Qualche notizia sulla vita e l'opera di Carlo Collodi:
http://www.letteratura.it/carlocollodi/
La formula magica
La grandezza, la genialità del primo capitolo di Pinocchio non risiede tanto, a mio modo di vedere, nell’invenzione – pur straordinaria – di quel pezzo di legno parlante, ma nel modo in cui l’autore gioca con il tempo mitico del racconto, negandolo prima con ironia e poi riacciuffandolo. C’era una volta… se ci pensate, è una formula magica: è una frase che ci permette di raccontare a bambini anche molto piccoli storie che non ci permetteremmo di raccontare, tantomeno con leggerezza, a degli adulti: le favole sono piene di smembramenti (pensate a Cappuccetto rosso o a Il lupo e i sette capretti), di cannibalismo (Hänsel e Gretel), di punizioni terribili (Il pifferaio magico) e omicidi (Pollicino). Eppure ce le raccontiamo, le tramandiamo, le usiamo per addormentare i piccoli. Com’è possibile? È per via della formula magica: C’era una volta… ci consegna immediatamente a un tempo parallelo, una dimensione in cui non solo è giusto, ma è doveroso che gli animali parlino, che i ranocchi si trasformino in principi, che gli orchi custodiscano monete d’oro; un tempo mitico dove tutto si può raccontare e, anzi, tutto deve essere raccontato, perché fa parte di una dimensione ulteriore, diversa da quella quotidiana e perfino da quella in cui si muovono i racconti “normali”. La formula del C’era una volta… mette una soglia, dà una distanza temporale e spaziale tra noi che ascoltiamo e i fatti che ci vengono raccontati: e infatti è spesso seguita da espressioni come tanto tempo fa, in un paese lontano lontano… tutto ciò che accade nelle favole è già accaduto, ma è accaduto in un posto che non esiste più se mai è esistito; è lontano, sfumato e non ci può far davvero del male. È per questo che ci possiamo permettere di raccontare cose terribili ai bambini: perché loro conoscono questo tempo e questo spazio mitici, lo accettano, sono protetti. E invece Collodi cosa fa? Gioca con questa distanza e con questo mito, per qualche riga lo prende in giro, lo porta qui: non ci sono re, ma pezzi di legno, non c’è lusso ma cose dozzinali. Sembra dire che non ci vuole raccontare una favola, salvo poi far parlare il legno e riportarci di colpo dentro quello spazio mitico che è il racconto per l’infanzia. È un colpo di genio, un mescolare le carte, un alzare la posta. Viene da chiedersi: la storia di Pinocchio è vera o non è vera? No, diremmo noi, non è vera: comincia con C’era una volta…; invece sì, diranno altri, almeno in parte è vera: il suo C’era una volta… è un C’era una volta… a metà.Il tempo mitico del racconto
Ma il tempo e lo spazio mitici non appartengono soltanto alle favole: ogni tipo di narrazione crea un mondo ulteriore dove si muove e dentro cui trascina il lettore. Vale per i romanzi, per i film, per le serie tv, per i fumetti. Ogni narratore chiede al lettore di credere al mondo che ha costruito per lui e di cui, nelle prime pagine o nei primi minuti dell’opera, fornisce le caratteristiche fondamentali; chiede al lettore di accettare la storia che gli sta per raccontare e che, badate bene, può essere del tutto inverosimile: Franz Kafka, per esempio, chiede, nelle prime tre o quattro righe della Metamorfosi, che il lettore accetti una storia ambientata in un mondo assurdo, dove qualcuno può svegliarsi da sogni inquieti trasformato in un enorme insetto. È un tempo fantastico, bizzarro, quello dove si svolge la storia di Gregor Samsa, e chi legge deve voler credere alla verosimiglianza letteraria di ciò che trova tra le pagine per poter andare avanti. Kafka costruisce un mondo parallelo e ci fa entrare, ma noi dobbiamo essere ben disposti nei suoi confronti e sancire con lui un patto narrativo: noi sospenderemo per tutta la durata della lettura la nostra incredulità e lui ci porterà in un mondo altro, deviato e bellissimo.
Trama e commento della Metamorfosi (seguite, tra l'altro, da un commento di qualcuno che non ha capito il patto narrativo proposto da Kafka):
http://www.oilproject.org/lezione/la-metamorfosi-kafka-riassunto-analisi-gregor-samsa-12548.html)
Nel 1954, il grande scrittore di origini bulgare Elias Canetti (1905-1994) soggiornò per alcuni mesi a Marrakech, in Marocco. A questa esperienza dedicò un libro, Le voci di Marrakech (1967), dove a un certo punto racconta di una sera in cui, mentre attraversava a piedi la piazza principale, la sua attenzione venne catturata da un nugolo di persone raccolte in un punto. Le persone erano disposte in cerchio e al centro del cerchio c’era un vecchio, un cantastorie. Benché Canetti non capisse l’arabo, fu ammaliato dalla cantilena del narratore e rimase ad ascoltare. Improvvisamente, il racconto si interruppe: il vecchio aveva smesso di parlare. Come azionati da un meccanismo, gli spettatori cominciarono a frugarsi nelle tasche alla ricerca di qualche moneta, che rovesciarono in un cappello che un ragazzino, l’aiutante del cantastorie, fece girare tra la piccola folla. Una volta che il cappello fu pieno di monete, il vecchio ricominciò il suo racconto – presumibilmente dal punto in cui l’aveva interrotto. Non sempre il cappello si riempiva di monete: succedeva solo quando la storia che il cantastorie stava raccontando era così bella che gli spettatori volevano continuare a vivere dentro quel mondo ed erano disposti a pagare per sentire la fine del racconto.
Così funziona il patto tra autore e lettore.
Peppe Servillo legge "Le voci di Marrakech":
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/PublishingBlock-040e8cd4-d6c6-4da9-81b1-b7fa13eed539.html
(Crediti immagini: Wikipedia e twentymindsmoething, flickr)