La storia della letteratura è piena di incipit clamorosi. Eccone alcuni, scelti senza un particolare criterio se non quello della bellezza e della memorabilità:
«Chiamatemi Ismaele» - Moby Dick di Herman Melville (1851)
«Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» - Anna Karenina di Lev Tolstoj (1877)
«Stai per cominciare a leggere Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero» - Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1979)
«Tre forze hanno scolpito il paesaggio della mia vita. Due di esse hanno annientato mezzo mondo; la terza era molto piccola e debole, anzi, invisibile. Era un timido uccellino nascosto nel mio torace, qualche centimetro sopra lo stomaco. A volte, nei momenti più impensati, l’uccellino si svegliava, alzava la testa e agitava le ali con trasporto. Allora anch’io alzavo la testa: per quel breve istante, avevo la certezza che l’amore e la speranza fossero infinitamente più potenti dell’odio e della violenza, e che da qualche parte oltre la linea del mio orizzonte ci fosse la vita indistruttibile, sempre trionfante.
La prima forza era Adolf Hitler; la seconda, Iosif Vissarionovič Stalin. Loro due hanno reso la mia vita un microcosmo in cui si è condensata la storia di una piccola nazione nel cuore dell’Europa. L’uccellino, la terza forza, mi ha tenuta in vita per raccontare la mia vicenda» - Sotto una stella crudele di Heda Margolius Kovály (1986)
In passato, proprio qui su Aula di lettere, abbiamo ragionato su un certo modo di far cominciare le storie e il tema dell’incipit, in generale, è molto sentito sia dagli scrittori che dai lettori: cominciare bene una storia significa catturare subito l’attenzione di chi legge o ascolta, farlo nostro. L’importanza degli incipit è così grande che ci sono parecchi studi su come le storie cominciano, e qualche anno fa è perfino uscito un libro in cui una squadra di autori, capitanata da Giacomo Papi, ha selezionato i 2001 incipit più belli della storia della letteratura: https://www.skira.net/books/incipit/
Ma le storie devono finire, vale a dire che devono avere un finale.
Il grande scrittore inglese Edward Morgan Forster sosteneva che «Verso la fine, quasi tutti i romanzi diventano deboli. Ciò accade perché l’intreccio richiede di essere concluso». Le vite dei personaggi, o per lo meno quella parte della loro vita che il romanzo racconta, vanno portate fino in fondo, ma quasi sempre, dice Forster, le cose si fanno un po’ banali, e i finali raramente sono belli come gli incipit. Sentite ancora: «Se non ci fossero la morte e il matrimonio, non so come farebbe il romanziere medio a concludere. (...) Questo, fin dove ci è concesso generalizzare, è il difetto connaturato ai romanzi: terminano malamente. E di ciò sono due le spiegazioni possibili: prima, quel calo di energia da cui il romanziere è insidiato come qualsiasi altro operaio; seconda (...) i personaggi gli hanno preso la mano, preparando le fondamenta e poi rifiutandosi di costruirvi sopra, così che adesso tocca al romanziere darsi da fare perché il lavoro sia compiuto nel tempo prestabilito».
Ora, vi domanderete: che cosa c’entra tutto questo con il tema dell’Aula di lettere del mese, il futuro? C’entra eccome, perché i finali sono il punto verso cui tendono le storie, anzi, sono il punto oltre cui le storie perdono di senso. Ogni storia, se è ben concepita, racconta una vicenda conchiusa: se, per un eccesso di zelo, il suo autore aggiungesse un capitolo alla fine, vale a dire se raccontasse che cosa succede dopo che la vicenda si è conclusa e insomma ci venisse a dire un po’ del futuro dei protagonisti, state certi che si tratterebbe di un capitolo moscio, inutile e ridondante.
I personaggi, a differenza delle persone, vivono solo entro i limiti della storia che è stata costruita loro addosso. Non hanno vita oltre l’ultima pagina: per loro non c’è futuro.
Per verificare se tutto questo è vero, facciamo degli esempi, a cominciare dal libro da cui è nata la nostra letteratura moderna, I Promessi sposi. Ebbene, come si concludono? Con il matrimonio, vale a dire che Renzo e Lucia si sposano davvero; nell’ultima pagina, Manzoni ci dice che vivono serenamente, che hanno una bambina e poi altri figli. Ma Manzoni non racconta, si limita a riassumere in poche righe alcuni anni della vita dei suoi protagonisti. E sono anni ben poco interessanti, rispetto alle disavventure con don Rodrigo, agli episodi della peste, alle camminate a piedi fin nella bergamasca, all’incontro con l’Innominato – insomma rispetto al romanzo: Renzo e Lucia si sposano, sono felici, hanno dei figli. E allora? Perché non è interessante tutto questo? Perché in questo loro futuro, che è riassunto e non raccontato, gli Sposi hanno smesso di essere Promessi – con tutto quello che ciò ha significato per loro e per noi. Son finite le avventure, le preghiere, i patimenti: è finita la storia, che era appunto il racconto delle peripezie che due ragazzi di provincia che si amano devono passare per riuscire a coronare il loro sogno. Così, Manzoni taglia corto: dà qualche notizia sul loro idillio, trova una morale e chiude.
Nel 1962, il grande scrittore inglese Anthony Burgess pubblicò un libro con uno strano titolo: Arancia meccanica. Vi si racconta, con un linguaggio sperimentale che mescola l’inglese al russo al cockney (https://www.londraweb.com/cockney_accento_di_londra.htm) e inventa neologismi e fa certi esperimenti con la struttura delle frasi, la vita e l’opera di Alex, balordo londinese il cui scopo nella vita è praticare l’ultraviolenza – ossia rubare e pestare la gente solo per il gusto di divertirsi.
Alex finisce per commettere un omicidio e viene arrestato. Lo sottopongono alla Cura Ludovico, un metodo sperimentale (che non esiste davvero, o almeno spero), che prevede delle iniezioni di un farmaco che procura una nausea feroce ogni volta che il paziente assiste a scene di violenza. La Cura consiste in settimane di visioni coatte di atti violenti, in modo da stimolare in Alex la nausea e costringerlo alla pace. Al termine del trattamento, Alex ha ancora le sue pulsioni ma, ogni volta che gli vien voglia di delinquere, sta male e si ferma. Non ha più il libro arbitrio, insomma. Finché le cose cambiano, e Alex si risveglia, torna quello di prima – e, meraviglia della letteratura, noi parteggiamo per lui nonostante sia un essere sbagliato.
In una prima versione del libro (e nel film capolavoro che Stanley Kubrick ne trasse nel 1971) le cose finiscono qui, col risveglio. Ma poi Burgess, forse per via di certe polemiche che il romanzo suscitò e per evitare la censura in alcuni Paesi, aggiunse un ultimo capitolo, in cui Alex si mostra stanco dell’ultraviolenza, cerca una ragazza con cui sposarsi e costruire un nido, desidera un figlio... insomma si fa maturo e scrive cose edificanti. E il romanzo perde all’improvviso tutta la sua forza, la sua dirompenza: si annacqua. Che cosa importa se Alex si pente? La sua storia non è questa: è la storia di un pazzo che, per divertimento, arriva all’omicidio; gli viene tolta la libertà di scegliere, ma poi si riscatta, e il tutto è scritto con una lingua allucinata che rende il romanzo una grande e beffarda satira. L’imborghesimento improvviso del protagonista non ha nulla a che vedere con tutto questo, è posticcio. Quel capitolo è talmente brutto (ma attenzione: non è brutto in sé, è ben scritto; è brutto perché, per così dire, è fuori dal romanzo) che in molte edizioni è stato espunto.
Morte, matrimonio... ma non solo
Torniamo a Forster, e a quel passaggio in cui diceva che «Se non ci fossero la morte e il matrimonio, non so come farebbe il romanziere medio a concludere». Ecco, abbiamo visto due esempi di libri che si chiudono, con esiti diversi, col matrimonio: se ci pensate, è il principio classico della Commedia. Ma attenzione, il matrimonio va inteso in senso lato: può trattarsi di una riconciliazione, di due persone che iniziano un percorso assieme (per esempio, due fratelli che finalmente si ritrovano), di un ritorno a casa dopo un viaggio o una guerra. Insomma: il protagonista, alla fine del libro, non è più solo, ha trovato un nido, un posto dove stare bene.
L’altro caso, secondo Forster, è la morte, vale a dire che il romanzo si chiude quando finisce la vita del protagonista. Così funziona, da sempre, la Tragedia. È quello che accade in Anna Karenina, ma anche nel bellissimo Una vita di Italo Svevo e in moltissime opere del romanticismo (da I dolori del giovane Werther in giù). Anche in questo caso, la morte va intesa in senso lato: può accadere che il protagonista rimanga vivo, ma abbia subito una mutazione. È il caso, per esempio, di Delitto e castigo (1866) di Dostoevskij: nell’epilogo, il protagonista Raskol’nikov, condannato ai lavori forzati in Siberia in seguito a un duplice omicidio, comincia un percorso di rinascita attraverso la fede in Dio e all’amore.
Sentite come Dostoevskij chiude il romanzo: «Ma qui già comincia una nuova storia, la storia del graduale rinnovarsi di un uomo, la storia della sua graduale rigenerazione, del suo graduale passaggio da un mondo in un altro, dei suoi progressi nella conoscenza di una nuova realtà, fino allora completamente ignota. Questo potrebbe formare argomento di un nuovo racconto; ma il nostro racconto odierno è finito» (il corsivo è mio). Il vecchio Raskol’nikov, quello di cui abbiamo seguito la vicenda, i sogni storti e gli spasimi, non c’è più: non è morto, ma è come se lo fosse, perché la storia di quello che farà da qui in avanti è la storia di un personaggio nuovo, diverso, insomma di un altro.
Ma Forster non è stato generoso coi romanzieri: ci sono almeno altri due modi in cui le storie finiscono, oltre alla Commedia (matrimonio e affini) e alla Tragedia (morte e suoi derivati).
Il primo è la fuga, che a volte può essere confusa con la morte («Ma questa è un’altra storia...»): il protagonista, alla fine della sua avventura, se ne va. È il caso dei libri in serie, a cominciare da Harry Potter: grossomodo, alla fine di ogni volume della saga, Harry se ne va da Hogwarts – torna a casa (ma attenzione: la casa dei Dursley non è un nido per lui, anzi. Il vero nido è Hogwarts) e di fatto abbandona il luogo dove si è svolta l’avventura. Succede sempre tranne che nell’ultimo libro, che si chiude con un epilogo Diciannove anni dopo in cui vediamo uno Harry adulto, sposato con Ginny e padre di famiglia – insomma la saga di Harry Potter si chiude... con il matrimonio.
Finisce con la fuga, per fare un altro esempio, Tre millimetri al giorno, romanzo incredibile che Richard Matheson, l’autore di Io sono leggenda, scrisse nel 1956: racconta la storia di un uomo, Scott Carey, che ogni giorno rimpicciolisce di tre millimetri: a poco a poco rimane solo, finché sparisce, nel senso che diventa invisibile (e per sopravvivere lotta con insetti sempre più piccoli); ma il punto è che Matheson costruisce il personaggio, e il nostro orizzonte di attesa di lettori, sull’angoscia che il protagonista prova quando vede approssimarsi lo zero. Cosa succederà una volta che avrà raggiunto l’altezza di zero millimetri? Imploderà? Si distruggerà? Niente di tutto questo: semplicemente, Carey continua a rimpicciolire ed entra nel mondo subatomico dove, però, poiché non riesce a vederlo, Matheson non lo segue. Lo lascia letteralmente andare. Ecco come l’ultimo paragrafo del romanzo: «Il suo cervello pullulava di domande e di idee e – sì – di nuova speranza. Doveva trovare il cibo, l’acqua, i vestiti, un riparo. E soprattutto, la vita. Chissà. Poteva esserci, lì era possibile. Scott Carey corse in questo nuovo mondo, a caccia». Come siano andate le cose a Carey nel mondo subatomico, ossia nel futuro della sua storia, nessuno lo sa.
Infine ci sono le storie circolari, quelle che finiscono nello stesso modo in cui sono iniziate. Faccio solo un esempio, tra i tanti possibili: nel 2004, l’anno dopo la morte del suo autore, il cileno Roberto Bolaño venne pubblicato 2666, un romanzo di quasi mille pagine, diviso in cinque parti indipendenti, la cui lettura è la cosa più vicina alla definizione di piacere che ci possa essere.
Fidatevi. Racconta alcune storie attorno alla figura enigmatica, e inventata, di Benno von Arcimboldi, scrittore tedesco di culto che nessuno ha mai visto ma che tutti cercano. La prima delle cinque parti dell’opera, La parte dei critici, è ambientata, come altre tre, nella città immaginaria di Santa Teresa, in Messico, dove arrivano dei critici letterari che hanno sentito dire che Arcimboldi si trovi lì. Ovviamente non lo incontrano, ma questo loro arrivo fa partire centinaia di filoni narrativi: la vita di Oscar Amalfitano (parte 2: La parte di Amalfitano), oscuro professore di filosofia cileno, che però vive a Santa Teresa e ha una figlia; teme per la sua incolumità, perché a Santa Teresa vengono commessi centinaia di femminicidi il cui racconto, atroce e ipnotico, è la spina dorsale della quarta parte di 2666, La parte dei delitti. Per molti, Santa Teresa è una versione letteraria di Ciudad Juarez, “la città che uccide le donne”.
Tra La parte di Amalfitano e quella dei delitti c’è La parte di Fate, un giornalista americano che arriva a Santa Teresa per occuparsi di boxe. Infine, la quinta e ultima (?) parte, quella di Arcimboldi, in cui Bolaño torna indietro nel tempo e racconta la vita dello scrittore che tutti cercano, fino al momento in cui, nell’ultima pagina, Arcimboldi parte... per Santa Teresa: a questo punto, virtualmente, chi legge può ricominciare il romanzo daccapo, perché tutto è partito, se vi ricordate, dal fatto che i critici si erano recati a Santa Teresa perché qualcuno li aveva avvisati che lì era arrivato von Arcimboldi eccetera eccetera. Un congegno circolare, bellissimo, facile da leggere nonostante abbia decine di personaggi e livelli di lettura e soprattutto in cui sembra, davvero, che sia riuscito il miracolo di racchiudere in un pugno di pagine il mondo intero.