di Milano da Bonifacio Bembo alla metà del Quattrocento (noti come tarocchi viscontei e conservati tra Bergamo e New York) si combina, per sensibilità e tematica cavalleresca, con le suggestioni del poema cinquecentesco tanto amato dall’autore, l’Orlando Furioso. Lo scrittore confessa di aver adoperato gli Arcani dei tarocchi «come una macchina narrativa combinatoria», e sfruttato «l’idea che il significato d’ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione». (I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Einaudi, Nota dell’autore, ottobre 1973)

Tarocchi Visconti

La carta della regina di spade nei tarocchi disegnati da Bonifacio Bembo (Wikimedia Commons)

Con questo metodo a Calvino «fu facile così costruire l’incrocio centrale dei racconti del mio “quadrato magico”. Intorno, bastava lasciare che prendessero forma altre storie che s’incrociavano tra loro, e ottenni così una specie di cruciverba fatto di figure anziché di lettere, in cui ogni sequenza si può leggere nei due sensi. Nel giro di una settimana, il testo del Castello dei destini incrociati era pronto». (Idem)

Benché Calvino abbia esercitato sempre una grande libertà di visione e di combinazione dei significati, questa libertà si fondava anche su un’approfondita conoscenza degli artisti e delle opere antiche e moderne (Vittore Carpaccio, Pablo Picasso, Giorgio Morandi, ecc.). Questo si evince dai suoi numerosi scritti sull’arte, solo in parte confluiti nella raccolta Collezione di sabbia in aggiunta a quelli ospitati nelle pagine di quotidiani e riviste. Le immagini, riprese da ambiti antichi o moderni, e poste in libera combinazione con fonti aristocratiche o popolari, compongono una “iconologia fantastica”, che non mira a interpretare fedelmente il dato visivo, quanto a ibridare e mescolare sollecitazioni note in una diversa e originale visione. La figura del cavaliere ne è un esempio. Lo scrittore prende spunto dai santi e dai condottieri dei pittori italiani del Quattrocento, ad esempio Cosmé Tura o Paolo Uccello, e mediante un procedimento di ibridazione tra fonti visive diverse, immagina l’armatura del proprio campione incrostata di decorazioni zoomorfe, carapaci e conchiglie.
«Questa iconologia fantastica è diventata il mio modo abituale di esprimere la mia grande passione per la pittura: ho adottato li metodo di raccontare le mie storie partendo da quadri famosi della storia dell’arte o comunque da figure che esercitano su di me una suggestione.» (I. Calvino, Lezioni americane, Visibilità)

“Un romanzo dentro a un quadro”

La libertà che guida il popolo
Eugène Delacroix, La Libertà che guida il popolo, 1830. Olio su tela, 235×260 cm. Parigi, Museo del Louvre.

Solleticato da una mostra-dossier che il Museo del Louvre dedica nel 1983 a uno dei dipinti più famosi dell'Ottocento, La libertà guida il popolo di Éugene Delacroix, Italo Calvino coglie l’occasione per sottolineare che «Un quadro con tanti personaggi è un po' come un romanzo in cui si innestano parecchie vicende». (I. Calvino, Collezione di sabbia, 1984)
Attraverso i materiali esposti, lo scrittore vuole «cercare di leggere il quadro come si legge un libro».

E parte dall’artista. Calvino descrive, attraverso alcuni accenni biografici, il successo che in quel momento Éugene Delacroix sta vivendo: è un pittore affermato, che gode dell’appoggio sia del re Carlo X e della sua corte, sia del Duca d’Orleans, il capo dell’opposizione liberale. La serenità di quel successo è interrotta nel luglio del 1830 dalle rivolte popolari che danno vita alle “Tre giornate gloriose”. Finisce nel sangue la restaurazione borbonica e viene instaurata la monarchia costituzionale di Filippo d'Orléans. Durante le rivolte, Delacroix «non va sulle barricate» ma usa altri strumenti per difendere la patria. Il pittore, che si definisce nelle lettere «un uomo tranquillo in un'epoca di disordini», si arruola nella Guardia Nazionale. Sparsi nei suoi scritti Calvino sottolinea i lamenti per la durezza del servizio. Non di rado, durante i turni di guardia notturna al Museo del Louvre – istituiti per scongiurare i saccheggi alle collezioni da parte di sciacalli senza scrupoli – scoppiano «liti furiose che finivano anche a pugni, non a proposito della politica ma delle rispettive tendenze artistiche o del modo di valutare Raffaello». È nel restituire l’umanità dell’artista che troviamo la perspicace narrazione di Calvino, dentro e intorno al quadro.

Calvino, poi, entra nel quadro, ne prende possesso, lo smonta e lo rimonta attraverso una descrizione che ne definisca il peso specifico e il peso assoluto nella storia.

Dopo gli avvenimenti di luglio, Delacroix scrive al fratello: «Ho intrapreso un soggetto moderno, una barricata, e se non ho lottato per la patria, almeno dipingerò per lei. Questo m’ha rimesso d’ottimo umore».
Analizzando il quadro, come un bravo investigatore che segue gli indizi, Calvino riporta in superficie il rovello e la stratificazione di riferimenti eterogenei che il pittore ha intessuto per dare nella visione d’insieme ad ogni personaggio una dimensione reale.

Della figura della Libertà Calvino sottolinea non tanto la rielaborazione di un modello creato per un quadro preesistente di Delacroix (La Grecia sulle rovine di Missolungi, del Museo di Bordeaux) ma i pentimenti, in corso d’opera, che hanno accentuato le caratteristiche di modernità della figura: la gonna più contenuta rispetto al bozzetto, il profilo del volto come elemento che «gli dà quell’incisività indimenticabile», il volgersi indietro verso il Popolo, con un movimento immediato per incitare l’avanzata, il berretto frigio rivoluzionario (ma dai toni bruni), in luogo della più classica corona turrita.

E anche se la folla dei ribelli sembra una ripresa “fotografica”, è invece costruita attraverso un complesso repertorio di citazioni, più o meno evidenti. Sia per Delacroix che lo aveva ideato, sia per Calvino che lo sta narrando, «La scelta di ogni dettaglio di vestiario, ogni arma brandita ha un significato e una storia».

In primo piano viene rappresento il popolo: l'estrazione sociale dei personaggi si comprende dall'abbigliamento, individuato in modo preciso da Calvino e le masse proletarie per la prima volta nella storia vengono ritratte in rivolta.
Alla sinistra della Libertà si scalano tre figure di operai, lavoratori manuali. C’è l’artigiano, con il cilindro, i pantaloni larghi, la cintura di flanella rossa e la doppietta da caccia, definito anche compagnon di una corporazione di mestieri; un operaio di manifattura con il gambale da lavoro e la spada; un manovale edile stagionale «quello ferito, carponi, col fazzoletto in testa e la blusa rimboccata sulla cintura […]».
«Tutti i dettagli delle uniformi sono identificabili con precisione, e così le armi, dalla bandoliera delle guardie reali di cui sei impadronito il monello, alla sciabola delle compagnie scelte di fanteria impugnata dall’operaio in grembiule con relativa bandoliera.»
Non meno importanti e velate sono le fonti classiche a cui s’ispira Delacroix, che s’individuano più evidenti nei tre morti in primo piano. Il cadavere nudo a sinistra riprende la posa classica del corpo di Ettore legato per le gambe al carro di Achille; «gli altri morti sono due soldati del monarca sconfitto». Uno indossa la divisa del reggimento svizzero della Guardia reale, l’altro è un corazziere.
La potenza delle immagini, la sua incisività è insita anche nei riferimenti classici, antichi e moderni, come sottolinea Calvino.
«Queste figure di caduti, (compreso l’operario ferito) hanno precedenti nella pittura celebrativa di David e di Gros: il quadro di Delacroix è un luogo d’incontro di motivi vecchi e nuovi della storia della pittura, come la Rivoluzione di luglio lo era stato per la storia di Francia.»

Calvino e De Chirico: le città del pensiero

Per Italo Calvino la città è pensata e reale, immaginata e percepita. Nel 1983 il Centre Pompidou di Parigi inaugura una mostra su Giorgio De Chirico e Calvino viene invitato a intervenire all’inaugurazione. In quell’occasione legge un suo racconto, intitolato Le città del pensiero, un testo poi tradotto in italiano e pubblicato sulle pagine della rivista “FMR”. Il racconto è accompagnato da una trentina di immagini di quadri di De Chirico, che scorrono come un testo parallelo, interdipendente eppure autonomo. Lo scrittore interpreta le immagini, accenna, suggerisce ma non descrive pedissequamente. Si muove liberamente tra i dipinti di De Chirico che fanno da scenografia alla sua narrazione.
«La verità è presto detta: da quando sono entrato in questa città, la città è entrata in me; dentro di me non c'è posto per nient'altro.» (I. Calvino, Le città del pensiero, FMR, 1983) Calvino come De Chirico è interessato al respiro della città, percepito nello spazio vuoto che genera una sorta di angoscia, allo stordimento dell’agorafobia che segue quella contemplazione. La meditazione sullo spazio e la sua definizione sono rintracciate come costanti in tutta la produzione artistica italiana, una continuità che lega, attraverso i secoli, le “città ideali” rinascimentali e le città metafisiche dechirichiane.

«Piazze, vie, spianate s'estendono davanti a me ostentando un'apparente accessibilità, come a dire: siamo lisce e sgombre, percorretemi. Chi potrebbe diffidare del loro invito? Solo un agorafobo. Forse l'agorafobia è un contagio che questa città trasmette a chi vi arriva senz'essersi premunito; anch'io ne soffro, devo dire, da quando mi trovo qui: gli spazi vuoti mi paiono ardui da attraversare; preferisco strisciare dietro gli spigoli degli edifici, tra i pilastri dei portici, senza avventurarmi allo scoperto; tanto più che non saprei dove dirigermi.» (Idem)

Calvino dà la parola a una voce narrante che percorre gli spazi dentro i quadri e che sperimenta l’incertezza, il disorientamento e la sospensione del tempo. Questo “io narrante” interpreta le inquietudini del pittore, angosce che trovano corrispondenza anche nelle vicende biografiche dell’artista attorno al 1910. Giorgio de Chirico, all’epoca ventenne, sta attraversando un momento di grandi cambiamenti, personali e di stile. Da quello stato d’incertezza e depressione esce una produzione pittorica innovativa, che si fa interprete dei principi letterari e filosofici appresi dalle sue letture di Nietzsche e di Schopenhauer. Diretto a Parigi, durante una sosta a Torino, De Chirico visita la città e l’Esposizione Universale del 1911.  Ne troviamo traccia ad esempio nel dipinto L'enigma di un giorno.

Clicca qui per vedere il dipinto L'enigma di un giornohttps://www.moma.org/collection/works/80587?artist_id=1106&page=1&sov_referrer=artist

Torino diventa l’ispirazione che vive e respira in un nuovo contesto, con le sue infilate di portici, le sue piazze assolate deserte, le ciminiere industriali che svettano sull’orizzonte. Diventa una delle città metafisiche, che spesso sono popolate di statue, testimoni silenziose del tempo.

«A chi potrei chiedere la strada? A quei due passanti laggiù in fondo? Mi sembrano lontani, troppo lontani; anche se adesso sono fermi e sembra che parlino tra loro, prima che io sia arrivato là certo si saranno allontanati. Potrei invece interrogare una statua? Se ne incontrano molte e paiono più facilmente raggiungibili.» (Idem)

Nella statua di profilo – con abbigliamento ottocentesco, il braccio alzato e gli occhiali piccoli – è stato rintracciato dalla critica un riferimento al monumento a Camillo Benso conte di Cavour, uno dei principali protagonisti del Risorgimento. Come Calvino, anche De Chirico non vuole descrivere una realtà filologica e topografica, ma suggerire in modo allegorico una città e il suo ruolo nel Risorgimento.

Seguendo il racconto di Calvino, ci troviamo in un altro ambiente, in un’altra città, ovvero dentro un altro quadro, dal titolo la Gare Montparnasse (La malinconia della partenza).

«Tutte le prospettive hanno un limite: un muro o un parapetto sbarra in fondo le vie: dietro passa un treno. Qualcosa sempre indica l'altrove: il treno con la nuvola di fumo bianca è come la vela bianca della nave sul mare oscuro. Queste immagini di movimento a me sembra non facciano che confermare una cosa: io sono qui, fermo immobile, e ci resto. Treni e navi in partenza, sempre, per me: l'ultimo treno, l'ultima nave, e io non sono partito, non sono mai io quello che parte. E chi, allora? Forse nessuno: la locomotiva fischia e fuma, ma le stazioni sono vuote. Gli orologi – si sa che i treni e gli orologi vanno sempre associati, come appartenessero a specie biologicamente complementari – gli orologi mi avvertono che il tempo scorre ancora, minuto per minuto. Anche il tempo è un altrove che mi esclude, murato come sono dentro un istante sempre uguale. Anche il treno è murato, non sa dove andare, corre tra muri e arcate di gallerie. Non c'è nulla di più statico di una partenza: se penso all'angoscia della partenza vedo uno scenario di piatta calma, le ultime case della città, i terreni vaghi, una ciminiera solitaria, un vagone-merci abbandonato fuori dei binari.» (Idem)

Anche questo dipinto, che fa parte di una serie, ha un richiamo autobiografico per De Chirico.

Dopo un iniziale disorientamento a causa del trasferimento a Parigi, l’artista nel 1912 è pienamente inserito negli ambienti artistici della capitale e partecipa al Salon d’Automne. Tiene sotto controllo i suoi disturbi psicosomatici, lavora con continuità e crea alcuni dipinti ispirati alla Gare Montparnasse. Guardando queste opere, Pablo Picasso, tra il serio e il faceto, lo definisce “peintre des gares” (pittore di stazioni) ma incuriosito, lo introduce nella cerchia di Guillaume Apollinaire. È questo un incontro epifanico. Sarà proprio il critico francese a recensire con entusiasmo la nuova produzione dell’artista, sottolineando come la pittura dechirichiana si è allontanata sia dall’arte di quel decennio sia dall'acclamato impressionismo. Tra i primi Apollinaire adotta il termine “metafisica” per definire il nuovo stile.

Probabilmente come De Chirico a Parigi, Calvino, ovvero il viaggiatore che attraversi quei quadri, prova un profondo disagio nei confronti della grandiosità di queste città. Si smarrisce confuso tra presente e passato e soffre di agorafobia sentendosi inadatto a percorre uno spazio interminabile, scandito da un tempo immobile, pervaso di mistero e di malinconia. La città metafisica di De Chirico non è una città per tutti i viaggiatori. E Calvino lo rende esplicito: «Mentre una parte di me ne è attratta, qualcosa si stacca da me e percorre invisibile quei portici, si inoltra in quelle piazze, sale su quelle torri: il pensiero. Questa città è fatta per accogliere il pensiero, per contenerlo e trattenerlo senza che si senta costretto. Qui il pensiero trova il suo spazio, e il suo tempo, un tempo sospeso, come d'invito, d’attesa.» (Idem)

Per saperne di più:

A. Sarchi, La felicità delle immagini, il peso delle parole: cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati, Firenze, Bompiani 2019
M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi 1996
I. Calvino, Accanto a una mostra – De Chirico, in «FMR», luglio/agosto 1983, pp. 44-52
I.Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, 1988
I. Calvino. Guardare. Disegno, cinema, fotografia, paesaggio, visioni e collezioni, a cura di M. Belpoliti, Milano, Mondadori 2023
V. Bertone (a cura di) De Chirico, Milano, Elmond Arte 1992
M. Fagiolo dell’Arco (a cura di) De Chirico, Milano, Rizzoli 1984

(Crediti immagine: Wikimedia Commons)

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