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Lettere sulla tolleranza

Approfondimenti e percorsi didattici sulla tolleranza

Una precisazione terminologica

Si può parlare di tolleranza nel mondo romano? Certo, il termine “tolleranza”, che indica l’«atteggiamento teorico e pratico di chi», soprattutto in fatto di religione, «rispetta le convinzioni altrui, anche se profondamente diverse da quelle cui egli aderisce, e non ne impedisce la pratica estrinsecazione» (Treccani, Vocabolario online), deriva dal latino tolerantia, ma questa discendenza diretta nasconde un insidioso slittamento semantico. In latino tolerantia, dal verbo tolero, «sopportare» un peso (fisico o astratto come fatiche, dolori, colpi della sorte), significa appunto «capacità di sopportazione», qualcosa di simile alla stoica patientia. L’idea dell’accoglienza di ciò che si riconosce come diverso, ma degno di pari rispetto, è estranea al termine latino, e anzi, la sovrapposizione della tolerantia latina alla moderna ‘tolleranza’, che nasce in Europa con le Guerre di religione (XVI secolo), insinua l’idea che il diverso sia anche una minaccia, qualcosa di molesto da sopportare. Al contrario, nella moderna ‘tolleranza’ l’idea dell’accoglienza priva di pregiudizi prevale sullo sforzo volitivo dell’accettazione. Pertanto alcuni storici preferiscono, per il mondo antico, parlare di ‘inclusione’ ed ‘esclusione’ (in inglese inclusivity ed exclusivity) ed evitare l’uso di categorie moderne che rischiano di appiattire le differenze storiche.

L’opposizione tra politeismo inclusivo e monoteismo esclusivo

Riformuliamo allora la domanda: in fatto di religione, il mondo romano era inclusivo? L’idea diffusa è che il politeismo sia inclusivo per natura: in contrasto con il monoteismo, che esclude l’esistenza di altri dèi al di fuori dell’unico vero Dio, la pluralità di dèi è potenzialmente illimitata e quindi aperta a nuove acquisizioni. In effetti, la coesistenza a Roma di culti patrii e peregrini, originari di Roma e provenienti dall’estero, è attestata fin dalle fasi più antiche della storia di Roma: secondo Livio (1,20,5-6) si tratta di un dato originario, già acquisito al tempo della riforma religiosa di Numa Pompilio. La diffusione di culti esotici e misterici come quello di Cibele, la Magna mater di origine frigia, che ebbe un tempio sul Palatino, dell’egizia Iside venerata dalle matrone, o del dio solare Mitra di origine persiana, che conobbe una grande fortuna tra i soldati degli eserciti imperiali, sembrano confermare questa tendenza.

Fattori di inclusività: interpretatio Romana ed evocatio

Alcuni elementi caratteristici della religione tradizionale si rivelano potenti fattori di integrazione, a partire dall’interpretatio Romana, il processo di assimilazione delle maggiori divinità straniere, identificate con quelle originarie di Roma e da esse rinominate: così il pantheon greco può coincidere con quello romano (Crono-Saturno, Zeus-Giove, Era-Giunone…) senza che siano cancellate le differenze locali del mito e del culto, ma formalizzando un’attitudine a riconoscere e valorizzare ciò che è simile nell’alterità.
Dalle fonti storiche conosciamo poi l’antico rituale dell’evocatio: prima di muovere all’assalto di una città i Romani avevano l’abitudine di invocare gli dèi del nemico pregandoli di “trasferirsi” a Roma, dove avrebbero ricevuto i dovuti onori. Livio, per esempio, conserva la formula dell’evocatio pronunciata dal dictator Camillo prima della conquista di Veio (396 a.C.): «Ti prego, Giunone regina, che ora abiti Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città, che presto diventerà la tua, dove ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza» (Liv.5,21,3). Una manifestazione di timore e rispetto per gli dèi dei vinti.

Registri delle nuove divinità e formule liturgiche

Anche il continuo aggiornamento della lista dei nomina deorum redatta dal collegio dei pontefici e l’uso di formule onnicomprensive con cui si concludeva la preghiera invocando la generalità degli dèi e delle dee per rimediare a inevitabili omissioni o dimenticanze (il commentatore Servio spiega l’invocazione dique deaeque omnes di Virgilio, Georg.1,21 ricordando che secondo la consuetudine dei pontefici ogni rito sacro rivolto a una particolare divinità si doveva concludere invocando generaliter tutte le altre divinità, perché nessuna si sentisse trascurata) testimoniano un atteggiamento di apertura e inclusività.

Una religio che tende all’inclusione: perché?

Si potrebbe collegare questa tendenza alla narrazione delle origini di Roma, un melting pot che unisce in un’unica civitas popoli etnicamente diversi (troiani, latini, etruschi) e che favorirebbe naturalmente un orientamento religioso, e culturale in genere, aperto e inclusivo. Esiste però una ragione più cogente, che risiede nell’intima connessione tra religione e politica nella struttura stessa dello Stato romano: la storia di Roma in tutte le sue fasi è posta in collegamento diretto con il culto divino. Dalla fondazione della città, avvenuta per volontà superna, alla sua crescita prodigiosa, fino alla realizzazione di un impero mondiale, la fortuna di Roma dipende dal favore degli dèi; un legame privilegiato che i Romani hanno ottenuto non per grazia ricevuta, ma con la rigorosa osservanza della religio. Mentre gli insuccessi in guerra si spiegano con il mancato rispetto del culto divino da parte di generali irresponsabili, la prosperità della res publica, l’estensione e il consolidamento del suo dominio dipendono dalla scrupolosa osservanza della religio, come argomenta Cicerone aggiungendo: «se vogliamo confrontare la nostra storia con quella dei popoli stranieri, dovremo riconoscerci pari o inferiori in tutte le altre cose, ma nella religio, cioè nel cultus deorum, di gran lunga superiori» (De natura deorum 2,8). Per i Romani mantenere questo primato nel culto religioso significa conservare anche la supremazia politica.

Politica e religione: la pax deorum per la salvezza dello Stato

A Roma la religio ha una funzione politica e serve a ottenere e mantenere il favore degli dèi attraverso un patto di alleanza. Il rapporto con la divinità non appartiene all’intimo della coscienza individuale, ma alla sfera pubblica del diritto, e si configura come ricerca collettiva della pax deorum. All’origine dell’apertura verso le divinità dei popoli vinti e stranieri, c’è la necessità di non inimicarsi nessun numen che possa incrinare il patto di alleanza tra il popolo romano e il potere divino. La tendenza all’inclusione religiosa, quindi, ha ragioni politiche ed è finalizzata alla conservazione della pax deorum, da cui dipende la salvezza e la prosperità di Roma. L’inclusione è uno strumento politico, più che il frutto di un’accettazione disinteressata e priva di pregiudizio del diverso come vorrebbe la moderna categoria di “tolleranza”. 
Accade così che la pax deorum, fondamento ideologico della tendenza all’apertura, finisce per giustificare anche forme di intolleranza. Ma occorre distinguere.

La repressione dei Baccanali e il richiamo alla tradizione

Nel 186 a.C. fu celebrato il più famoso processo religioso prima delle persecuzioni cristiane, la quaestio de Bacchanalibus, che si concluse con una durissima repressione dei culti bacchici su tutto il territorio della penisola. Per giustificare la necessità della linea dura, uno dei consoli, come leggiamo nel resoconto di Livio, richiama i concittadini ai culti patrii, agli dèi che i maiores hanno insegnato a colere, venerari precarique, in opposizione a quelli che «spingono ad ogni delitto e libidine le menti rese folli da culti perversi e stranieri (pravis et externis religionibus captas mentes)» (Liv.39,15,2). Ecco affacciarsi qui un criterio di ortodossia, rappresentato dalla tradizione nazionale e avita, che spinge ad escludere il culto straniero. Il console si richiama espressamente all’esempio degli antenati che nella Roma arcaica non esitavano a vietare i culti stranieri che fossero giudicati in contrasto con la tradizione cultuale romana.

La pax deorum prevale sul mos maiorum

Eppure non è sulla base di questo criterio che si decide la repressione dei baccanali, ma in ragione della loro pericolosità sociale: i riti bacchici hanno luogo di notte, in luoghi privati e con il concorso di un gran numero di persone; un contesto questo, in cui secondo le testimonianze raccolte si consumano stupra e flagitia, e forse si preparano anche congiure contro lo Stato. La decisione del senato, di cui conserviamo anche testimonianza epigrafica (il senatus consultum de Bacchanalibus), colpisce le modalità di svolgimento dei riti, che potranno essere celebrati solo di giorno, con un numero di partecipanti ridotto e con l’autorizzazione del pretore, ma non proibisce affatto il culto di Bacco in sé. Secondo il console, esiste infatti un diritto inviolabile della divinità a ricevere il culto dovuto, anche quando il suo numen venga usato per coprire atti criminosi: resta appunto «il timore che nel punire gli inganni umani non violiamo in qualche misura il diritto divino che vi è frammisto (divini iuris aliquid immixtum)» (Liv.39,16,7). Anche nella repressione, il timore di compromettere la pax deorum prevale sul criterio di fedeltà alla tradizione nazionale e salva il culto di Bacco se non i suoi più spregiudicati esecutori.

I cristiani: dalle persecuzioni alla libertà di culto, sempre in nome della pax deorum

Al contrario, nel II e III secolo d.C., la difesa della pax deorum viene impugnata contro i cristiani per discriminarli e perseguitarli. In tempi di crisi i cristiani sono ritenuti responsabili di catastrofi naturali e militari perché non sacrificano agli dèi tradizionali di Roma, incrinando così il patto di alleanza che il popolo romano ha sancito con gli dèi. I primi autori apologeti del cristianesimo, come Tertulliano e Cipriano, sono impegnati nella confutazione di questa accusa.
Dopo le persecuzioni di Decio, Valeriano e Diocleziano, i cristiani ottengono la libertà di culto con  l’editto di Serdica, emesso da Galerio nel 311 d.C. Nella scelta di correggere la politica persecutoria di Diocleziano pesarono probabilmente ragioni di opportunità politica (la ripresa delle ostilità sul fronte persiano, il problema della successione…), ma nell’atto formale Galerio ammette il fallimento della repressione: gli dèi tradizionali di Roma hanno continuato ad essere trascurati e nemmeno il Dio dei Cristiani ha ricevuto il suo culto a causa delle persecuzioni. Pertanto Galerio chiede ai cristiani di pregare il loro Dio per la salvezza dello Stato e dell’imperatore affinché Roma ottenga la pace del loro Dio.

Per approfondire il tema nell’età di Costantino puoi seguire le lezioni dello storico Andrea Giardina cliccando qui https://allaenne.sns.it/video/inclusione-ed-esclusione-nel-mondo-romano/

Crediti immagine: Una Dirce cristiana nel circo di Nerone, Henryk Siemiradzki, 1897 (Wikimedia Commons)

Non esiste nel mondo antico un lessico specifico corrispondente alla moderna nozione di tolleranza. Questa mancanza ci racconta qualcosa di importante: non c’erano parole per la tolleranza (in una cultura in cui era ricchissima la varietà semantica per concetti filosofici e astrazioni) forse perché non se ne sentiva la necessità. L’idea di tolleranza si costruisce a partire dalla sua negazione, e a essa rimanda: è dalla intolleranza che nasce l’esigenza della accettazione del diverso da sé in ambito religioso, sociale, culturale, ecc. Non è un caso che la nozione di tolleranza modernamente intesa sorga dopo i secoli bui delle guerre di religione che hanno funestato l’Europa del Cinquecento e Seicento, o dopo il sanguinosissimo processo di conquista del Centro e Sud America da parte dei conquistadores europei a danno delle popolazioni amerindie. Anche in quest’ultimo caso, la presunta superiorità di un modello culturale e religioso si è tradotta in prevaricazione violenta e sterminio. Nascerà così l’esigenza di un effettivo riconoscimento, da parte dell’autorità politica, della pari dignità di tutte le religioni e confessioni, come affermato nella Lettera sulla tolleranza di John Locke. Oggi per noi tolleranza è «atteggiamento di accettazione e rispetto verso idee, opinioni, religioni diverse dalle proprie», ma anche «capacità di tollerare ciò che potrebbe rivelarsi sgradevole» (Dizionario Zingarelli 2022).

È a partire dai saggi di Spinoza, Locke e Voltaire che si teorizza la nozione di tolleranza nella sua prima accezione, cioè come fondamento etico-politico su cui costruire una convivenza basata sul rispetto della diversità. D’altra parte, nella moderna nozione di tolleranza sembrano convivere il positivo riconoscimento dell’alterità in quanto tale e l’implicita ammissione della propria superiorità. Il termine tolleranza oscilla infatti tra la dimensione passiva della sopportazione/accettazione del male e la disponibilità a riconoscere la dignità dell’altro in quanto altro. Questa dialettica conserva sempre una sottile asimmetria; come suggerisce Maurizio Bettini, la tolleranza «presuppone non la piena legittimazione delle opinioni altrui, ma una qualche forma di “disapprovazione” nei confronti di esse (se non anche di chi le professa), sia pure accompagnata da atteggiamenti dichiaratamente pacifici».[1]

Il verbo «tollerare» e il sostantivo «tolleranza» derivano dal latino: tollere è «portare», «sopportare», detto di fatiche, dolori, malattie. L’etimologia del termine ha dunque a che fare, in origine, solo con l’idea di sopportazione (nella seconda delle due accezioni di tolleranza citate dallo Zingarelli). Di fronte alle avversità della vita, saggio è colui che, con costanza e virtù, è in grado di resistere pazientemente alla sorte. Tolleranza è infatti anche patientia (da patior), termine che indica sia la capacità di resistere a situazioni avverse, sia la mollezza d’animo e la debolezza (come nel caso della servilis patientia denunciata da Tacito in Annales 14.26.1), mentre il verbo patior conserva, oltre al significato di «sopportare», quello di «permettere», «ammettere» anche ipotesi che potrebbero risultare controverse o desuete (come l’idea che «l’oratore possa essere allo stesso tempo anche filosofo», in Cicerone, De or. 3.143). Infine, in alcune sue sfumature è il verbo indulgere quello che probabilmente si avvicina di più all’attuale idea di tolleranza, poiché introduce l’atteggiamento di chi accondiscende ad alcune concessioni.

Nel greco antico, a patientia e patior corrispondono ὑπομονή e ὑπομένω. Il verbo ὑπομένω (composto da ὑπό, «sotto», «dietro», e μένω, «rimango») significa alla lettera «restare fermi», perdurare in una condizione di paziente sopportazione dei patimenti; analogamente, il sostantivo derivato υ͑πομονή, costruito col genitivo oggettivo, esprime la capacità di resistenza all’interno di una condizione ostile, in senso fisico o psicologico ed emotivo. Nella sentenza di Democrito, «chi affronta volontariamente le fatiche si prepara a tollerare, come se fosse più leggera, anche la fatica che si deve sopportare pur non volendolo» (68 B 240 DK). Anche il verbo καρτερέω (a sua volta composto da καρτ/κρατ, che presenta la stessa radice di κράτος, «forza») evoca la resistenza in battaglia, la coraggiosa sopportazione delle avversità, l’accettazione dell’ineluttabile, così come ἀνέχω (da ἀνά, «su», «in alto», e ἔχω, «ho», «tengo»). Mentre, tuttavia, il composto di μένω suggerisce l’idea di una staticità rocciosa e quasi immobile, nel verbo ἀνέχω, ampiamente attestato nei poemi omerici, sembra contenuta l’immagine del sollevarsi, quasi che la sopportazione implicasse uno sguardo dall’alto, una consapevolezza divenuta più matura in virtù della sofferenza prolungata. Così si tollerano mali, affanni, schiavitù, si sopporta a fatica il dolore di coloro che amiamo (Il. 5.895, Od. 19.27) e, soprattutto, si resiste nelle avversità (Il. 1.586, 5.285), come nel caso di Odisseo «che molto sopporta», secondo l’epiteto πολύτλας (composto da πολύ, «molto» e *τλάω, «sopporto», cfr. latino tollo, tollero). Frequentissimo nell’Odissea, πολύτλας definisce l’eroe che, più di ogni altro, ha saputo accettare e sopportare a lungo dolori e patimenti.

Pur con cautela e astenendoci da una astorica idealizzazione della cultura antica, è indubbio che il mondo greco-romano abbia potuto evitare, proprio in virtù della sua tradizione politeistica, le forme di intolleranza più violenta tipiche delle religioni monoteiste. Nel mondo greco, per esempio, i culti misterici come quelli orfici ed eleusini convivevano accanto alla religiosità olimpica tradizionale. Il processo a Socrate, condannato a morte con l’accusa di empietà per avere introdotto nuove divinità e aver abbandonato gli dèi della polis, fu in realtà un processo politico, che va letto nel quadro della restaurazione del regime democratico, fortemente indebolito dopo la parentesi dei Trenta tiranni; non essendo stato fissato alcun canone di ortodossia nell’Atene del tempo, il procedimento per empietà (δίκη ἀσεβείας), di cui Socrate stesso fu vittima, deve essere considerato un vero e proprio processo politico. Analogamente possiamo riconoscere come nel mondo romano alcuni casi di repressione religiosa (si pensi ai Bacchanalia) rispondevano più a motivazioni politiche che cultuali, poiché si inserivano in una logica di tutela della res publica e delle leggi che guidavano la comunità. Il paganesimo politeista è, d’altra parta, il primo sistema religioso, sociale, politico-culturale a garantire la praticabilità della tolleranza. A proposito della ricorrenza del termine nel pensiero cristiano, possiamo osservare come Agostino sembri riconoscere l’importanza della tolleranza nei confronti di eretici e scismatici: tuttavia, prendendo a modello San Paolo che accetta i falsi fratelli (falsorum fratrum tollerator) e assicura in tal modo l’unità della Chiesa, la tolleranza viene presentata non tanto come accoglimento del valore in sé di altre professioni di fede, quanto in nome del principio cristiano della carità.

Il valore che nell’antichità risponde meglio alla moderna nozione di tolleranza è semmai quello della interpretatio, cioè una mediazione interpretativa, un processo di apertura e accettazione di nuove divinità, attraverso il confronto con le proprie. Questa attitudine è particolarmente evidente nel mondo romano che, nell’incontro con divinità straniere, tende non a respingerle, quanto piuttosto a rileggerle anche linguisticamente all’interno del proprio contesto religioso-culturale. Pensiamo alle testimonianze dello storico Tacito a proposito delle divinità del pantheon egizio con cui i romani erano venuti a contatto: pur con tutta la cautela di una ipotesi congetturale, il dio Serapide viene associato a Esculapio o, secondo altri, a Giove (Historiae 4.84.5). Il processo dell’antica interpretatio è dunque un atteggiamento di curiosità che, pur nell’ottica di una normalizzazione o di una traduzione dei valori stranieri nel linguaggio dei valori dominanti, rivela il dialogo costante tra le divinità romane e quelle straniere, come mostra anche l’acquisizione/rinominazione delle divinità greche nel pantheon romano. Come scrive Voltaire nel suo Trattato sulla tolleranza: «I popoli di cui la storia ci ha lasciato una qualche debole conoscenza hanno tutti considerato le loro differenti religioni come dei nodi che li univano insieme: era una associazione del genere umano. Vi era una specie di diritto di ospitalità tra gli dèi come tra gli uomini. Quando uno straniero arrivava in una città, cominciava con l’adorare gli dèi del luogo. Non si mancava mai di venerare anche gli dèi dei propri nemici. I troiani rivolgevano preghiere agli dèi che combattevano per i greci».[2]

Il termine che forse, meglio di altri, esprime una attitudine rispettosa verso idee e opinioni altrui è il verbo respicere. «Rispetto» deriva infatti da re-specto/re-spicio, ossia «guardo (specto) indietro (re)» o «di nuovo», etimologicamente sovrapponibile a «ri-guardo», e indica un ri-guardarsi nell’altro, suggerendo che, nel rispetto, il rispettante e il rispettato si collocano sullo stesso piano. Tolleranza e rispetto sembrano presentare una finalità analoga (l’accettazione altrui), a partire però da presupposti diversi: mentre il rispetto riconosce l’uguaglianza dei valori in dialogo, cioè la loro pari dignità, la tolleranza tende a eliminare la disuguaglianza originaria attraverso un livellamento delle differenze. Il rispetto è dunque accoglimento dell’altro sulla base di un principio di uguaglianza e reciprocità; la tolleranza è invece accettazione dell’altro nell’ottica di un pareggiamento delle differenze, a partire dal proprio sistema di valori.

[1] M. Bettini, Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, Il Mulino, Bologna 2014, 84,

[2] Voltaire, Trattato sulla tolleranza, tr. e cura di L. Bianchi, Feltrinelli, Milano 2003, p. 63.


 Crediti immagine: Odisseo e Polifemo, Arnold Böcklin, 1896 (Wikimedia Commons)

La riflessione sul concetto di tolleranza attraversa tutta la storia del pensiero europeo, dall’antichità fino all’epoca contemporanea. Si tratta indubbiamente di un termine chiave attorno al quale ruota la filosofia occidentale, ma allo stesso tempo il suo significato appare spesso ambiguo e inafferrabile. “Tollerare” può assumere tanto una accezione negativa, in termini di concessione nei confronti di gruppi o di singoli individui, quanto una accezione positiva, se riferito a un atteggiamento non giudicante e non penalizzante nei confronti di coloro che hanno credenze e opinioni differenti.

Una difficile definizione. I tanti volti della tolleranza

Nella tradizione europea, la definizione di tolleranza è stata intimamente connessa al livello di complessità delle relazioni di potere in specifici contesti storici e culturali. Non a caso, alle sue origini il termine ha indicato il rapporto tra una autorità, depositaria dei valori di riferimento della società, e uno o più gruppi che professavano credenze “diverse”. In questo rapporto asimmetrico, tipico del mondo dell’antichità, l’autorità concedeva alle minoranze il permesso di vivere secondo le proprie norme religiose e morali, aspettandosi in cambio riconoscimento politico e sottomissione, come accadeva nel caso dei popoli conquistati dai romani. Con il mutare delle posizioni e dei reciproci rapporti di forza, muta anche il significato che il concetto di tolleranza assume. Se il contesto sociale è caratterizzato da gruppi che detengono un livello di potere simile, la reciproca tolleranza può risultare la migliore delle alternative per il perseguimento dei rispettivi interessi. Non si tratta di una tolleranza esercitata sulla base di principi di valore, ma per mera opportunità.

Un esempio di questa seconda accezione di “tolleranza” è rappresentato in epoca moderna dalla Pace di Augusta, trattato stipulato nel 1555 tra l’imperatore Carlo V e i principi tedeschi ponendo fine alle guerre di religioni in Germania, sancendo di fatto la divisione tra cattolici e protestanti nel Paese. Per un approfondimento delle Guerre di religione che hanno sconvolto il XVI secolo in Europa, si rimanda al seguente documentario del professore Alessandro Barbero: www.youtube.com/watch?v=FuPMA5uZPe4

Simmetricamente a queste nozioni, si possono individuare altri due approcci, più vicini a noi storicamente e culturalmente, nonché in linea con le teorie della democrazia contemporanee. Ci si può riferire alla tolleranza non solo come rispetto reciproco, ma volendo incarnare una prospettiva ancora più impegnata come vera e propria stima, che non si ferma al semplice riconoscimento tra cittadini appartenenti a sistemi culturali e religiosi differenti, ma che considera le altre parti come portatrici di credenze e principi altrettanto di valore sebbene diversi dai propri, capaci di contribuire a una costruzione condivisa della società.

Alla radice della tolleranza moderna. Il peccato originale delle guerre di religione

Nel percorso attraverso i secoli di definizione e ridefinizione del concetto, la riflessione sulla tolleranza si è articolata in particolare nell’ambito religioso. È con l’età moderna che il tema della tolleranza diviene una questione politica sempre più pressante nell’Europa delle guerre di religione del XVI e XVII secolo, onda lunga della riforma luterana che aveva reso possibile una inedita proliferazione di confessioni e di conseguenti persecuzioni.

In questo scenario, l’obiettivo dei filosofi diventa quello di comprendere come si possa mantenere un ordine sociale rifuggendo al caos delle violenze in atto. Thomas Hobbes (1588-1679) ne Il Leviatano individua una duplice strada per garantire la pace all’interno dello Stato, relegando la professione dei culti religiosi all’ambito privato e auspicando una totale corrispondenza tra Stato e Chiesa. Sebbene Hobbes considerasse quella cristiana l’unica “vera” religione, a differenza delle altre frutto di superstizione e ignoranza, e difendesse una coincidenza tra Stato e Chiesa, la sua posizione fu ritenuta atea e immorale. L’obiettivo di Hobbes consisteva infatti nel rinnegare l’esistenza di uno stato nello stato (ruolo che la Chiesa si era di fatto ritagliata) e nel riconoscere nel sovrano l’unica figura di mediazione tra l’uomo e Dio. “Potere” di mediazione conferito non da Dio per Hobbes, ma da «ogni singolo uomo della comunità». Solo una simile forma politica avrebbe potuto evitare altre lotte e violenze disinnescando la religione come fonte di conflitto.

Per un approfondimento della filosofia di Hobbes e della sua opera Il Leviatano, si rimanda all’intervento del professore Carlo Galli in occasione del Festival della Filosofia del 2011: https://www.youtube.com/watch?v=6PG51lmiazc

Molto diversa appare invece la soluzione fornita da John Locke (1632-1704) il cui nome è da sempre legato a questa riflessione grazie al Saggio sulla tolleranza (1667) e alle tre Lettere sulla tolleranza (1689,1690, 1693). Al contrario di Hobbes, Locke non ritiene che per superare il conflitto sia necessario relegare la professione delle religioni nell’ambito privato dei cittadini o neutralizzarla tramite la figura assoluta e laica del Leviatano. Non si tratta di nascondere le religioni dall’ambito pubblico, ma di individuare le condizioni che rendano possibile professarle, in tutte le loro varianti, senza incorrere però nelle violenze civili. La soluzione è per Locke opposta a quella di Hobbes: Stato e Chiesa non devono coincidere ma restare ben separati, occupandosi delle questioni civili il primo e delle questioni strettamente religiose la seconda. Inoltre, in virtù del fallibilismo teologico, ovvero dell’impossibilità filosofica di stabilire in ultima istanza quale sia la vera religione, non solo lo Stato si dovrà manifestare tollerante nei confronti delle diverse confessioni, non interferendo con le credenze private dei cittadini, ma le stesse confessioni dovranno tollerarsi vicendevolmente.

Un dibattito mai concluso. Le democrazie contemporanee e le credenze religiose

Il dibattito sulla tolleranza religiosa in Europa non si esaurisce nella modernità, ma continua a trovare ampio spazio in epoca contemporanea, rinvigorito dalla presenza di nuove confessioni religiose e con sfumature diverse all’interno dei vari paesi europei. Il caso della Francia è in questo contesto emblematico: la laicità dello Stato come principio cardine e indiscusso è stato ritenuto da più parti quasi esasperante e colpevole di condurre a rigide quanto inutili contrapposizioni, arrivando a trasformarsi da strumento di tutela a vero e proprio dogma. Negli anni più recenti, il tentativo di ridefinire i confini tra principio di laicità e diritto a professare le proprie credenze religiose, è stato compiuto attraverso un dialogo alquanto inedito tra il filosofo tedesco Jürgen Habermas (n. 1929) e l’allora Cardinale Joseph Ratzinger (1927-2023), riflessioni che sono convogliate nella raccolta di saggi Tra scienza e fede (2005). Abbracciando una posizione laica, ma non laicista, Habermas ritiene necessario per una società post-metafisica come quella attuale riconoscere alle diverse tradizioni religiose il loro ruolo storico e il contributo essenziale nella definizione dello Stato costituzionale. La ricerca di principi di legittimazione “neutri” non deve trasformarsi infatti in una affermazione autoritaria della Ragione sulle credenze presenti all’interno di una società e lo sforzo che deve essere fatto da parte di una autorità statale ideologicamente neutra consiste nel non negare «un potenziale di verità alle immagini religiose del mondo». Per Habermas, la difficoltà del dialogo tra laici e religiosi è in realtà una difficoltà di traduzione: per poter trovare spazio nelle pubbliche discussioni la sfida diventa quella di «tradurre contributi rilevanti dal linguaggio religioso in una lingua pubblicamente accessibile».


Crediti immagine: illustrazione del frontespizio de Il Leviatano, 1651 (Wikimedia Commons)

Nel 1945 Karl Popper pubblica La società aperta e i suoi nemici, in cui enuncia il celebre paradosso della tolleranza: “Se estendiamo un’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.”

Partendo da questo spunto e mettendolo a confronto con alcuni casi reali, in questo video Francesca Faenza cerca di tracciare il confine fra tollerabile e intollerabile, concentrandosi per esempio sui casi di negazionismo storico, ovvero la minimizzazione grossolana e manipolatoria di genocidi storicamente accertati, come la Shoah.

Anche qui si ripropone il dilemma di Popper: negare o minimizzare grossolanamente crimini terribili come la Shoah è qualcosa di intollerabile, oppure rientra nel tollerabile? Quale diritto prevale, la libertà di manifestazione di pensiero o la tutela delle vittime?


(Crediti immagine: Pixabay)

La chiesa uscita dal Concilio di Trento appariva rinvigorita nelle proprie fondamenta. Il definitivo riconoscimento dell’autorità indiscussa del Papa, la rigida uniformità imposta alla liturgia, la promozione di nuove congregazioni religiose contribuirono a rafforzare la determinazione dei cattolici a rispondere alla sfida del mondo riformato, a recuperare il terreno perduto nel mondo cristiano e, nel contempo, a rilanciare la missione pastorale ai quattro angoli del pianeta. In tale clima, se il papa è il comandante in capo dell’esercito di fedeli, l’élite dei suoi combattenti è raccolta in nuovo ordine fondato dallo spagnolo Ignazio di Loyola e riconosciuto dal pontefice nel 1540: la Compagnia di Gesù.
L’obbedienza “forte” dei francescani alle direttive del papa diventa con i gesuiti assoluta, totale o, per usare le parole del fondatore dell’ordine, “cadaverica”, ossia priva di volontà propria e del tutto dipendente dalla volontà superiore. Nel rilancio della missione evangelica seguito al Consiglio di Trento, l’attività tradizionalmente svolta dagli ordini religiosi tra le masse popolari si estende con i gesuiti anche ai ceti privilegiati. Se lo sguardo dei francescani è infatti rivolto agli ultimi, quello dei gesuiti abbraccia anche ai primi; se i frati cappuccini prediligono svolgere la propria attività tra i poveri, i gesuiti prestano molta attenzione anche ai ricchi; se la missione dei chierici teatini si consuma fuori dai palazzi del potere, quella dei gesuiti si svolge in buona misura al loro interno, influenzando l’attività dei governanti europei e attirando la curiosità degli imperatori cinesi o dei feudatari giapponesi.

Di fronte a Confucio

Nell’immenso e raffinato Impero cinese l’attività svolta dalla Compagnia di Gesù a partire dalla fine del XVI secolo si trovò ad affrontare ostacoli assai seri, per non dire insormontabili, dovendo confrontarsi con una civiltà antichissima, giunta a uno straordinario livello di sviluppo e profondamente radicata tra la popolazione. Di fronte a tale evidenza, i missionari europei non poterono esimersi dal prestarvi omaggio, sforzandosi di mostrare la compatibilità tra il messaggio cristiano e i fondamenti confuciani della millenaria cultura cinese. Il tentativo ottenne risultati solo parziali e quando, in reazione alla crescente ingerenza dei cristiani nelle pratiche di culto tradizionali, all’inizio del XVIII secolo i sovrani cinesi decideranno l’espulsione dei missionari dal territorio dell’impero, la penetrazione culturale avviata dai gesuiti non si era spinta oltre lo strato superficiale del tessuto sociale, ottenendo la conversione di appena il 2% della popolazione.
Eppure l’avventura dei soldati di Cristo nel Celeste impero aveva avuto inizio sotto i migliori auspici. La loro presenza in Cina si era rafforzata sempre più durante la seconda metà del XVI secolo e, nel 1601, avevano ricevuto l’onore di essere ricevuti alla corte dell’imperatore Wanli, il sovrano più longevo della dinastia Ming. A rappresentare la Compagnia fu in quell’occasione il maceratese Matteo Ricci che, dopo avere passato vent’anni immerso nello studio della cultura cinese, si era immedesimato a tal punto nei costumi di quel popolo da dismettere gli abiti occidentali per indossare le tuniche nere dalle ampie maniche, in uso presso i letterati confuciani. Apprezzato per la sua cultura e la perfetta padronanza della lingua, il gesuita italiano aveva attirato la curiosità dell’imperatore non per mezzo del messaggio religioso di cui si faceva portatore, ma grazie agli orologi recati in dono, simbolo dei traguardi raggiunti dall’occidente nel campo della scienza e della tecnica. Dopo Ricci, la corte degli imperatori Ming e poi Qing si popolerà di altre importanti figure di gesuiti, che trasmetteranno al ceto dei mandarini e dei dignitari imperiali le nuove scoperte effettuate dall’Europa in discipline quali l’astronomia, la matematica e le scienze naturali. Sarà un gesuita tedesco, Adam Schall, ad assumere verso la metà del XVII sec la prestigiosa carica di Presidente del Tribunale dei matematici dell’impero.
L’”editto di tolleranza” emanato nel 1692 dall’imperatore Kangxi in favore dell’attività missionaria dei cristiani non fece che ufficializzare una presenza ormai ben radicata: nel 1700 a Pechino e nella sterminata provincia dell’impero erano attivi 120 sacerdoti; oltre la metà dei quali gesuiti, in prevalenza francesi.

I lumi dell’Oriente 

Le lettere, i resoconti e le descrizioni che quei missionari inviarono in Europa parlavano con entusiasmo del felice connubio tra una struttura di potere arcaica nel suo assolutismo e la straordinaria efficienza dell’amministrazione, la raffinatezza della cultura, la produttività di un sistema economico capace di alimentare la ricchezza dell’impero e sostenere una crescita demografica costante. Il tutto nel quadro di un armonico ordinamento gerarchico della società, ispirato ai principi della filosofia confuciana. Quegli scritti esercitarono una grande influenza sulla cultura europea, alimentando l’interesse per l’estremo oriente e i suoi prodotti (le chinoiseries), che si diffuse nel continente a cavallo tra la prima e la seconda metà del XVII secolo, e catturando il pensiero dei filosofi illuministi – francesi in particolare – che nella Cina imperiale raccontata dai padri gesuiti videro la realizzazione di quel “dispotismo illuminato”, al quale in Europa erano affidate le speranze di una riforma del sistema assolutista al lume della ragione.
Gli sforzi compiuti dai missionari gesuiti per entrare in sintonia con il contesto politico sociale e culturale cinese attirarono non di rado critiche e sospetti di altri ordini presenti nel Celeste impero (francescani e domenicani in particolare), che nelle informative inviate a Roma rimproveravano alla Compagnia di Gesù l’eccessiva accondiscendenza verso i rituali e le pratiche tradizionali diffuse tra la popolazione cinese. In particolare veniva fatto notare come questa duttilità si spingesse fino a sostenere la compatibilità tra la conversione al cristianesimo e la conservazione del culto degli antenati, pietra angolare del pensiero confuciano, che i gesuiti consideravano con ragione un’usanza sociale e non una pratica religiosa.

I riti negati

La presa di posizione defiitiva della Santa sede su quella che sarà ricordata come “la controversia sui riti cinesi” giunse nel 1715 attraverso la bolla Ex illa die, emanata dal pontefice Clemente XI, attraverso la quale il pontefice imponeva alle poche migliaia di cinesi convertiti al cristianensimo il divieto di celebrare i riti in onore degli antenati.
Di fronte alla presa di posizione del pontefice, l’imperatore Kangxi rispose duramente: «Che cosa direbbe il papa, se l'imperatore cinese si permettesse di giudicare e di riformare le cerimonie vaticane?». Nel 1717, furono così proibiti la predicazione e il proselitismo cristiano nell’Impero cinese. A tale misura fece seguito, nel 1724, l'espulsione di tutti i missionari cattolici dalla Cina, salvo un piccolo gruppo attivo presso la corte imperiale. Venivano così cancellati con un colpo di spugna gli sforzi compiuti da Matteo Ricci e da tutti i “soldati di Cristo” che nell’arco di quasi due secoli si erano impegnati a costruire un ponte tra oriente e occidente, allo scopo di favorire l’incontro tra culture differenti.
I gesuiti torneranno in Cina nel 1842 sulla punta delle baionette inglesi quando, al termine della prima Guerra dell’oppio, il trattato di Nanchino pose fine alla politica isolazionista del governo cinese e spezzò le resistenze opposte dal Celeste impero alla penetrazione europea. A quel tempo l’ammirazione e il rispetto che fino al secolo precedente avevano caratterizzato la condotta di diplomatici e missionari occidentali presso la corte imperiale erano solo un ricordo e la Cina si apprestava a diventare oggetto di contesa tra le potenze coloniali.


Crediti immagine: Matteo Ricci, 1610 (Wikimedia Commons)

La tolleranza è un tema talmente ampio e complesso, e il suo significato profondo è talmente abusato che, forse, l’unico modo per cominciare a parlarne è far mettere le cose in chiaro a Umberto Eco: https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2018/12/Umberto-Eco-a-scuola-di-tolleranza-2468f7c3-2eaa-4b38-841e-ed55556ce439.html

Eco in realtà parla di intolleranza. Dice che l’intolleranza è l’incapacità di regolare la nostra naturale reazione al diverso. Dunque, per contrasto, possiamo dedurre che la tolleranza sia la capacità che abbiamo di regolare la nostra reazione al diverso, cioè la facoltà di comprenderlo e accettarlo. In questo senso, la tolleranza è qualcosa a cui ci si educa – insomma la si impara, non è innata. E forse non è nemmeno qualcosa di stabile, ma si modifica di epoca in epoca, a seconda della sensibilità e degli eventi che modificano il nostro sguardo sul mondo.
Esistono però delle formule statiche che, per così dire, sanciscono cosa può essere tollerato e cosa no. Prendete per esempio l’articolo 528 del Codice penale, quello dedicato a Pubblicazioni e spettacoli osceni. Dice: «Chiunque, allo scopo di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente, fabbrica, introduce nel territorio dello Stato, acquista, detiene, esporta, ovvero mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa non inferiore a euro 103».

Si tratta di un vecchio articolo, che a partire dal 2016 è stato in parte riveduto depenalizzando la maggior parte delle cose nominate nell’elenco: gli scritti o gli spettacoli ritenuti osceni non vengono più considerati reati penali – ma semmai illeciti amministrativi. Insomma, le maglie della censura si sono un po’ allargate o, per rimanere nel tema di questo numero di Aula di lettere, la soglia di tolleranza si è un po’ alzata. Rimane però un fatto: esistono anche oggi opere che urtano il comune senso del pudore e vengono punite in sede legale.
Quelli che seguono sono alcuni dei momenti della recente storia italiana in cui i libri sono andati a processo per i loro contenuti. Dico subito che, nella stragrande maggioranza dei casi, autori e autrici non sono stati condannati e i loro libri, ritirati dalle librerie durante i processi, sono regolarmente tornati sugli scaffali; ma questo non significa che la censura non sia esistita o abbia smesso di esistere: significa piuttosto che esistono temi, e modi di trattarli, che fanno scandalo e sono, ciascuno a loro modo, considerati intollerabili.

Omosessualità. Busi e Tondelli alla sbarra

L’ultimo grande processo italiano in ordine di tempo lo ha subito tra il 1989 e il 1990 Aldo Busi, scrittore immenso, autore di un pugno di libri straordinari: uno di questi, Sodomie in corpo 11, è andato alla sbarra per oscenità. Pubblicato nel 1988, Sodomie è uno strano libro di viaggio, geniale e fluviale, che reinventa la lingua italiana ma lo fa, secondo chi presentò alla procura di Trento un esposto per oscenità, in modo «indecente, immorale, di inaudita depravazione». Si tratta, sempre secondo l’esposto, di un’opera «sudicia, schifosa e perversa, veicolo di indiscussa corruzione (con danno morale irreparabile per gli adolescenti nelle cui mani può facilmente capitare)». Vengono estratti dal libro, e letti davanti alla Corte, venti passi considerati l’apice della depravazione. Ma che cosa ha scritto mai, Aldo Busi, di tanto insopportabile? Ha scritto degli incontri sessuali del protagonista, tutti di matrice omosessuale, e l’ha fatto in modo esplicito. Apriti cielo. Ci sono alcuni momenti del processo, a cui Busi partecipò oserei dire perfino divertendosi, che vale la pena riportare. Eccolo che, rivolgendosi al giudice, pone una questione cruciale: «Vorrei sapere un giurista fino a che punto può stabilire che cosa è arte»; e più avanti: «Ma io non capisco che cosa significa “esasperato sessualismo fine a sé stesso”? Che cos’è (...)? Cosa vuol dire “rappresentazioni crudamente veristiche di amplessi”?» - e perché, viene da chiedersi, uno non può metterle in un libro, se hanno senso per la storia, per l’argomento, per la visione del mondo del suo autore?
Pochi anni prima un altro grande scrittore, Pier Vittorio Tondelli, era stato processato più o meno per gli stessi motivi – la rappresentazione di una serie di rapporti sessuali di stampo omosessuale – in un altro libro capitale per la letteratura italiana degli ultimi quarant’anni, Altri libertini. Denunciato prima da un circolo cattolico milanese e poi da altri movimenti di analoga provenienza sparsi un po’ per tutta Italia, Altri libertini era il libro d’esordio di Tondelli, e fu accusato di mettere in scena «rapporti sessuali contronatura» - e sì, sembra il Medioevo e invece sono gli anni Ottanta. Il libro conteneva inoltre delle bestemmie, per ben 177 volte (le hanno contate!) nominava, in modo volgare, l’organo sessuale maschile, e parlava senza filtri di tossicodipendenza: il libro era dunque accusato di blasfemia, di pornografia e di essere un’opera in cui «il lettore viene violentemente stimolato verso la depravazione sessuale e il disprezzo della religione cattolica» - così come si legge nel decreto con cui l’opera venne provvisoriamente ritirata dalle librerie. Il processo si concluse con la vittoria di Tondelli e il reintegro del volume nei circuiti librari.
Queste vicende dicono, da un lato, che esiste nel nostro Paese un sostrato profondo di bigottismo; dall’altro, con le assoluzioni finali, dicono però molte altre cose: anzitutto, come si domandava Busi, che non è la Legge a stabilire che cosa, in un’opera d’arte, è morale o no; di più, che non si può decidere in un tribunale che cosa sia artistico e che cosa no: lo decide il tempo, l’accoglienza degli uomini e il fatto che un’opera entri o meno a far parte del linguaggio e dell’immaginario – e in questo senso Altri libertini e Sodomie in corpo 11 sono due opere capitali: hanno captato le modificazioni del linguaggio, del costume, e le hanno inserite, in modo violento e profondamente letterario, nel discorso culturale italiano. Evviva.

La città natale di Tondelli, Correggio, oggi gli dedica un centro documentazione: https://tondelli.comune.correggio.re.it  

Moltissime sono le opere della letteratura che sono state processate, e per molte di esse risulta difficile, oggi, capire il motivo. Madame Bovary di Gustave Flaubert (1856) fu accusato di immoralità e oscenità per via di certe descrizioni ritenute scandalose: ma io oggi vi sfido a leggere il romanzo e a trovare dove siano. La morale è cambiata e con essa il senso del pudore: ciò che faceva scandalo nell’Ottocento non lo fa più, ciò che era inaccettabile negli anni Ottanta del Novecento fa parte ormai dei nostri discorsi quotidiani.

Joyce e il suo Ulisse subirono, di qua e di là dell’Atlantico, vari processi per pornografia. Il romanzo era accusato di “voler eccitare il lettore”, soprattutto per via di certi passaggi del monologo finale di Molly Bloom, in cui la donna, in un flusso di coscienza inarrestabile, racconta, tra le altre cose, di adulterî, desideri e fantasie sessuali di varia natura e, in generale, parla a briglia sciolta. Oggi, un secolo dopo, a nessuno verrebbe in mente di accusare Ulisse di pornografia: la cosa però interessante è che, a guardare anche solo questi quattro casi velocemente elencati, si vede come la censura, nelle democrazie, abbia storicamente riservato una particolare attenzione a come vengono rappresentati nei libri il corpo umano, i suoi desideri e i modi attraverso cui vengono soddisfatti. Sembra che la moralità, o qualcosa che le assomiglia, abbia come metro di misura il modo in cui i personaggi gestiscono le loro voglie: in un romanzo si può uccidere un uomo (e ci credo: altrimenti non esisterebbero i gialli), ma se si fa del sesso, specialmente se omosessuale, c’è il rischio che qualcuno faccia partire una denuncia.
Ulisse vinse tutte le cause in tutti i Paesi – Italia compresa – dove gli furono intentate.

Piccola storia del processo all’Ulissehttps://www.ilfoglio.it/cultura/2022/03/02/news/l-ulisse-di-joyce-censurato-ancora-prima-di-essere-pubblicato-3633858/

I libri che non ce l’hanno fatta

Ho scritto poco sopra che, nella stragrande maggioranza dei casi, i libri vincono le cause intentate contro di loro. Ma ci sono delle eccezioni. Pier Giuseppe Murgia pubblicò nel 1960, a vent’anni, Il ragazzo di fuoco: anche lui fu accusato di pornografia. 8 mesi di reclusione e 20.000 lire di multa furono la pena inflitta ad autore ed editore (Piero Sugar, che aveva da poco fondato la SugarCo e, in seguito, sarebbe diventato, insieme a Caterina Caselli, uno dei più grandi produttori discografici italiani). Il libro fu accusato di «enfasi, narcisismo, vacuità e povertà di contenuto, tono grigio e uniformità di descrizione, modo sciatto di esposizioni, ricerca volutamente imposta di vocaboli volgari, assenza di qualsiasi episodio che parli concretamente, e non in superficie, al cuore e all’intelletto, assenza di finalità etiche, abbondanza di lubricità e sconcezze non giustificate né giustificabili in funzione artistica; manifesto richiamo all’eccitamento dei sensi». Insomma un libro brutto e sporcaccione. Sembra una recensione, e invece è un estratto della sentenza – sarebbe interessante sentire, a questo proposito, l’opinione di Aldo Busi.
Ma forse il caso più eclatante è quello di Milena Milani, autrice di un romanzo «altamente offensivo del senso del pudore (...) e quindi osceno, per la descrizione dei rapporti sessuali e anche omosessuali vissuti da una ragazza ossessionata dalla continua ricerca della vibrazione d’amore»: La ragazza di nome Giulio è il titolo di quest’opera, pubblicata nel 1964, che fece uno scandalo enorme – c’era il sesso, descritto in modo esplicito, ma soprattutto era una ragazza a farlo e una donna a scriverlo!
Il libro, amato da grandi scrittori come Goffredo Parise e difeso in tribunale nientemeno che da Giuseppe Ungaretti, affronta alcuni tabu e lo fa in modo diretto, esplicito: per esempio la masturbazione, soprattutto femminile; un’evirazione, che Jules (questo è il vero nome della protagonista) compie con un coltello contro un amante occasionale; ma a destare scandalo, e di fatto a condannare l’opera e la sua autrice, fu soprattutto la descrizione dettagliata della perdita di sangue mestruale, cosa che non era mai stata fatta in letteratura: le mestruazioni erano un tema di cui all’epoca non si poteva parlare in pubblico – e la sentenza di colpevolezza, a suo modo, spiega perché: «L’episodio su cui più si diffonde è proprio quello più segreto e intimo per una donna, il passaggio dall’infanzia alla pubertà, descritto come un evento nazionale e concluso con una trivialità (...) che disgusterebbe la più depravata prostituta [sic]».
Milani fu condannata a sei mesi di reclusione e a una multa di 100.000 lire. Era il 1966. Quattro anni più tardi, da questo romanzo il regista Tonino Valerii trasse un film, che però non ebbe grande fortuna.

La storia della Ragazza di nome Giulio e del processo: https://letture.wordpress.com/2012/03/08/donne-e-letteratura-1964-lo-scandalo-del-libro-la-ragazza-di-nome-giulio-di-milena-milani/

Chiudo pagando un debito. Ho tratto la maggior parte delle notizie di questo articolo da un libro, documentatissimo e divertito, pubblicato nel 2013 da Aragno: si tratta di Maledizioni. Processi, sequestri e censure a scrittori e editori in Italia dal dopoguerra a oggi anzi domani, di Antonio Armano.

Qui la scheda del libro: https://www.ninoaragnoeditore.it/opera/maledizioni
Qui il booktrailer, con la voce dell’autore: https://www.youtube.com/watch?v=YcbhaiyMLUE

Crediti immagine: Madame Bovary, Charles Léandre, 1931 (Wikimedia Commons)

Qual è il costo emotivo e psicologico di un lavoro rivolto al benessere degli altri? Fin dove si estende la nostra soglia di tolleranza? Senza che ce ne si accorga per tempo, può arrivare il momento di gridare “non ce la faccio più!”, perché siamo “scoppiati” o, come si dice in inglese, siamo piombati nel burn out.

Burn out: che cosa è?

La letteratura psicologica ha da tempo individuato un complesso stato d’animo di insoddisfazione professionale e incapacità di agire che può colpire pompieri, insegnanti, infermieri e ogni altra figura la cui professione implica la cura degli altri.
Per indicare questa drammatica situazione, in mancanza di un’espressione migliore, si usa il termine inglese “burn out”, il più adatto a indicare quella intollerabile distanza che un operatore avverte tra le richieste e le risorse disponibili (quelle personali o quelle della struttura in cui lavora).
La fenomenologia dei comportamenti di chi è affetto da burn out è caratteristica: non solo il soggetto manifesta forme di stress, ma il suo comportamento cambia profondamente. Lo “scoppiato” è scontento, sfiduciato, cinico e freddo verso gli utenti, meno efficiente e propositivo di prima. Anzi, man mano che il burn out si esterna, esso rischia di contagiare l’ambiente circostante. Le parole cariche di rancore, l’ostilità e la disillusione che provengono dal soggetto in burn out  stimolano reazioni simili in chi si trova nelle vicinanze e generano una spirale sempre più ampia di scontentezza.

Perché si scoppia?

Dalla ricognizione svolta da Bruna Zani e Elvira Cicognani (Psicologia della salute, Il Mulino Bologna 2000) emerge che l’esplosione del burn out è il frutto di un intreccio di condizioni di lavoro, aspettative, coinvolgimento personale e caratteristiche individuali.
In altri termini, a fronte di un lavoro in cui vi sono alte aspettative, essere poco coinvolti nei processi decisionali, il confronto con colleghi che appaiono più preparati, un forte senso di responsabilità e una limitata capacità di distinguere tra dimensione personale e dimensione professionale sono ingredienti di un possibile percorso verso il burn out.
Ma quale fattore è più incisivo? Il carattere dell’operatore o le carenze della struttura?
Se consideriamo i suggerimenti degli specialisti per prevenire il burn out, sembra che il fattore individuale sia prioritario. Le analisi di molti psicologi infatti convergono sull’importanza di un’azione dei professionisti su se stessi. In generale le indicazioni fornite dai vari studiosi si concentrano sia su una serie di tecniche pratiche di rilassamento ecc. sia sulla efficace capacità di raffrontare le proprie aspirazioni al contesto.
Tuttavia, questa prospettiva viene denunciata da alcuni ricercatori. Secondo Christine Maslach e Michale Leiter (autori di Burn out e organizzazione, Erickson, Trento 2000), orientare l’analisi e la cura del burn out sul lato individuale, significa avvalorare una sorta di “prospettiva ideologica”, che giustifica quelle modalità organizzative e prassi di lavoro dentro cui si sviluppano gli episodi di burn out.
Dentro in altri termini, nel caleidoscopio di fattori che sono all’origine del burn out, la scelta di uno di essi come prioritario può significare avvalorare o criticare una concezione aziendalistica dei rapporti di lavoro.

Negli ultimi anni il numero di abbandoni del posto di lavoro per stress è notevolmente aumentato. È ancora da chiarire se all’origine di questo fenomeno vi sia l’organizzazione del lavoro, l’incapacità di sopportarla, o una valutazione individuale sull’opportunità di adattarsi.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/10/22/il-burnout-porta-alle-dimissioni-di-massa-lavorare-e-diventato-insostenibile/6364327/

Come prevenirlo?

La prevenzione deve quindi agire sia sul fronte personale che su quello dell’istituzione. La ricetta non può essere però univoca, perché le fonti di stress possono essere molteplici: per esempio il rapporto con i colleghi può essere fonte di sostegno oppure frustrante. Anzi, talvolta invece di stimolare il reciproco sostegno, i colleghi alimentano la sfiducia e il pessimismo. Se abbracciamo un approccio ecologico, incentrato sulla interazione tra il soggetto e il suo ambiente, è chiaro che la prevenzione del burn out si basa tanto sulla riorganizzazione dell’ambiente di lavoro quanto sulla ricerca individuale di un equilibrio. Per esempio, nella struttura scolastica si dovrebbe ridurre il numero di allievi per classe e creare incontri collegiali di mutuo supporto, come suggeriscono Rossati e Magro nel volume Stress e burn out (Carocci Roma 1999).

In ambito medico è possibile trovare dei protocolli di prevenzione  destinati al personale sanitario a rischio burn out. Sul sito epicentro è possibile leggere le indicazioni dei cosiddetto Buddy system, che si basa sul mutuo aiuto tra colleghi.
https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-gestione-stress-buddy-system

Cosa ci dice di noi stessi?

Se il burn out è soprattutto l’esito di un confronto tra esigenze e aspettative, allora viene da pensare che alla base di questo fenomeno possa esserci un’errata percezione delle proprie capacità di modificare il mondo intorno a noi: percezione destinata, per sua stessa natura, a numerose e brucianti delusioni. A seconda dei casi il burn out può colpire persone fragili e incapaci di reagire alle difficoltà ritenute eccessive, ma anche gli entusiasti frustati. Rossetti e Magro riflettono sugli esiti diversi di varie ricerche. Alla luce di queste indagini, il profilo del soggetto che può cadere nel burn out non è affatto univoco: alcune ricerche si concentrano su soggetti abituati a incolparsi degli insuccessi, altri su persone aggressive e competitive, altre sui soggetti rigidi e poco inclini al cambiamento.
Le molte analisi svolte sul burn out svelano quindi un complesso causale in cui le deficienze di una struttura, il clima di lavoro, le richieste degli utenti concorrono in varia misura a innalzare lo stress. Il caso del burn out ci svela però anche che la nostra capacità di sopportare lo stress dipende tra le altre cose dall’immagine che abbiamo elaborato di noi stessi e della nostra capacità di mutare il mondo fuori di noi.


Crediti immagine (Creative Commons Attribuzione 2.0): CIPHR – sito ufficiale: https://www.ciphr.com/. Immagine disponibile anche su Wikimedia Commons e flickr

Un’ondata d’intolleranza

Nella seconda metà del Quattrocento la storia del plurisecolare rapporto fra cristiani ed ebrei in Europa – una storia complessa di coesistenza, talvolta amicizia, spesso intolleranza o vera e propria persecuzione – si avvia a una drammatica svolta.
In Spagna nel 1478 la creazione del tribunale dell’Inquisizione, occhio indagatore della monarchia fissato sui marrani accusati di avere aderito solo formalmente alla religione cristiana, prelude a un evento di portata epocale: l’editto con cui, il 31 marzo 1492, i “re cattolici” Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia decretano l’espulsione di tutti gli ebrei dal regno. È l’inizio di una migrazione di massa che porta le comunità sefardite (da Sefarad, nome ebraico della penisola iberica nel medioevo) a lasciare Spagna e Portogallo per stabilirsi negli altri Stati europei, in Nord Africa o nell’Impero ottomano.
Nei decenni successivi l’ondata d’intolleranza investe gradualmente altre parti dell’Europa.
La frattura apertasi all’interno del cristianesimo con la predicazione di Lutero induce la Chiesa di Roma a reprimere con forza ogni forma di dissenso o di semplice difformità all’interno della società cristiana; fra queste forme, la prima per consistenza e identificabilità è quella degli ebrei, che da secoli vivono fianco a fianco con i “gentili” condividendo spazi urbani, commerciando, istituendo scambi culturali e talvolta legami affettivi o persino vincoli matrimoniali. Questa convivenza viene vista da un lato come un pericolo per la compattezza del gregge cristiano, dall’altra come l’occasione per mostrare al mondo la volontà e il potere della Chiesa.

Una convivenza “assurda”

Roma, però, sceglie inizialmente una via diversa da quella spagnola: non l’espulsione, ma la segregazione. Questa strategia permette da un lato alla società di continuare a godere dei vantaggi economici derivanti dalla presenza di famiglie e intere comunità spesso ben inserite nel tessuto produttivo, commerciale e finanziario delle città, dall’altro di mantenere gli ebrei nel loro scomodo ruolo di testimoni viventi del martirio di Cristo e destinatari delle prediche per la conversione.
Le tappe di attuazione di questa strategia si susseguono in un crescendo drammatico.
Papa Paolo III Farnese (1534-1549) decreta la fondazione a Roma della Casa dei catecumeni, che accoglie e indirizza le persone – principalmente ebrei, in misura minore anche musulmani – convertite spontaneamente o meno al cristianesimo; il suo successore Giulio III del Monte (1550-1555) alterna chiusure e aperture, ma nel 1553 è fautore del grande rogo del Talmud, autodafé culturale che priva le comunità ebraiche italiane di un testo fondamentale.
Ma una repentina, drammatica accelerazione avviene, dopo il brevissimo papato di Marcello II Cervini (1555), con l’elevazione al soglio pontificio di Paolo IV Carafa (1555-1559), prefetto dell’Inquisizione ed esponente della fazione più intransigente della Chiesa. A soli due mesi di distanza dall’elezione, il nuovo papa emana la bolla Cum nimis absurdum (14 luglio 1555), che fin dall’incipit individua come bersaglio la “assurda” pretesa degli ebrei di vivere mescolati fra i gentili, possedere beni immobili, avere persino al proprio servizio personale di religione cristiana: gli ebrei, “condannati da Dio alla schiavitù eterna”, dovranno d’ora in poi portare segni distintivi (un berretto per gli uomini, uno scialle o un velo per le donne), non potranno possedere immobili e avere servitori cristiani. Inoltre, non potranno esercitare il grande commercio né le professioni, ma dovranno accontentarsi di occupazioni umili come quella di straccivendolo. E, soprattutto, dovranno vivere in appositi quartieri – i ghetti – dotati di mura e cancelli.
La Cum nimis absurdum è la prima delle bolle che lo storico Attilio Milano ha definito “infami”, una serie di provvedimenti tesi a piegare le comunità ebraiche dello Stato della Chiesa riducendole a una condizione di subalternità e segregazione.
Nasce così il ghetto di Roma, che non è il primo (a Venezia ne esiste uno già dal 1516) ma sarà l’ultimo a essere abolito in Italia, solo nel 1870. Le famiglie ebree di Roma, circa 2.000 persone tradizionalmente stanziate soprattutto a Trastevere e nel rione di Sant’Angelo, vengono costrette a trasferirsi in un gomitolo di strade; attorno a queste case viene eretto un muro dotato all’inizio di due sole porte che di notte vengono chiuse da guardiani stipendiati a spese degli stessi ebrei. Oggi, come ha mostrato efficacemente Marina Caffiero, sappiamo che nonostante la segregazione i rapporti fra il ghetto e la città – scambi commerciali, culturali, affettivi – sono destinati a sopravvivere, ma la bolla di Paolo IV costituisce ugualmente una frattura epocale.

Fughe e boicottaggi

Il trasferimento nel ghetto, naturalmente, non è l’unica scelta possibile: ci sono famiglie che scelgono la conversione, altre che lasciano lo Stato della Chiesa per trasferirsi nell’Impero ottomano o negli altri Stati italiani. Alcuni principati della penisola, infatti, costituiscono almeno provvisoriamente un rifugio sicuro. Il ducato di Ferrara, in particolare, conta una numerosa e fiorente comunità ebraica la cui presenza è favorita dall’atteggiamento degli Este, che fin dal 1492 per volontà di Ercole I (1471-1505) hanno accolto i marrani fuggiti dalla penisola iberica. Dopo la promulgazione della Cum nimis absurdum il duca Ercole II (1534-1559) invita a Ferrara gli ebrei fuggiti dallo Stato della Chiesa e si oppone alle richieste di Paolo IV, che chiede l’applicazione della bolla anche nel ducato: nonostante alcune concessioni all’ondata di intolleranza che attraversa l’Europa nel corso del secolo, come l’obbligo di portare un segno distintivo decretato da Alfonso I (1505-1534) o il rogo del Talmud nel 1553, Ferrara resterà fino alla devoluzione alla Chiesa (1598) un porto sicuro per gli ebrei di ogni provenienza.
Altrove, anche dall’interno dello Stato della Chiesa si tenta di mettere in atto contromisure volte a contrastare l’azione di Paolo IV. Ad Ancona vive una nutrita comunità sefardita formata da ebrei convertiti portoghesi, che hanno ricevuto da Paolo III e Giulio III un trattamento favorevole arrivando persino a ritornare apertamente alla religione degli antenati: Paolo IV revoca le concessioni fatte dai predecessori e fa imprigionare in massa i marrani ritornati alle tradizioni giudaiche. Una parte di costoro riesce a corrompere il commissario pontificio, che promette di intercedere presso il pontefice ma poi fugge con il denaro ricevuto; una parte è forzata a riconvertirsi al cristianesimo e viene poi imbarcata sulle galere pontificie; venticinque persone, infine, vengono condannate a morte per apostasia e giustiziate nella primavera del 1556. Per tutta risposta, i grandi mercanti ebrei trovano un accordo con il duca di Urbino Guidubaldo II della Rovere (1538-74) e, con il consenso dell’Impero ottomano, organizzano un’operazione di sabotaggio ai danni del porto di Ancona deviando il traffico commerciale su quello di Pesaro. Il tentativo, però, è destinato a fallire: dopo una breve resistenza alle pressioni romane il duca di Urbino si uniforma alla volontà papale ed espelle a sua volta i marrani dallo Stato.

Fra tolleranza e intolleranza

Alla morte di Paolo IV, il nuovo pontefice Pio IV Medici (1559-1565) mitiga in parte i provvedimenti del predecessore: con il breve dell’8 agosto 1561 e con la bolla del 27 febbraio 1562, diretta agli ebrei di Roma, abolisce l’obbligo di portare i segni distintivi durante i viaggi e il divieto di esercitare il commercio, di possedere immobili (ma fino a un valore di 1.500 scudi d’oro) e di prestare denaro.
Questa parentesi ha però breve durata: Pio V Ghislieri (1566-1572) ripristina subito le misure decretate da Paolo IV riportando in auge i segni distintivi, il divieto di possedere immobili e di prestare denaro. E si spinge oltre, decretando con la bolla Hebraeroum gens (26 febbraio 1569) l’espulsione degli ebrei dallo Stato della Chiesa con l’eccezione di Roma e Ancona. Gli effetti del provvedimento sono comprensibilmente drammatici: migliaia di famiglie devono lasciare nuovamente le città del patrimonio di Pietro e intere comunità vengono cancellate, in alcuni casi per sempre.
Il pontificato di Gregorio XIII Boncompagni (1572-1585) è caratterizzato da una politica ambigua: da un lato il nuovo pontefice allenta la pressione sugli ebrei romani, dall’altro vieta loro di esercitare la professione medica sui cristiani, li costringe ad assistere periodicamente alle prediche indirizzate alla loro conversione e dà mandato all’Inquisizione di indagare sulla condotta degli abitanti del ghetto di Roma alla ricerca di false conversioni e presunte offese alla religione cristiana.
Con Sisto V Peretti (1585-1590) si assiste a un radicale cambio di direzione: il pontefice, impegnato a sostenere le finanze dello Stato della Chiesa, incoraggia l’imprenditoria anche ebraica e mette persino a capo della Dataria apostolica un ebreo convertito portoghese, Giovanni Lopez. Inoltre, con la bolla Christiana pietas (22 ottobre 1586) abolisce le norme vessatorie emanate dai predecessori. Il flusso della migrazione si inverte: centinaia di famiglie ebree rientrano nello Stato della Chiesa o vi si stabiliscono ex novo e il ghetto di Roma viene ampliato. Sisto V si segnala anche per il sostegno a un’altra attività fiorente e ampiamente praticata dagli ebrei: l’industria della seta.
Tuttavia, anche questa volta il segnale di tolleranza e riconciliazione da parte del papato è effimero: con Clemente VIII Aldobrandini (1592-1605), altro papa intransigente, ritornano le limitazioni al commercio e persino ai contatti fra gli ebrei convertiti e quelli rimasti nella propria religione. La bolla Caeca et obdurata (25 febbraio 1593) decreta una nuova espulsione dallo Stato della Chiesa con le eccezioni di Roma, Ancona e Avignone. Negli anni successivi il papa mitigherà – anche allo scopo di non penalizzare eccessivamente il commercio fra il porto di Ancona e il Levante – la violenza della prima ora tramite alcuni provvedimenti, ma la strada è ormai segnata.
Nei due secoli successivi i pontefici alterneranno momenti d’intolleranza e di apertura, ma le bolle antiebraiche della seconda metà del Cinquecento sono uno spartiacque nella storia dei rapporti – sempre difficili – fra lo Stato della Chiesa e le comunità ebraiche germogliate al suo interno.

Bibliografia essenziale
Caffiero M., Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Roma, Viella, 2004.
Caffiero M., Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra libri proibiti, eresia e stregoneria, Torino, Einaudi, 2012.
Caffiero M., Storia degli ebrei nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione, Roma, Carocci, 2014.
Foa A., Ebrei d'Europa. Dalla peste nera all'emancipazione, Roma-Bari, Laterza, 1992.
Milano A., Storia degli ebrei d’Italia, Torino, Einaudi, 1992.
Vivanti C. (a cura di), Storia d’Italia, Annali 11, Gli ebrei in Italia: dal medioevo all’età dei ghetti, Torino, Einaudi, 1996.

Crediti immagine: Espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492, Emilio Sala, 1889 (Wikimedia Commons)

The Addams Family

Quella degli Addams è certamente una delle famiglie finzionali più famose nella nostra cultura. Nati nel 1938 dalla fantasia del fumettista del New Yorker Charles Addams, Morticia, Gomez e gli altri sono nel tempo diventati protagonisti di serie televisive, film, cartoni animati, videogiochi, libri.
I loro gusti macabri e un po’ sadici, insieme a uno straordinario affiatamento familiare e a un’ironia tagliente, li hanno resi figure molto amate. Nel loro essere irriducibilmente “non conformi” alla società in cui vivono, hanno spinto il pubblico a interrogarsi sul rapporto con il diverso.
In questa prospettiva, Mercoledì è senz’altro uno dei personaggi che più si è arricchito di risonanze culturali, sociali e identitarie. Bambina tanto sveglia e intelligente quanto crudele e misantropa, è diventata un vero e proprio punto di riferimento nelle subculture di stampo goth, simbolo di un modo di essere donna ribelle, indipendente e libero dal peso del giudizio altrui. 
Su questo immaginario si innesta la Wednesday di Netflix, nota come “la serie di Tim Burton”, ma in realtà ideata da Alfred Gough e Miles Millar, già autori del racconto seriale dedicato al giovane Superman, Smallville (2001-2011). Burton è produttore esecutivo e regista dei primi quattro episodi, ma è indubbio che i legami di Wednesday con l’universo creato nei suoi film siano molto profondi.

Reietti e “normali”

La serie distribuita da Netflix racconta di una Mercoledì ormai adolescente, “reietta” (outcast nell’originale) per definizione, anche quando viene iscritta dai genitori in una scuola speciale, in mezzo ad altri “reietti” come lei. Si tratta della Nevermore Academy, frequentata da tutti coloro che la società tiene ai margini per la loro diversità, come licantropi, sirene, gorgoni. Non si tratta in fondo che di adolescenti, ma le loro caratteristiche sono sufficienti per renderli oggetto di diffidenza e paura, se non addirittura odio, da parte dei cosiddetti normies, i “normali”.
Assumendo per definizione il punto di vista di chi è ritenuto “strano”, la serie mostra il valore della diversità, che si rivela una risorsa per gli studenti della Nevermore, ma nello stesso tempo rivela quanto sia difficile una vera tolleranza nei loro confronti. 

Una memoria parziale

La separazione tra “reietti” e “normali” si sviluppa nella serie anche in termini spaziali: l’accademia, un imponente edificio gotico, si trova isolata in mezzo al bosco, separata dalla cittadina di Jericho. I confini sono tuttavia estremamente porosi: non solo c’è un continuo viavai dall’una all’altra, ma è la normalità stessa a celare dietro l’apparenza i propri fantasmi.
Nonostante questo, l’integrazione tra i due mondi si rivela un percorso complesso e accidentato, mai veramente compiuto. Si arriva al massimo a una convivenza cordiale, che sotto la superficie è però un ribollire di tensioni.
Uno dei motivi è che le radici di tale frattura si radicano nel profondo, intrecciandosi con il tema della memoria. La città di Jericho è infatti sede di “Pilgrim World”, un parco a tema che rievoca le vicende della fondazione della città da parte di un gruppo di coloni guidati da Jospeh Crackstone. La storia locale viene trasformata in un parco divertimenti, che promette a chi lo visita di rivivere il passato. Dolci e pietanze d’epoca, abitazioni ricostruite, costumi, tradizioni: “Pilgrim World” promette un’immersione autentica nella storia, con lo scopo di costruire un senso di continuità e appartenenza. Eppure, tutte queste manifestazioni superficiali occultano una più una profonda rimozione. La storia è infatti narrata da un solo punto di vista, quello dei coloni, il cui insediamento si basa sulla cancellazione di altri soggetti: gli antenati di Mercoledì, un gruppo di persone considerate “diverse”, che abitavano in precedenza quelle terre in armonia con i nativi del posto, e che sono state spazzate via con un vero e proprio genocidio.
Volontaria per un giorno nel parco, Mercoledì non esita a restituire la voce a chi è stato cancellato dalla memoria, ricordando come l’intera operazione di commemorazione costruisca ad hoc una versione della storia americana in cui esistono solo i bianchi. Questo momento della serie fa eco a una scena del film Addams Family Values (1993), secondo dei film girati sugli Addams da Barry Sonnenfeld (il primo era The Addams Family, del 1991). Christina Ricci, nel ruolo di Mercoledì, manda a monte una stucchevole recita di celebrazione del giorno del Ringraziamento, denunciando alla platea quasi interamente bianca le violenze su cui si fonda l’insediamento dei coloni (https://www.youtube.com/watch?v=tJE3KDxTbWI). Deviando dal copione preparato per loro, Mercoledì e un gruppo di ragazzi mettono a fuoco e fiamme il villaggio ricreato per la recita.
In Wednesday il fuoco avvolge, sempre ad opera della giovane Addams, il monumento di Crackstone costruito a Jericho, in cui si cristallizza quella narrazione della storia fondata su violenza e discriminazione. Nel corso della serie, Crackstone si rivela essere l’antagonista più temibile di Mercoledì, poiché il loro rapporto conflittuale non riguarda solo il piano personale. I valori che il colono incarna, il suo odio per il diverso, sono la radice stessa dell’assetto sociale discriminante e razzista che ancora vige nell’universo in cui l’adolescente vive, e da cui il mondo reale non è esente.

Tra horror e teen drama

I temi di tolleranza e integrazione, il discorso sulla memoria e sulla storia nazionale si innestano su un racconto che segue le convenzioni più classiche del genere teen. Adolescente e non più bambina, alle prese con gli anni del liceo, Mercoledì si deve confrontare con tutte le dinamiche che attraversano quell’età della vita: amori e amicizie, alleanze e incomprensioni, e non ultimo un rapporto conflittuale con gli adulti, intesi come portatori di un’autorità cui la ragazza è sempre più insofferente.
Dal punto di vista narrativo e stilistico, in Wednesday il teen drama si contamina a fondo con altri generi: horror, fantasy e crime. I riferimenti a Edgar Allan Poe convivono con le schermaglie amorose, l’immaginario gotico fa da sfondo al percorso di passaggio all’età adulta.
Un’operazione non del tutto inedita, che anzi si pone in diretta continuità con molti titoli della serialità contemporanea, più o meno recente. Se ne potrebbero citare moltissimi, a partire da Stranger Things (2016-). Ma possiamo risalire più indietro, fino a The Vampire Diaries (2009-2017) e Twilight, che pur essendo una serie cinematografica, è molto vicina agli altri titoli citati.
Meritano di essere citati anche il crime teen di Veronica Mars (2004-2019) e Chilling Adventures of Sabrina (2018-2020). Quest’ultima ripropone in versione horror adolescenziale la serie precedente, Sabrina, the Teenage Witch (1996-2003), che aveva invece i tratti della sitcom. A sua volta le avventure di Sabrina sono ambientate nell’universo narrativo di Riverdale (2017-2023) in cui convivono teen drama, thriller e fantasy.
A fare da capostipite è senz’altro Buffy the Vampire Slayer (1997-2003), la cui protagonista è una cacciatrice di vampiri che finisce per innamorarsi di uno di loro. Di nuovo si mescolano teen, horror, fantasy, cui si aggiunge un debito importante verso il cinema di arti marziali. Nelle sue bellissime pagine su questa serie, Franco La Polla mette in luce il funzionamento profondo di questa commistione: «I problemi sono sempre gli stessi: la scuola, l’amore, la famiglia, insomma quello che ritroviamo di solito in una qualunque soap opera o sit-com con protagonisti adolescenti (Happy Days docet). In quell’universo quando succedeva qualcosa di anomalo si trattava in genere di ragazzi che avevano fatto il passo più lungo della gamba, scelte un po’ avventate, fantasie adolescenziali, piccole vanterie e relativi nodi che venivano al pettine. Qui invece l’anomalo […] è la caccia ai vampiri, il confronto con demoni delle più diverse specie, la lotta con poteri infernali terrificanti» (F. La Polla, L’apocalisse come Weltschmerz. Le radici culturali di Buffy, in B. Maio (a cura di), Buffy The Vampire Slayer. Legalizzare la Cacciatrice, Bulzoni, Roma 2007, p. 82). Tanto che a un certo punto, continua La Polla, «incominciamo a pensare che i mostri del passato non siano altro che la metafora di tutte le cose paurose che l’adolescenza affronta nei suoi pensieri sul presente e sul futuro» (Ivi, pp. 85-86).
Wednesday raccoglie questa eredità e la declina in un personaggio che del lato oscuro ha fatto una preferenza esistenziale, ma che apprenderà che esistono paure e timori più profondi, che non si possono controllare e che fanno parte del percorso di crescita di ciascuno, che sia outcast o “normie”.


(Crediti immagine: Pixabay)

REGINA: Amleto, tu hai molto offeso tuo padre
AMLETO: Madre, tu hai molto offeso mio padre

W. Shakespeare, Amleto

 

L’anaclasi, o antanaclasi, è una parente stretta della diafora ed è la figura che usiamo ogni volta che vogliamo – e lo dico usando una metafora – rivoltare la frittata, vale a dire quando rispediamo al mittente una frase che ha appena pronunciato. Attenzione però: facendolo, ne ribaltiamo completamente il senso – dunque bisogna usare questa figura con cautela.
Prendete l’esempio tratto dall’Amleto che c’è in esergo. Sono due frasi quasi in fotocopia, ma la loro ripetizione modifica completamente il senso e, soprattutto, cambia il colpevole. Nella prima frase, il colpevole dell’offesa è Amleto, nella seconda la madre. Ma c’è un altro aspetto, più sottile e interessante, legato all’enfasi.
Immaginate di essere degli attori e di mettere in scena questo scambio di battute su un palcoscenico: chi pronuncia la frase della madre dovrà mettere tutta l’enfasi sulle parole  “tuo padre”, perché la regina sta accusando Amleto di averlo offeso, e tutto il peso e l’importanza di questa accusa stanno nel sottolineare chi è la persona che è stata offesa; nella risposta di Amleto, invece, l’enfasi è sul “tu”, perché qui non è più così importante sapere chi sia l’offeso (lo sappiamo già): è importante che sia chiaro chi ha recato offesa, cioè la regina.
Dunque si tratta di due frasi sostanzialmente uguali, il cui senso però, è opposto.


(Crediti immagine: EliFrancis, Pixabay)

«Quand'anche l'intera umanità, a eccezione di una sola persona, avesse una certa opinione, e quell'unica persona ne avesse una opposta, non per questo l'umanità potrebbe metterla a tacere: non avrebbe maggiori giustificazioni di quante ne avrebbe quell'unica persona per mettere a tacere l'umanità, avendone il potere.»

John Stuart Mill 1859 in On Liberty

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.»

Art. 3 Costituzione

Dal padre del liberalismo moderno al terzo articolo della nostra costituzione la tolleranza nei confronti di chi esprime idee, opinioni, orientamenti diversi dai nostri, di chi ha colore della pelle, religione e origini diversi dai nostri, è alla base della convivenza civile, eppure siamo ancora molto lontani da questa ideale situazione.
Secondo Mill solo a paesi che abbiano raggiunto la maturità, nei quali cioè "si possa migliorare per mezzo di una discussione libera e paritaria", si addice "la libertà di coscienza nel senso più ampio, cioè come libertà di pensare e di sentire, libertà assoluta di opinione e sentimento su qualsiasi tema, pratico o speculativo, scientifico, morale o teologico". Molto probabilmente la maggior parte dei paesi non hanno ancora raggiunto questa maturità.
Diversi artisti contemporanei si interrogano sui motivi delle diseguaglianze, delle ingiustizie e della mancanza libertà della quale da secoli si parla ma ancora non è raggiunta. Fra loro quattro donne, ognuna impegnata a mostrare la necessità di tolleranza della società odierna.

Shirin Neshat

Fotografa e videoartista iraniana, nata a Qazvin nel 1957, esplora la complessità delle condizioni sociali all'interno della cultura islamica con uno sguardo particolare al ruolo della donna e alle sue condizioni nel suo paese di origine.

Oggi Neshat vive a New York ma il suo sguardo è sempre all’Iran. Nel 1974 si trasferì negli Stati Uniti per un periodo di studio e, in seguito alla rivoluzione islamica, vi rimase in esilio.
I suoi primi lavori sono fotografie in bianco e nero di donne velate e primi piani delle uniche parti del corpo che restano scoperte dall’abito tradizionale imposto, come mani, piedi e volti, sui quali l’artista scrive in farsi, la sua lingua originaria, versi di poetesse iraniane contemporanee che combattono per la propria affermazione.

Nelle sue foto sono presenti spesso anche le armi che rendono ancora più dense e significative le immagini: le donne fotografate sono infatti delle guerriere pronte a combattere in nome della propria identità e della propria libertà.
Nel 1999 Shirin Neshat è stata premiata alla Biennale Arte di Venezia per le installazioni video Turbulent e Rapture e, successivamente, nel 2009 ha ottenuto il Leone d’Argento al Festival del Cinema di Venezia con il lungometraggio Donne senza Uomini. Oggi non ha smesso di gridare i diritti delle donne e di mostrare come vengono calpestati. Nella serata del 4 ottobre dello scorso anno, per esempio, contemporaneamente a Piccadilly Circus a Londra e al Pendry West Hollywood di Los Angeles, è stata presentata l’opera d’arte digitale Woman Life Freedom in segno di protesta per la morte di Mahsa Amini in un ospedale iraniano dopo essere stata detenuta dalla polizia morale del regime con l’accusa di non aver rispettato le norme su come indossare l’hijab (il velo).

Il lavoro unisce due opere di Neshat della serie Women of Allah (1993-97): in una due mani rivolte in segno di offerta sono ricoperte da scritte in calligrafia persiana e stringono due proiettili da fucile, nell’altra, l’autoritratto Unveiling (1993), il volto dell’artista è coperta di versi della poetessa e documentarista persiana Forough Farrokhzad.

Donne Senza Uomini - trailer ufficiale - vincitore del Leone d’argento a Venezia nel 2009
https://www.youtube.com/watch?v=saI2YubuWfU

Servizio della Televisione svizzera sull’opera filmica dell’artista
https://www.rsi.ch/cultura/focus/Shirin-Neshat-14950371.html 

Shilpa Gupta

Se la società impone confini fra popoli, idee, territori e pensieri, l’artista indiana Shilpa Gupta li ha indagati e ne ha dimostrato attraverso l’arte l’inesistenza reale, le funzioni arbitrarie e insieme repressive. Il suo lavoro sfida le nozioni prevalenti di identità culturale individuale e collettiva.
Tutta la sua opera è incentrata sullo smontare pezzo per pezzo i limiti e le separazioni che la società impone fra identità culturali, comunità locali, ideologie religiose, appartenenze etniche. Per farlo usa tutti i mezzi espressivi a sua diposizione dall’installazione alla performance, dal disegno al video, dalla scultura al testo.
L'installazione sonora For, in your tongue, I cannot fit, esposta alla biennale di Venezia nel 2019, affronta la violenza della censura attraverso una sinfonia di voci registrate che recitano o cantano i versi di 100 poeti imprigionati per i loro scritti o per le loro posizioni politiche dal VII secolo a oggi. Entrando nello spazio poco illuminato, i visitatori si imbattono in 100 microfoni sospesi sopra altrettante aste metalliche, ognuna delle quali ha infilzato un verso di una poesia. Ogni microfono recita a turno un frammento delle parole dei poeti, pronunciate prima da una singola voce e poi riecheggiate da un coro che si sposta nello spazio. Le parole dei poeti emergono da microfoni dotati di altoparlanti, un dispositivo che Gupta ha adottato in opere precedenti per ricordarci che il microfono non è semplicemente qualcosa in cui parlare, ma un mezzo per trasmettere su larga scala. Qui i microfoni danno letteralmente e simbolicamente voce a coloro che i regimi di tutto il mondo hanno cercato di mettere a tacere.
I suoi lavori sono così coinvolgenti perchè spesso invitano il pubblico a partecipare, a farsi autore dell’opera esso stesso e a porsi come soggetto per avviare una comprensione empatica. Le sue opere scuotono gli spettatori mostrando come siamo tutti, in certo senso, complici dei meccanismi dei grandi apparati di potere. La partecipazione del pubblico gioca un ruolo cruciale nella formazione e nell'evoluzione del lavoro di Gupta, poiché sono gli spettatori stessi ad esserne parte attivando un cambiamento di contesto, sia a livello individuale che pubblico, che modifica l’opera.
Lei stessa definisce il suo lavoro arte di tutti i giorni «perché non amo che sia costretta all’interno di una sola definizione, come forse qualcuno vorrebbe. In questa maniera sono autorizzata a dire che è un’arte che appartiene a tutti. Non ha limiti. L’intersoggettività, in questo modo, dà forma al lavoro ed è dettata dalle nostre scelte, che certe volte sono casuali. La vita è costantemente fluida e anche noi cambiamo in relazione agli altri. Questo è il senso della relazione con l’intersoggettività: qualcosa che non è monolitico».

Per approfondire: http://shilpagupta.com/

Kara Walker

«Io cerco di unire tanti elementi apparentemente distanti fra loro: la violenza con la comicità, il sesso col razzismo, il mito della sicurezza e le fobie contemporanee. Non riesco a vedermi in una biblioteca polverosa a cercare informazioni rilevanti solo per me, il mio è un lavoro per la collettività».
Kara Walker è un’artista afroamericana le cui opere si impongono così prepotentemente all’occhio e alla coscienza dello spettatore e la cui arte è così impegnata nel combattere gli stereotipi razzisti ancora presenti nella società contemporanea, che nel 2007 è comparsa nella lista delle cento persone più influenti dell’anno per la rivista Time.
Kara Walker è nata nel 1969 in California ma si trasferisce adolescente insieme alla famiglia in Georgia, nel profondo sud, dove studia all’Atlanta College of Art e dove si trova ben presto a dover combattere il razzismo del luogo. Le sue opere raccontano di ingiustizie e soprusi attraverso l’installazione, il disegno, la miniatura, il video, il wall drawing fino alla creazione di lanterne magiche, marionette e ombre cinetiche. Ma l’artista è famosa in tutto il mondo per le sue silhouette, figure nere semplici e sinuose che visualizzano i contorni e lasciano solamente intuire i dettagli ma che sono al contempo profondamente turbanti.

La modalità con cui Walker narra le sue storie è semplice e diretta: rielabora gli stereotipi attraverso i quali i bianchi usavano rappresentare gli schiavi alla fine del XIX secolo e ne ribalta il significato. Usando la retorica bianca racconta di torture ed esecuzioni, stupri e violenze ambientati in contesti bucolici e apparentemente rassicuranti.

Fons Americanus (“fontana americana”) per esempio, esposta nel 2019 nella turbine hall della Tate Modern a Londra, ribalta la prospettiva del Memoriale della Vittoria di Buckingham Palace, sbeffeggiando la gloria dell'Impero britannico e commemorandone le vittime. È una fontana realizzata con un materiale che richiama il marmo, alta 13 metri, composta da figure non ben delineate che in modo inquietante spruzzano acqua dagli occhi, dai seni o dalla giugulare.

A Subtlety, or the Marvelous Sugar Baby (2014) invece è un’installazione temporanea allestita nella fabbrica Domino Sugar di Brooklyn prima della sua demolizione composta da una gigantesca sfinge in polistirene ricoperta di zucchero che richiama lo stereotipo razzista della “mammy”, circondata da figure infantili scure che portano cestini e banane. L'installazione riscosse grande successo fra il pubblico e la critica che comprese la forza e la capacità dell’opera di Kara Wolker di suscitare un dibattito sui temi razziali e sulla mercificazione della donna nera.

Nan Goldin

Le immagini di questa artista, simbolo dell’era post-moderna, non hanno bisogno di molte spiegazioni. Nata negli stati uniti nel 1953 Nan Goldin ha vissuto e raccontato la sfrenatezza degli anni ‘80 non da osservatrice ma da vera protagonista. Le sue immagini rappresentano una netta rottura con la tradizione fotografica precedente, quella degli anni ‘60 e ’70 in cui c’era senza dubbio un interesse ai temi sociali e urbani ma nella quale essi venivano mostrati “da fuori” in modo distaccato, reportagistico. Nan Goldin fa della sua stessa vita un diario pubblico che, giorno per giorno, minuto per minuto, racconta un’intera generazione allo sbando, all’ombra di un occidente benestante e capitalista, fra sesso, droga e rock'n'roll.

La serie che fra tutte più rispecchia questo suo modo di lavorare è The Ballad of Sexual Dependency, una raccolta composta da circa 700 immagini scattate tra il 1979 e il 1985, nelle quali Goldin ha fermato le sue esperienze personali negli ambienti underground di New York: la sottocultura gay, l'eroina, il sesso estremo, le drag queen. L’artista trasforma così l'istantanea familiare e intima in un genere artistico. La maggior parte dei protagonisti di Ballad, morirà negli anni Novanta, per overdose o AIDS. Come fa notare Silvia Mazzucchelli in un articolo su Doppiozero, l’immagine di Nan Goldin è quella che Roland Barthes definisce l’analogon perfetto, ovvero la “perfezione analogica”, “un messaggio senza codice”, e di conseguenza immediato, diretto. E le sue stesse parole lo confermano: “la fotocamera è parte della mia vita quotidiana come parlare, mangiare o il sesso”. Vita e fotografia coincidono. Le sue immagini ci arrivano dritte al cuore e ci catapultano in una realtà di eccessi e di emarginazione che, anche se non conosciamo, viviamo insieme a lei per il tempo in cui le guardiamo: la fotografia si fa esperienza non osservazione.

A metà degli anni Novanta il Whitney Museum of American Art le dedica la sua prima importante retrospettiva di mezza carriera, che sancirà il suo successo sulla scena artistica contemporanea. Dal 1995 il lavoro di Goldin si allarga anche ad altri temi sociali e nuove collaborazioni: progetti di libri con il fotografo giapponese Nobuyoshi Araki, skyline di New York, paesaggi, foto di bambini, famiglie biologiche, genitorialità.

Negli ultimi anni poi la sua arte è diventata attivismo, dopo un passato di droghe pesanti e anni di riabilitazione, nel 2017 Goldin ha rivelato che si stava riprendendo dalla dipendenza da oppioidi e in particolare dal farmaco OxyContin, assunto come antidolorifico per una tendinite. Uscita dalla dipendenza scoprì le responsabilità della famiglia Sackler, proprietaria della società farmaceutica Purdue Pharma e produttrice di OxyContin, per l’immissione sul mercato di un farmaco che crea dipendenza e che ha causato migliaia di morti e con altri attivisti ha intrapreso diverse azioni per portare a conoscenza del mondo questa storia soprattutto all’interno di musei che beneficiavano dei generosi finanziamenti della famiglia come Metropolitan Museum of Art, il Guggenheim di New York,  il Louvre, il Victoria and Albert Museum di Londra. A seguito di quest'opera di sensibilizzazione, molte istituzioni, come la National Portrait Gallery di Londra, hanno rifiutato le donazioni dei Sackler. Nel 2019 la Purdue Pharma si è dichiarata colpevole e ha chiuso con un risarcimento da 8 miliardi di dollari.


Crediti immagine: ©Archivio Storico della Biennale di Venezia – ASAC
Fotografo Italo Rondinella

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Shirin Neshat
Rebellious Silence, 1994
RC print & ink
46 5/8 x 43 3/4 inches (118.4 x 111.1 cm)
© Shirin Neshat
Courtesy of the artist and Gladstone Gallery

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Shirin Neshat
Untitled, 1996
RC print & ink
53 1/4 x 37 3/4 inches (135.3 x 95.9 cm)
© Shirin Neshat
Courtesy of the artist and Gladstone Gallery

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Shirin Neshat
Rapture Series, 1999
Color photograph
24 1/2 x 31 1/2 inches (62.2 x 80 cm)
© Shirin Neshat
Courtesy of the artist, Gladstone Gallery, and Noirmontartproductions, Paris

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Shirin Neshat
Rapture, 1999
Film Still
© Shirin Neshat
Courtesy of the artist, Gladstone Gallery, and Noirmontartproductions, Paris

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Artwork © Kara Walker, courtesy of Sikkema Jenkins & Co. and Sprüth Magers
A Subtlety, or the Marvelous Sugar Baby, an Homage to the unpaid and overworked Artisans who have refined our Sweet tastes from the cane fields to the Kitchens of the New World on the Occasion of the demolition of the Domino Sugar Refining Plant, 2014
Polystyrene foam, sugar
Approx. 35.5 x 26 x 75.5 feet (10.8 x 7.9 x 23 m)
Installation view:
Domino Sugar Refinery, A project of Creative Time, Brooklyn, NY, 2014
Photo: Jason Wyche

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©Archivio Storico della Biennale di Venezia – ASAC
Fotografo Italo Rondinella

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Artwork © Kara Walker, courtesy of Sikkema Jenkins & Co. and Sprüth Magers
Installation view:
Drawings, Sikkema Jenkins & Co., New York, 2020
Photo: Jason Wyche

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Artwork © Kara Walker, courtesy of Sikkema Jenkins & Co. and Sprüth Magers
Fons Americanus, 2019
Non-toxic acrylic and cement composite, recyclable cork, wood, and metal
Main: 73.5 x 50 x 43 feet (22.4 x 15.2 x 13.2 meters)
Grotto: 10.2 x 10.5 x 10.8 feet (3.1 x 3.2 x 3.3 meters)
Installation view:
Hyundai Commission: Kara Walker – Fons Americanus, Tate Modern, London, UK, 2019
Photo: Tate (Matt Greenwood)

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Artwork © Kara Walker, courtesy of Sikkema Jenkins & Co. and Sprüth Magers
Fons Americanus, 2019
Non-toxic acrylic and cement composite, recyclable cork, wood, and metal
Main: 73.5 x 50 x 43 feet (22.4 x 15.2 x 13.2 meters)
Grotto: 10.2 x 10.5 x 10.8 feet (3.1 x 3.2 x 3.3 meters)
Installation view:
Hyundai Commission: Kara Walker – Fons Americanus, Tate Modern, London, UK, 2019
Photo: Tate (Matt Greenwood)

È forse la cosa più difficile: essere tolleranti sembra ovvio, scontato, eppure…  Eppure, alla prima occasione di scontro, ecco che una vocina dentro di noi si riaccende: ma io con queste persone, con queste idee non voglio aver nulla a che fare! Io sono dalla parte del giusto, tutti quelli che la pensano come me sono dalla parte del giusto, gli altri evidentemente non hanno studiato abbastanza, non leggono, non guardano i programmi intelligenti, si fanno influenzare dai social, sono vittime di stereotipi eccetera eccetera. Sì, essere tolleranti è davvero difficile, proprio e anche perché esistono idee giuste e idee sbagliate, ma riconoscere il giusto e lo sbagliato non è mai un’operazione indolore. E se anche noi, mentre critichiamo gli altri, fossimo vittime di pre-giudizi uguali e contrari? Se anche noi, mentre ci riteniamo apertissimi, fossimo in realtà prigionieri di false idee, mancanza di apertura mentale, antipatia per tutto quello che contrasta la nostra “routine di pensiero”? Ecco, il cinema può essere un buon antidoto all’apatia intellettuale, soprattutto quando è capace di mettere alla berlina quelle che i francesi chiamano le “idées reçues”, i preconcetti  che hanno la diabolica forza di presentarsi come verità granitiche. Analizziamo alcuni esempi, scelti questa volta in gran parte tra produzioni particolarmente recenti (in diversi casi ancora in sala).

La cospirazione del Cairo, di Tarik Saleh, Svezia 2022

L’Egitto dei nostri giorni. Un Paese con il quale non si può evitare di avere rapporti importanti, vista la sua posizione chiave nel Mediterraneo; ma, allo stesso tempo, un Paese che pone gravissimi interrogativi sul tema della tolleranza e del rispetto dei diritti civili (basti ricordare, per noi italiani, i casi Regeni e Zaki). In questo film, realizzato per ovvi motivi fuori dai confini nazionali (la produzione è svedese), l’attenzione è posta in particolare sul difficile rapporto tra potere civile e autorità religiose. Da una parte l’onnipotente polizia segreta, con i suoi mille informatori e la sua violenza; dall’altra il più importante centro culturale dell’Islam, l’Università Al Azhar del Cairo, sempre a rischio di essere infiltrata dai fondamentalisti. È quasi impossibile distinguere tra “buoni” e “cattivi”, tracciare un solco netto, così come ci ha abituati tanto cinema americano. I poliziotti rispondono direttamente ai più alti gradi politici (e non dimentichiamo che il Presidente, il generale al Sisi, è al potere dal 2014 in seguito a un colpo di Stato militare) e in pratica non hanno nessun limite al loro operato, praticando torture e assassini. Dall’altra parte, però, il pericolo rappresentato dai fondamentalisti è fortissimo, e pone in difficoltà anche le cariche religiose che vogliono tenere l’università e la società tutta al riparo da derive terroristiche. La vicenda del giovane studente protagonista, il figlio di un giovane pescatore che arriva nella capitale dopo aver vinto una borsa di studio, riassume compiutamente questo dissidio. Suo malgrado, si troverà a giocare un ruolo importante nella lotta in corso, rischiando però di esserne letteralmente stritolato.

Un uomo felice, di Tristan Séguéla, Francia 2023

Dal dramma alla commedia. Il cinema francese ha una particolare abilità nel trattare i temi più impervi, quelli che possono scatenare discussioni infinite e spesso devastanti, riuscendo a trovare una chiave leggera, ironica, pungente, ma capace nello stesso tempo di far sorridere. Invece di accapigliarsi sulla problematica del cambio di sesso, ecco che il film si inventa la storia paradossale di una matura, e benestante, coppia di famiglia. Lui (Fabrice Luchini, una “colonna” del grande schermo transalpino) è il rispettato sindaco, ovviamente un po’ maneggione, di una tranquilla cittadina di provincia alle prese con quello che ritiene, al momento, essere un grosso problema: far “digerire” alla moglie la sua decisione di correre per un nuovo turno elettorale. Non sa, il tapino, che la consorte gli sta preparando ben altro imprevisto: ha infatti da tempo iniziato, all’insaputa della famiglia, un percorso per cambiare sesso…  Alla sua età? Senza che ci siano stati in passato segni premonitori? Chiaro, il punto di partenza è volutamente paradossale, ma quello che conta sono le reazioni delle persone che le stanno vicino. Su quella del marito non ci sono dubbi: per poco non gli viene un coccolone! Ma i figli? E i vicini? E gli elettori? Provincia o metropoli, è dura confrontarsi con una realtà che, improvvisamente, cambia in modo radicale. C’è chi si stupisce, chi pensa che il mondo sia diventato una gabbia di matti, chi è possibilista. Il dibattito è aperto, e per una volta divertirsi non solo è permesso, ma fortemente consigliato.

Non sposate le mie figlie!, di Philippe de Chauveron, Francia 2014

Altro giro, altra commedia. Stavolta l’ambito in cui si mette a prova la tolleranza è quello del confronto etnico. Ancora la Francia, uno dei maggiori laboratori europei di una società “plurale”, alle prese da decenni con i problemi dell’integrazione, con le ricorrenti turbolenze delle banlieue, le degradate periferie urbane. Ma nella grande famiglia al centro del film tutti i problemi in questo campo sembrano (sembrano…) risolti. Papà e mamma hanno quattro figlie, tre delle quali si sono sposate rispettivamente con un arabo, un ebreo e un asiatico: più aperti di così… E adesso anche la quarta figlia ha annunciato le sue nozze e, per la gioia dei genitori, sarà finalmente con un cattolico: in effetti, un cattolico mancava ancora nel gruppo! Solo che… solo che quando il cattolico viene infine presentato, si scopre essere un ragazzo della Costa d’Avorio. Dunque gli “apertissimi” genitori ora avranno un genero nero, la qual cosa mette abbastanza a dura prova la loro supposta apertura mentale. Senza considerare poi che impigliati nei di pregiudizi saranno, a turno, tutti i componenti del gruppo, l’arabo, l’ebreo, l’ivoriano, l’asiatico e diversi dei componenti delle rispettive famiglie. Che gran guazzabuglio è il mondo, e com’è davvero difficile “essere” tolleranti nei fatti, oltre che dichiararsi tali a parole..

As bestas – La terra della discordia, di Rodrigo Sorogoyen, Spagna, Francia 2022

Un dramma, due commedie, e ora di nuovo una vicenda a tinte fosche. La storia, come purtroppo capita spesso nella vita reale, parte dalle migliori intenzioni. Una coppia di mezza età francese ha deciso di trasferirsi in Spagna, fra i monti della Galizia, alla ricerca di una sorta di Eden perduto: coltivano la terra, vendono i loro prodotti naturali nei mercatini della zona, ristrutturano case abbandonate nella speranza di rivitalizzare il villaggio, colpito dallo spopolamento. E dunque, dovrebbero essere ben visti dai locali… Invece no, perché un grande gruppo energetico norvegese sta progettando di installare gigantesche pale eoliche, dietro la promessa di un po’ di quattrini. Non molti, per la verità, ma fanno gola a chi ha sempre vissuto una vita magra e non vede altre prospettive per il futuro. Dunque è questa la miccia che fa scoppiare l’intolleranza feroce verso quel “francesino” che è venuto a guastare i piani di chi, a ogni costo, vuole vendere i terreni per emigrare il più lontano possibile. Un sogno utopico contro la dura realtà della miseria. Forse, se si parlassero potrebbe essere possibile trovare un compromesso. Ma la contesa è subito aspra, dai dispetti si passa alle azioni violente, non si vede una via d’uscita. Città-campagna, persone istruite contro contadini distrutti alla vita, due idee completamente differenti del domani. Un film durissimo, come durissima può essere la vita. Un film che ci mette in guardia dal pensare che si possa sempre uscire dai conflitti. Un film che inquieta e dà profondamente da riflettere.

Popiełuszko – Non si può uccidere la speranza,  di Rafal Wieczynski, Polonia 2009

Intolleranza politica. Sono passati poco più di trent’anni da quando sono cadute le feroci dittature comuniste che hanno per lungo tempo oppresso i Paesi dell’Est Europa, ma quella tragedia tende spesso a essere dimenticata. Negli Stati satellite dell’Unione Sovietica, dalla fine della Seconda guerra mondiale all’inizio degli anni ‘90 nessuna libertà era concessa: vietato avere idee differenti dai Partiti comunisti al potere, vietato scioperare, spesso addirittura vietato seguire il proprio credo religioso. Un immenso carcere a cielo aperto, dal quale moltissime persone volevano solo fuggire. Ma non tutti avevano perso la speranza, e continuavano a lottare. Fra loro il sacerdote polacco del titolo, Jerzy Popiełuszko, che seppe unire  la pratica religiosa alle dure e pericolose battaglie insieme al sindacato Solidarnosc, protagonista della rivolta polacca contro la dittatura. Raccontando la vita di questo prete coraggioso, ucciso il 19 giugno 1984 dagli agenti della polizia segreta (e poi beatificato il 6 giugno 2010 da Papa Benedetto XVI) il film racconta una feroce storia di intolleranza, di mancanza di rispetto, tanto più grave in quanto accaduta all’interno di un regime che si autoproclamava difensore dei diritti dei lavoratori e delle classi più svantaggiate. Il finale della vita del sacerdote è tragico, sembra segnare la vittoria della violenza e della prevaricazione; ma è anche grazie al suo coraggio e alla sua morte (ai funerali parteciparono oltre 400milapersone) che la Storia della Polonia e di tutti gli altri Paesi dell’Est ha preso, infine, la via della libertà.


Crediti immagine: Pixabay

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