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Storia e Geografia

Tra realtà e fiaba: Calvino, il Pci e il “formidabile ‘56”

Italo Calvino, come altri intellettuali italiani, decise di uscire dal Partito Comunista Italiano nel 1957. Calvino aveva in precedenza convintamente aderito al Pci, e le ragioni che lo hanno portato ad abbandonare il partito hanno poi influenzato anche la sua attività letteraria.

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Sarebbe interessante ripercorrere la storia del Partito comunista italiano seguendo le motivazioni che portarono all’espulsione o alla fuoriuscita dei suoi membri più illustri. Da Amedeo Bordiga a Ignazio Silone, da Angelo Tasca ad Altiero Spinelli, da Umberto Terracini a Elio Vittorini, da Italo Calvino a Rossana Rossanda, tutte le vicende e i dibattiti legati a questi nomi costituirono nella storia del partito occasioni mancate per operare scelte tanto coraggiose quanto lungimiranti, che avrebbero potuto avvicinare il Pci al soggetto politico immaginato da Antonio Gramsci: un partito fedele ai principi del marxismo-leninismo, ma assai meno vincolato a quelli dello stalinismo; un partito inserito a pieno titolo nel movimento comunista internazionale, ma nello stesso tempo attento nel rivendicare la necessaria autonomia strategica dettata dal contesto politico nazionale; un partito capace di esercitare la propria egemonia culturale non solo costruendo un nuovo rapporto con il mondo intellettuale, ma incoraggiando lo sviluppo di intellettuali di tipo nuovo, parte integrante del corpo sociale e nello stesso tempo, per usare le parole dello stesso Gramsci, “stecche del busto” chiamate a sorreggerlo.

Le motivazioni che portarono Calvino – e assieme a lui altre figure di spicco del Pci togliattiano – a recidere il legame con il partito sono note. Esse nascono, crescono e germogliano negli eventi del “formidabile ’56”, un anno chiave dove tutto parve cambiare; dove la denuncia dei crimini di Stalin disposta dal suo successore venne accolta come il preludio a grandi trasformazioni, dove la netta presa di posizione di Stati uniti e Unione Sovietica contro l’intervento militare anglo-francese a Suez – finalizzato a impedire la nazionalizzazione del canale da parte delle autorità egiziane – mostrò un’inedita sintonia di vedute tra le due superpotenze contro il risorgere del colonialismo vecchio stampo e dove la svolta nazionalista del governo ungherese suscitò la speranza di un affrancamento dell’Europa orientale dal tallone sovietico. Il 1956 è in Italia anche l’anno in cui il Miracolo economico entrò nel vivo, a testimonianza della spumeggiante vitalità di quel sistema capitalista che la retorica comunista non si stancava di dipingere come marcio e moribondo. Grandi cambiamenti iniziavano a maturare anche sul piano politico dove, con l’esaurirsi della stagione del centrismo, si profilava all’orizzonte la prospettiva di un’apertura a sinistra, che avrebbe portato il Partito socialista nell’area di governo.

All’ombra di Zdanov

La “Grande trasformazione” in atto nel paese e nel mondo colse il Pci ancora immerso, intorpidito, ibernato nel permafrost ideologico dell’era staliniana. Dopo un apparente risveglio nel biennio 1945-47, i suoi dirigenti e i suoi militanti si erano riallineati obbedienti al principio dello “zdanovismo”, la declinazione dello stalinismo formalizzata nel settembre del 1947 dall’ideologo sovietico Andrej Zdanov e del tutto speculare alla dottrina Truman nel tagliare in due la realtà come la lama di un coltello senza lasciare spazio alle incertezze. Nell’intervento del fedelissimo di Stalin alla Conferenza segreta che avrebbe dato vita al Cominform, il mondo era stato diviso in due campi contrapposti, quello imperialista guidato dagli USA e quello democratico guidato dall’URSS, allo stesso modo in cui la società era divisa in due classi antitetiche, la borghesia e il proletariato, e il sistema economico ruotava attorno a due modelli inconciliabili, quello capitalista e quello socialista. Di fronte alle prime avvisaglie della Guerra fredda, compito del movimento comunista internazionale consisteva dunque nello stringersi, ancora una volta, attorno alla terra dei soviet con tutte le forze politiche, sociali e intellettuali di cui poteva disporre, per riprendere la lotta iniziata nel 1917 e solo temporaneamente interrotta dalle priorità dettate dall’alleanza contro il nazifascismo.

Anche il mondo della cultura venne dunque nuovamente mobilitato a livello internazionale sotto le insegne del “realismo socialista”, che dagli anni Trenta affidava al partito il controllo della produzione intellettuale contro ogni tentazione decadente di individualismo, formalismo, cosmopolitismo di stampo occidentale, al fine di promuovere e difendere una linea culturale rigidamente incentrata sui principi del marxismo-leninismo e rivolta a diffondere il messaggio socialista tra i lavoratori. Prima vittima della nuova ondata di conformismo ideologico era stata la rivista Il Politecnico diretta da Elio Vittorini, la cui apertura culturale verso l’arte e letteratura europea e americana, così come il taglio interdisciplinare attento agli sviluppi della sociologia, della scienza e della tecnica vennero bollate dai dirigenti del partito come sterile esercizio di enciclopedismo intellettualista, lontano dai reali problemi e dagli interessi delle masse. A poco era valsa la rivendicazione dell’autonomia della cultura dalla politica sostenuta da Vittorini: il dilagare dello zdanovismo aveva calato una pietra tombale su un’esperienza rivolta allo sviluppo di un modello culturale di tipo nuovo, sprovincializzato, divulgativo e, in linea con il pensiero di Gramsci, attento alla costruzione di un dialogo aperto anche con il mondo intellettuale esterno al perimetro ideologico del marxismo. Nel 1951 l’uscita di Vittorini dal partito segnò per la dirigenza comunista una nuova occasione perduta, che avrebbe potuto arricchire l’esperienza di quel “Partito nuovo” immaginato da Togliatti nell’immediato dopoguerra, quale soggetto politico preposto alla costruzione di una via italiana al socialismo, capace di attrarre settori sempre più vasti ed eterogenei della società e preparare la classe operaia a diventare classe dirigente nel paese.

In attesa del vento

“Alla domanda premuroso-maligna che tanti amici mi rivolgono in questi giorni, se avessimo mai previsto il nuovo fermento d’idee del movimento operaio e della cultura di sinistra, io sono tra coloro che rispondono spavaldamente: si. Però, debbo aggiungere, lo prevedevo nello spazio di cent’anni, di cinquanta, ultimamente magari di dieci” Così scriveva Calvino nel marzo del 1956 dalle colonne de Il Contemporaneo, la rivista di area marxista nata nel 1954 con l’intento di rilanciare, all’indomani della morte di Stalin, il dibattito nel mondo intellettuale su temi quali dialettica politica-cultura e del rapporto tra cultura di sinistra e cultura borghese. Il XX congresso del Pcus da poco conclusosi aveva incoraggiato la rinascita di un libero confronto di opinioni, allentando le camicia di forza dello zdanovismo ma, nello stesso tempo, aveva colto di sorpresa anche i comunisti italiani più insofferenti al conformismo ideologico dell’epoca tardo staliniana. “ Se fino a ieri – proseguiva infatti Calvino – discutendo e scrivendo mi piaceva tanto fare il fiero, il sicuro del fatto mio (…) perché avevo davanti cento, cinquant’anni che lavoravano per me, per quell’ideale di letteratura, di cultura, di rapporto cultura e società che lentamente nella corrusca staticità della guerra fredda e dell’assedio ideologico, andavo prefigurandomi, ora, a distanza ravvicinata, in un mondo in cui tutto torna a muoversi e ci incalza di nuove richieste, mi accorgo che abbiamo poco a mano e poco in testa”.

Il riferimento critico era diretto al provincialismo intellettuale nel quale il partito si era rannicchiato per porre un argine allo zdanovismo e salvaguardare l’elaborazione di una “via culturale italiana al socialismo”, valorizzando le tendenze progressiste della tradizione intellettuale della penisola, al centro della quale Togliatti collocava il pensiero di Francesco De Sanctis. Negli orientamenti della politica culturale del Pci, Calvino aveva invece visto più che lo sviluppo autonomo di una cultura socialista nazionale, il riflesso della battaglia di chiara impronta staliniana contro il cosmopolitismo culturale, alla quale era conseguita la valorizzazione dello spirto paesano e lo sterile ripiegamento su se stessa della produzione letteraria italiana, che lo scrittore giudicava – a fronte delle molteplici esperienze letterarie d’oltralpe e d’oltreoceano – come una letteratura minore. Calvino auspicava, quindi, l’apertura degli intellettuali comunisti al vento corroborante della cultura internazionale, capace di svegliare la produzione culturale marxista italiana dal lungo torpore nel quale era scivolata e di contribuire a rimettere il Pci in sintonia con i grandi e rapidi cambiamenti in corso.

Fine del sogno e inizio della fiaba

Quel vento di cambiamento avrebbe dovuto rifrescare dalle radici la stessa politica del partito, per aiutarlo a superare l’inerzia, frutto della strategia immobilista che da tempo caratterizzava il confronto con il governo guidato dalla Democrazia cristiana. In un celebre racconto allegorico, La gran bonaccia delle Antille, Calvino paragonerà il Pci a una nave corsara guidata da un comandante troppo prudente e ridotta a fronteggiare a distanza il galeone democratico-cristiano in una situazione di stallo su un mare senza vento.
Il tempo del rinnovamento caldeggiato dall’intellettuale era infatti destinato a scontrarsi con i tempi di reazione del partito, rispetto al quale bisognerà attendere il 1962 e il convegno sulle “Nuove tendenze del capitalismo italiano” prima di vedere un cambio di orientamento culturale nell’analisi delle trasformazioni in corso nella società italiana. Più rapida, dogmatica e disorientante la sarà invece, alla fine del 1956, la reazione della dirigenza del Pci di fronte alla repressione della rivolta ungherese. Quel posizionamento inflessibile dalla parte sovietica della barricata – per citare l’editoriale pubblicato in quelle settimane da Pietro Ingrao sulle colonne dell’Unità – costerà al partito l’apertura di ferite interne difficili da rimarginare e la defezione di militanti illustri, tra i quali lo stesso Calvino.

Nella lettera di dimissioni, inviata ai compagni nell’agosto del 1957, traspare in tutta chiarezza il dolore e la delusione dell’intellettuale che aveva sollecitato il partito a compiere un potente sforzo di rinnovamento, diretto a recuperare un ruolo da protagonista nella nuova età di cambiamento e riacciuffare per i capelli il sogno di una trasformazione profonda della società. Non è forse un caso che, di fronte al persistere della “gran bonaccia delle Antille”, al prevalere del dogma sul dubbio e all’allargarsi della forbice tra sogno e realtà, il distacco dal Pci sia coinciso per Calvino con l’abbandono degli sforzi tesi alla pubblicazione di opere improntate ai canoni del (neo)realismo, per avventurarsi – o, forse, rifugiarsi – con decisione nel mondo fiabesco del realismo magico, dove le dimensioni della realtà e dell’immaginazione, della storia e della fiaba, del possibile e dell’impossibile si intrecciano e si sostengono a vicenda.

Crediti immagine: Photo by Sophie Bassouls / Sygma / Getty Images

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