Esther (Etty) Hillesum nasce il 15 gennaio 1914 a Middelburg, in una casa piena di libri: il padre Louis Hillesum aveva studiato lingue classiche all’università di Amsterdam, la madre Riva Bernstein era insegnante di lingua russa. Sarà fondamentale per Etty anche l’incontro con il chirologo junghiano Julius Spier, che la introdurrà allo studio della psicanalisi e alla pratica della scrittura come disciplina quotidiana. Nei suoi diari, scritti per lo più tra il marzo 1941 e l’ottobre 1942, la personalità di Etty si delinea in una luce via via più nitida sino a quando, nel luglio 1942, comincerà a lavorare presso la sezione dell’assistenza sociale ai deportati nel campo di Westerbork. Rifiutando l’offerta di alloggi dove potersi nascondere, Etty ripeterà in più occasioni di voler condividere il destino del suo popolo. I suoi genitori morirono durante il trasporto verso Auschwitz o, più probabilmente, furono uccisi nelle camere a gas subito dopo il loro arrivo; Etty morì, verosimilmente, il 30 novembre 1943 sempre ad Auschwitz, e così il fratello Mischa, mentre il fratello Jaap, liberato dai soldati russi nell’aprile 1945, non sopravvisse al terribile viaggio di ritorno.
Ad Amsterdam, nel piccolo appartamento sulla Metsustraat dove vive in quegli anni, Etty studia, legge, osserva il mondo. Le pagine dei suoi taccuini si sono salvate grazie alla cura di chi le ha conservate con amore: Etty, prima di partire definitivamente per il campo di Westerbork, affida i diari all’amica Maria Tuinzing, chiedendole di consegnarli allo scrittore Klaas Smelik nel caso in cui non avesse fatto ritorno. Bisognerà attendere a lungo perché la pila dei suoi quaderni trovi un editore disposto a pubblicarli. Quei diari raccontano non di semplici letture, non di una mera trascrizione dei passi tratti dagli autori più amati, ma di un vero e proprio viaggio spirituale: la costruzione di un vincolo che tutto tiene insieme. Michelangelo e Leonardo, Dostoevskij, Rilke e Sant’Agostino, gli Evangelisti; come lei scrive a proposito di questa compagnia, «non c’entra più il “bello spirito da letterati di un tempo”: ognuno di loro ha qualcosa di vero da raccontarmi e molto da vicino»[1]. Ciò che Etty incontra ha senso solo se le parla nel profondo, solo se interroga la sua anima. L’esercizio di contemplazione silenziosa sarà una costante della sua breve vita, quel sedersi quotidiano alla scrivania, nella «caotica postazione di lavoro, la faccia bianca del muro che si erge drittissima di fronte a me», il resto della stanza alle sue spalle e, al di là di essa, l’intero mondo che risuona in armonia con la sua voce interiore, anche quando si tratta di un mondo trasfigurato dal male e dalla violenza. La pratica di resistenza quotidiana le chiede ogni giorno di puntare la sveglia alle 7, di cominciare la mattina in compagnia di Sant’Agostino o di qualche passo della Bibbia per ritrovare sempre la stessa verità: la ricerca costante di un punto fermo che solo nella casa dell’anima può essere trovato, lontano dalle passioni in fuga. Lo sguardo interiore si unisce allo sguardo degli occhi che, rapiti, contemplano il mondo fuori dalla finestra, i rami che si ricoprono di foglie, l’aria trasparente della primavera, il fiore di campo raccolto e posto con cura nel bicchiere accanto ai libri.
Come ogni rito, questa forma di ascesi ha bisogno di un tempo e di uno spazio. Il tempo è la stille Stunde, «l’ora quieta» coltivata ogni mattina prima di cominciare la fatica del lavoro: è necessario liberare la mente da quelli che Etty chiama «detriti», per poi spalancare il grande vuoto in cui possa entrare qualcosa di Dio e qualcosa dell’amore. Lo spazio dedicato è la piccola scrivania che «somiglia al mondo nel primo giorno della creazione», una terra vergine in cui accogliere i grandi maestri del passato con la familiarità degli amici più cari, e in cui ospitare il geranio, le rose tee appassite, le grammatiche russe, le pagine di Sant’Agostino. Eppure, in quel mondo popolato da amati compagni, «c’è ancora spazio per me e per il mio quaderno». Quell’ora quieta che la separa dalle cure del mondo è per Etty «un’intera vita, che ho lasciato dietro di me», ed è una vita che non esaurisce il futuro, non estingue lo sguardo sul domani: «oggi ho ancora tre vite davanti».
In questa disciplina dei gesti, Etty fa sue le parole di Rilke, tratte da una lettera del 1906: «l’amore del lavoro: che poi giunga davvero, o che io compia solo i gesti corrispondenti, non importa [...]. La preghiera e il suo tempo e il suo gesto, devotamente e integralmente tramandato, erano la condizione di Dio e del suo ritorno». Ciò che conta davvero non è la compiutezza del lavoro, la definizione del gesto, ma il rito silenzioso del sedersi al tavolo ogni mattina, dell’inginocchiarsi ogni giorno, dell’aprire le pagine del libro che ci sta davanti. Come scrive Emanuele Trevi, «un rito è un’innocenza reale opposta alla vergogna della morte, la trasformazione di uno spazio umano in uno spazio di dignità […]. La nostra vita è tutta lì»[2].
La riflessione sul confine tra denken, «pensare», e zerdenken, «dissezionare con la mente», ci mette in guardia dal ragionamento autocentrato, quell’abitudine sterile che va disimparata per apprendere invece l’accettazione di sé e del proprio limite, accogliendo amorevolmente anche la tristezza come parte di sé stessi. Per un animo giovane e vitale come quello di Etty, la tristezza nasce dall’incapacità di trovare la propria forma e di cristallizzare i propri sentimenti in figure e parole. Comprensione per lei è sempre un atto d’amore, un affidarsi alla corrente della vita dentro la quale anche il dolore trova posto. Quella sua domanda così urgente, «a cosa mi serve la conoscenza se non ho l’amore?», ricorda da vicino il Pasolini de Il pianto della scavatrice: «Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto». Relativizzare la propria sofferenza non significa sminuirne l’intensità: anzi, questa operazione di difesa sarebbe disonesta come «adombrare qualcosa di ciò che la vita ti pone davanti». Ancora una volta, Etty siede alla scrivania come in una cella monastica: ma se è una cella quella a cui si è destinati di fronte a norme e leggi disumane che restringono sempre di più lo spazio vitale, bisogna imparare a trasvalutare quello spazio, per quanto angusto e soffocante sia, convertendolo nella luce delle piccole cose.
In una pagina datata 20 giugno 1942, Etty ci invita alla vigile attenzione verso noi stessi come artefici dell’unico cambiamento che ci è possibile, quello che riguarda le nostre scelte e i nostri giudizi:
«Siamo noi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato, col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e la millanteria che maschera la paura. […] Siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. […] Lavorare a noi non è una forma di individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso».
Un mese prima di essere internata nel campo di Westerbork, Etty ci ricorda dunque che la libertà non è la lotta impari dell’uomo contro la sorte, ma semmai la capacità di disattivare l’impatto rovinoso di quanto ci è esterno ed estraneo. Allora l’ostilità della fortuna e la malvagità degli uomini non potranno più nulla contro di noi: «quel che conta, in definitiva, è come si porta […] il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima».
[1] Le citazioni sono tratte da Etty Hillesum, Diario, Adelphi, Milano 2013.
[2] E. Trevi, Istruzioni per l’uso del lupo, Elliot, Roma 2012, p. 23.
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