«In primavera fiorivano di bianco i giardini, si rivestiva di verde il Giardino imperiale, il sole penetrava in tutte le finestre, vi appiccava incendi. E il Dnepr! E i tramonti! E il monastero Vydubeckij sulle colline. Un mare verde scorreva giù a terrazze verso il tenero Dnepr multicolore. Dense notti nero-blu sopra l’acqua, la croce elettrica di San Vladimiro, sospesa in altro…
Insomma, una città meravigliosa, una città felice. La madre delle città russe.»
È Kiev, per come la descrive un grande scrittore che leggiamo per russo, ma che invece a Kiev ci è nato e in Ucraina ha trascorso i primi trent’anni della sua vita: Michail Bulgakov, l’autore di uno dei più grandi romanzi nel Novecento, Il Maestro e Margherita.
È curioso come molti dei più grandi scrittori russi siano in realtà ucraini, o di origine ucraina. Qualche nome, in ordine sparso: Gogol’, Babel’, Grossman, appunto Bulgakov; gli stessi Puškin e Čechov – il primo è il più grande poeta che la lingua russa abbia avuto, il secondo uno scrittore e un drammaturgo di genio – benché non fossero ucraini, in Ucraina trascorsero dei periodi significativi, e restituirono la loro esperienza in alcune opere che sono momenti importanti della loro carriera: Poltava, poema a sfondo storico che Puškin compose alla fine degli anni Venti dell’Ottocento, o La fontana di Bachčisaraj (1824), da cui è stato tratto perfino un balletto; Čechov ha invece ambientato nelle pianure ucraine il racconto che considerava il suo capolavoro, La steppa (1888), e che, per lunghezza e ampiezza di respiro, è, tra le sue opere, l’unica che si avvicina alla forma romanzesca. La storia è molto semplice: è il viaggio che il piccolo Egoruška, che ha nove anni, compie insieme a una carovana, in compagnia dello zio mercante e di un sacerdote, per raggiungere la città dove frequenterà il ginnasio. È un racconto calmo, largo e placido come la terra che il protagonista attraversa, e lento come i carri su cui siedono i personaggi: descrive la natura, e le impressioni che questa scatena in Egoruška, e poi la gente: contadini, mercanti, briganti. Quando uscì, Čechov aveva ventotto anni, faceva il medico, e la letteratura russa scoprì che era arrivato un nuovo gigante.
Anche Bulgakov, che è l’autore da cui abbiamo cominciato, faceva il medico. Nel 1921, dopo la guerra civile, abbandonò l’Ucraina e si trasferì a Mosca, perché sapeva che solo lì, nella capitale, aveva qualche possibilità di carriera nel campo della letteratura. La sua fu una vita complessa, piena di dolori e di difficoltà: monarchico, aveva partecipato alla guerra civile nella sua terra stando dalla parte “sbagliata”, poiché nella lotta tra “rossi” e “bianchi” fu un “bianco”. Alla guerra civile dedicò un romanzo, La guardia bianca (1924), ambientato a Kiev, che vede protagonisti tre fratelli “bianchi”, i Turbin: l’opera ebbe qualche problema con la censura, poiché metteva in buona luce i nemici dei bolscevichi; curiosamente, Bulgakov trasse da questo romanzo un’opera teatrale, I giorni dei Turbin, che, benché fosse ideologicamente lontana dai dettami dello stalinismo, era particolarmente apprezzata proprio da Stalin.
Il maestro indiscusso di Bulgakov è uno dei più grandi scrittori che la lingua russa abbia mai avuto: Nikolaj Gogol’ (1809-1852). Probabilmente, Gogol’ è stato per la prosa russa ciò che Puškin è stato per la poesia, vale a dire qualcuno che, al di là della bellezza delle sue storie, si è inventato una lingua letteraria. Il grande scrittore Fëdor Dostoevskij scrisse, a proposito degli scrittori russi della seconda metà dell’Ottocento, «Siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol’». Il cappotto è il più celebre dei Racconti di Pietroburgo (1842, nella loro ultima versione): è un’opera stralunata, linguisticamente ricchissima, divertente e drammatica insieme, che racconta la storia di un impiegato comune, Akakij Akakevič, povero e deriso dai colleghi, che deve affrontare una spesa imprevista: deve comprarsi un nuovo cappotto (o un mantello, a seconda delle traduzioni), poiché quello che ha è talmente liso da essere inutilizzabile; così comincia a risparmiare, a fare rinunce, finché ce la fa, lo acquista, e guadagna perfino un po’ di rispettabilità agli occhi dei colleghi. Ma glielo rubano. Così vaga, senza cappotto, in una Pietroburgo gelida e spettrale alla ricerca di una giustizia che, naturalmente, non trova. Muore di freddo, e torna come fantasma a perseguitare coloro che l’hanno deriso e non l’hanno aiutato.
Ebbene, se l’opera più famosa di Gogol’ sono questi Racconti di Pietroburgo, non dimenticate che Gogol’ era ucraino e che la sua importanza per le lettere russe non viene soltanto da prose come Il cappotto: egli trascorse i primi anni della sua vita in Ucraina e nella lingua e nel folklore di questo, che era il suo popolo, si immerse per comporre due opere capitali, due raccolte di racconti che, da noi, sono meno note di quanto meriterebbero, ma che sono state la base su cui grandi scrittori come Bulgakov, appunto, ma anche lo stesso Čechov, hanno nutrito la propria visione della letteratura. Si tratta delle Veglie alla fattoria presso Dikan’ka (1831) e dei Racconti di Mirgorod (1835): per comporre le Veglie, Gogol’, che quando immagina questo libro prodigioso e divertentissimo ha circa vent’anni, chiede alla madre di raccontargli leggende, aneddoti, canzoni, storielle del loro villaggio, e raduna e cataloga copricapi, abiti tradizionali, usanze, cerimoniali, massime, proverbi, detti popolari, imprecazioni, superstizioni, insomma: istituisce un archivio degli usi e dei costumi del popolo ucraino, e da lì trae una serie di racconti che, ancora oggi, è inarrivabile per la vitalità con cui mette in scena tradizioni e manie. Sono storie attraversate da diavoli, fate, folletti, stregoni, e contadini, ufficiali, animali da cortile, e da una sostanziale serenità, un’armonia che è figlia, forse, del fatto che gli uomini delle Veglie vivono in simbiosi con la natura e con la terra che li ospita. Nei Racconti di Mirgorod, questa armonia comincia a venire meno: c’è sempre l’Ucraina, c’è sempre la terra, il mondo contadino, ma qui i demoni possono dannare, e compare la morte; insomma Mirgorod è, se così si può dire, il lato oscuro di Dikan’ka, la parte nera, a volte maledetta, del folklore.
Ancora l’Ucraina, ancora una raccolta di racconti. È i Racconti di Odessa, del grande Isaak Babel’, scrittore ebreo che nella splendida città sul Mar Nero ci era nato (nel 1894). Scriveva in russo, faceva il reporter, prese parte, oltre che alla Rivoluzione e alla guerra civile, alla guerra russo-polacca, di cui parlò in quella che è probabilmente la sua opera più grande, L’armata a cavallo (1926), racconti composti rielaborando narrativamente gli appunti che aveva preso come reporter di guerra; i Racconti di Odessa (1931) parlano di questa città crocevia attraverso la vita del suo quartiere ebraico (uno dei più grandi e importanti d’Europa, almeno fino alle Seconda guerra mondiale): sono storie di banditi e di contrabbandieri, impastate con i ricordi dell’autore; sono una delle vette assolute del Novecento russo, per l’uso assolutamente nuovo della lingua e delle immagini. Sentite qui: «Il sole salì nel mezzo del cielo e cominciò a vibrare come una mosca, spossata dal caldo».
Babel’ scriveva lentamente, ha pubblicato pochi libri: è il tipico autore di cui si vorrebbe leggere ancora qualcosa ma, ecco, non c’è. Nel 1939, fu accusato di spionaggio (non era vero), i suoi manoscritti furono confiscati e i libri ritirati dalle librerie. Fu condannato a morte e fucilato come nemico del popolo dal regime di Stalin. Lo fucilarono a Mosca, il 27 gennaio del 1940, ma ancora oggi non si conosce il luogo preciso della sua morte né dove il suo corpo è stato sepolto. I manoscritti che il regime gli aveva confiscato sono andati perduti.
Vasilij Grossman ha in comune con Babel’ le origini ucraine (nacque a Berdičiv, nell’Ucraina occidentale, nel 1905), l’ebraismo e il mestiere: era anche lui un reporter di guerra, documentò la battaglia di Stalingrado e fu tra i primi che, al seguito dell’Armata rossa, entrò nella Polonia e nella Germania denazificate e vide i campi di concentramento (uno dei suoi racconti più strazianti è L’inferno di Treblinka, un pezzo talmente ben circostanziato che fu citato come documento al processo di Norimberga). Ebbene, Grossman ha scritto uno dei libri più importanti del Novecento, Vita e destino, opera sterminata, dedicata alla Seconda guerra mondiale, che ruota intorno alla battaglia di Stalingrado – dove i due grandi regimi del XX secolo, il nazismo e il bolscevismo, si affrontarono apertamente – e alla vita di una miriade di personaggi, con al centro la famiglia Šapošnikov e il fisico ebreo Štrum. Tra le varie cose, Vita e destino parla apertamente di un tema sommerso (allora, ma in fondo ancora oggi): l’antisemitismo in Unione sovietica.
La storia del manoscritto – scritto negli anni Cinquanta, di fatto bandito in Unione sovietica, pubblicato in Svizzera nel 1980, ma in una versione accorciata, pubblicato poi integralmente in Russia solo nel 1989, trent’anni dopo essere stato terminato e 25 anni dopo la scomparsa dell’autore – è appassionante quasi quanto il romanzo, ma non ve la racconto io: esiste a Torino un Centro Studi Vasilij Grossman, che ha dedicato una pagina del suo sito a questa storia. Eccola: https://grossmanweb.eu/vasily-grossman/storia-del-manoscritto/
La storia insomma dei rapporti (letterari) tra Ucraina e Russia è una storia di debiti, di prestiti e di scambi continui. Soprattutto, è una storia di autori e di libri straordinari.
Vorrei chiudere con due nomi. Il primo è quello di un autore ormai quasi classico: il poeta Adam Zagajewski, scomparso lo scorso anno a Cracovia, in Polonia. Era nato a Leopoli, nell’Ucraina occidentale, nel 1945, da una famiglia di lingua polacca, cosa che non deve assolutamente apparire strana: ancora oggi, Leopoli è L’viv per gli ucraini, L’vov per i russi, Lwow per i polacchi, Lemberg per i tedeschi (fu una della capitali del regno austroungarico, crocevia di popoli e di lingue, e, inoltre, capitale ebraica dove si parlava lo yiddish); ancora oggi, con qualche tensione, queste lingue e questi nomi vi convivono rendendola simbolo, e memoria, di una terra meravigliosa e perduta, la Galizia, che è stata per secoli il centro nevralgico dell’Europa, divisa com’era – e com’è – tra Ucraina, Polonia, Slovacchia, Romania.
L’altro è Serhij Žadan, scrittore nato nell’Ucraina orientale – in quelle zone che, proprio oggi, sono al centro dell’attenzione internazionale per via dell’invasione russa. Alla sua terra, e alla guerra, Žadan ha dedicato una trilogia strepitosa, tutta pubblicata in Italia dalla casa editrice Voland: si tratta di La strada del Donbas, Mesopotamia e Il convitto, tre opere narrative di ampio respiro che raccontano un Paese, e un conflitto, che stanno a due ore di volo da noi ma ai quali soltanto in questi giorni, poiché costretti dai bombardamenti, abbiamo cominciato davvero a pensare.
Attività
Per prepararsi alla prima prova scritta e al colloquio interdisciplinare dell’Esame di Stato abbiamo preparato due brani con relative attività da svolgere a partire dal contenuto letterario.
Clicca qui per scaricare le attività e un brano tratto da Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov.
Clicca qui per scaricare le attività e un brano tratto da Il convitto di Serhij Žadan (per gentile concessione dell’editore Voland).
Crediti immagini: Poster de Il cappotto, 1926, Wikimedia Commons