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Le regole della Rivoluzione

La letteratura può essere strumento del potere: è il caso del Realismo socialista, una corrente guidata dallo scrittore Maksim Gor’kij e da Andrej Ždanov che imponeva agli scrittori russi una serie di regole da rispettare al fine di produrre libri e storie funzionali al regime comunista

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L’Unione degli scrittori

Nel 1932, per volere del Comitato centrale del Partito comunista dell’Unione sovietica, fu creata in Russia un’associazione chiamata Unione degli scrittori sovietici. Il Partito aveva da poco approvato una risoluzione per la «ricostruzione delle organizzazioni artistiche e letterarie» e, attraverso questa sorta di sindacato, o di lobby, mirava a controllare dall’alto la produzione letteraria del Paese. Erano tenuti a entrare nell’organizzazione tutti quegli scrittori, critici e traduttori che avevano «intenzione di pubblicare» e che, allo stesso tempo, si impegnavano nell’edificazione letteraria del socialismo. (Ho scritto che gli autori «erano tenuti a entrare nell’organizzazione» con la consapevolezza di usare un eufemismo: fu ben presto chiaro, infatti, che chi non faceva parte dell’Unione degli scrittori non avrebbe avuto la possibilità di rendere pubbliche le proprie opere e sarebbe stato messo ai margini della vita letteraria ed editoriale dell’Urss).

A presiedere l’Unione fu nominato Maksim Gor’kij, amico personale di Lenin e Stalin, autore prolificissimo e compagno di strada della Rivoluzione. Nel 1907, Gor’kij aveva scritto un romanzo, La madre, che sarebbe diventato, intorno alla metà degli anni Trenta, la pietra miliare su cui il regime avrebbe fondato la teoria letteraria che avrebbe dominato tutto il periodo rivoluzionario e che prende il nome di Realismo socialista.

La madre e la nascita del Realismo socialista

La madre, scritto in epoca zarista, quando ancora le prime organizzazioni rivoluzionarie erano costrette a operare in clandestinità, racconta la vita di una donna, Pelageja Vlasova, e di suo figlio Pavel. Pavel è un operaio ed è socialista: ospita nella casa in cui vive con la madre le riunioni clandestine di un gruppo di rivoluzionari. I ragazzi diffondono opuscoli in cui invitano il popolo russo a sollevarsi, ribellandosi allo zar. Quando il figlio e i suoi amici vengono arrestati dalla polizia zarista, Pelageja decide di proseguire la loro battaglia per il socialismo: diffonde volantini, sobilla i suoi concittadini, partecipa attivamente a una sommossa popolare repressa nel sangue, e lì perde la vita. Ma è ormai un simbolo della rivolta contro l’oppressore e, in questo senso, è madre di tutti i giovani che non accettano di essere assoggettati allo zar.

La madre, per approfondire: http://www.noidonne.org/articolo.php?ID=02257

Il libro di Gor’kij è il romanzo socialista perfetto, poiché racchiude, nella storia come nei personaggi, nel suo significato politico come in quello simbolico, tutte le caratteristiche che il Realismo socialista avrebbe fatto proprie. Nel 1934, si tenne a Mosca il primo congresso dell’Unione panslava degli scrittori sovietici: l’80% dei membri del Comitato direttivo eletto durante il congresso era iscritto al Partito. Lì, durante i lavori, furono dettate le regole che gli scrittori avrebbero dovuto seguire per scrivere romanzi socialisti. Andrej Ždanov, bolscevico della prima ora, tenne un discorso in cui, tra l’altro, disse che «Il realismo socialista quale metodo fondamentale della letteratura e della critica letteraria sovietica esige dall’artista un quadro autentico, storicamente concreto della realtà vista nel suo sviluppo rivoluzionario. Pertanto l’autenticità e la concretezza storica dell’espressione artistica della realtà devono corrispondere al compito di riformare le idee e di educare i lavoratori nello spirito del socialismo».

Gli scrittori dovevano diventare, secondo il volere di Stalin e del Partito, degli «ingegneri di anime». Che cosa significa? Ancora Ždanov: «conoscere la vita del popolo per poterla rappresentare verosimilmente nelle opere d'arte, rappresentarla niente affatto in modo scolastico, morto, non semplicemente come la “realtà oggettiva”, ma rappresentare la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario. E qui la verità e il carattere storico concreto della rappresentazione artistica devono unirsi al compito di trasformazione ideologica e di educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo. Questo metodo della letteratura e della critica è quello che noi chiamiamo il metodo del realismo socialista».

Detto altrimenti: attraverso una rappresentazione verosimile della realtà sovietica, gli scrittori devono costruire romanzi che educhino il popolo al socialismo: l’arte socialista deve essere semplice, comprensibile da tutte le classi sociali – devono poter leggere romanzi i contadini e gli operai, gli studenti e i lavoratori; deve essere ottimista, e raccontare dunque il glorioso percorso verso l’edificazione del comunismo; deve essere esemplare: i suoi protagonisti devono avere un alto senso morale (non devono bere, devono rispettare le donne, amare il lavoro e la patria) e ogni loro sforzo deve tendere alla costruzione di un mondo migliore; deve, soprattutto, essere d’accordo con i dettami del Partito.

Vita e opere di Andrej Ždanov, massimo promotore del Realismo socialista: http://www.ovo.com/andrej-zdanov/

La nuova concezione della realtà

La politica culturale staliniana andava in parallelo con la trasformazione di tutti gli strati della vita sovietica, dall’agricoltura (con la collettivizzazione e la liquidazione dei kulaki, i contadini arricchiti) all’industria (con i piani quinquennali, la costruzione di nuove e gigantesche fabbriche) alla quotidianità. In questa nuova concezione della realtà, il compito degli scrittori doveva essere quello di studiare la nuova realtà visitando i cantieri, le dighe, le nuove industrie e radunando e utilizzando per le loro opere materiali che avevano a che fare con i processi di produzione. Il significato implicito di queste operazioni risiedeva nel fatto che queste narrazioni dovevano conferire dignità storica e letteraria al lavoro di Stalin: in sostanza, la letteratura veniva modellata dal potere per legittimare il potere.

Il ruolo della letteratura, in questo processo, doveva essere quello di educare il popolo a vivere e a comportarsi secondo la volontà del Partito. I sovietici dovevano leggere opere che, sotto le mentite spoglie di un’avventura, davano loro norme per il vivere comune: attraverso i romanzi, il cinema, le opere teatrali, le mostre e, va da sé, i libri scolastici, si proponevano modelli e si diffondevano le idee fondamentali dello stalinismo: la coscienza ideologica, la lealtà al Partito, lo spirito nazionale.

Anche l’arte si conformò al Realismo socialista. Aleksandr Dejneka fu un pittore apprezzatissimo dal regime: http://www.palazzoesposizioni.it/categorie/mostra-000

La “grammatica” del Realismo socialista

Ma come dovevano esser fatti, questi romanzi socialisti?

Un autore che intendeva pubblicare doveva modellare il testo sulla base di alcuni accorgimenti linguistici (con l’utilizzo di epiteti, luoghi comuni e immagini riconoscibili) e strutturali pressoché fissi (esisteva un protocollo per la strutturazione degli eventi narrativi, che dovevano susseguirsi secondo un ordine convenzionalmente stabilito). Costruire un romanzo seguendo tali accorgimenti era sinonimo di lealtà verso lo Stato.

La maggior parte dei romanzi stalinisti degli anni Trenta è ambientata nel presente ma, allo stesso tempo, include delle «prospettive future»: vale a dire che, pur raccontando l’Unione Sovietica degli anni Trenta, mostrano come il marxismo-leninismo avrebbe presto superato i problemi della vita quotidiana traghettando la nazione verso il comunismo.

Anche le trame si assomigliano un po’ tutte (e assomigliano alla Madre di Gor’kij), tanto che è possibile delineare un modello di storia valido per (quasi) tutti i romanzi organici dell’epoca: nelle pagine iniziali, l’eroe viene presentato come un personaggio che ha un dovere da compiere nel contesto della vita pubblica del Paese; tale dovere ha solitamente a che fare con temi come l’integrazione sociale (nella nuova società staliniana), e la ricerca, strettamente connessa alla questione dell’integrazione, di un’identità collettiva. Il raggiungimento del proprio scopo da parte dell’eroe è la dimostrazione della sua forza e determinazione nel perseguire la Causa. L’eroe è mosso da un senso di sfida nei confronti di alcuni impedimenti che nel corso della narrazione lo ostacolano nella sua corsa verso il comunismo. Nella parte centrale dei romanzi – quella che concerne la narrazione vera e propria – l’eroe attraversa mille peripezie e avversità, e ognuna di queste costituisce una sorta di messa alla prova della sua coscienza comunista in formazione: più la narrazione prosegue, più l’eroe supera ostacoli più grandi, e più acquista padronanza ideologica di sé. Nel finale, viene di solito descritta una scena in cui il protagonista è ormai un comunista fatto. L’eroe è solitamente accompagnato nel proprio cammino da un personaggio (generalmente più anziano) che nella sua vita “precedente” ha già superato tutte le prove, e che in qualche modo si pone come una guida per il protagonista, dandogli consigli, istruzioni e talvolta regalandogli, in una scena altamente simbolica che ha luogo di solito verso la fine del libro, qualche oggetto o orpello che simboleggia l’appartenenza alla «tribù»: una bandiera rossa, una stella, la tessera del Partito.

Proprio come nelle favole, il romanzo sovietico inizia con l’allontanamento del protagonista dal luogo natio. Il nuovo ambiente dove si viene a trovare l’eroe funziona come banco di prova per la sua coscienza comunista.

Per scrivere romanzi di questo tipo secondo modalità gradite al Cremlino, esisteva un vero e proprio vademecum che gli autori dovevano tenere presente: il loro lavoro, infatti, non consisteva solo nella riproduzione di avvenimenti e situazioni mutuati dai «classici» del canone; quello che era richiesto – quello che si doveva fare – era organizzare l’intera struttura dell’opera sulla base delle regole stabilite dal canone.

Gli scrittori del Realismo socialista

Maksim Gor’kij, benché oggi le sue opere suonino un po’ datate, è stato un grande scrittore tra Otto e Novecento, fu amico di Tolstoj e Čechov, e scrisse alcuni grandi testi (non solo La madre, ma anche I bassifondi e Varen'ka Olesova); gli altri campioni del Realismo socialista sono oggi quasi del tutto, e giustamente, dimenticati. Qualche nome: Fëdor Gladkov, autore nel 1925 del bestseller Cemento, in cui si racconta la ricostruzione sociale e industriale dell’Unione sovietica dopo la Rivoluzione e la carestia dei primi anni Venti; Aleksandr Fadeev, presidente dell’Unione degli scrittori dopo la Seconda guerra mondiale, il cui ultimo libro, incompiuto e scritto a metà degli anni Cinquanta, si intitola Metallurgia pesante; Valentin Kataev, che vinse il prestigioso premio Stalin nel 1946 con il romanzo Il figlio del reggimento; Michail Šolochov, autore di Il placido Don, che vinse un Nobel contestatissimo in Occidente nel 1965: si disse che l’Accademia di Svezia lo premiava per “risarcire” l’Unione sovietica dopo lo smacco del Nobel a Pasternak – autore non allineato – nel 1958.

Qui, in inglese, il discorso tenuto da Šolochov al banchetto per il conferimento del Nobel. Lo scrittore dice tra l’altro che è lì in rappresentanza «di una moltitudine di scrittori» della sua terra natale: http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1965/sholokhov-speech.html

Qualunque storia della letteratura russa del Novecento vi citerà questi nomi nei capitoli dedicati al Realismo socialista come un atto dovuto: la corrente di cui fecero parte è un momento fondamentale della storia della letteratura perché sancisce l’ingerenza della politica nella vita culturale di un popolo; ma nessuno vi dirà che questi sono grandi scrittori. I grandi nomi del Novecento russo sono tutti fuori dalla lista degli aderenti al Realismo socialista: Bulgakov, il già citato Pasternak, Platonov, Mandel’štam, Achmatova, Pil’njak, Babel’, Brodskij, Grossman. Tutti più o meno dissidenti o sospettosi nei confronti del regime, alcuni di loro sono morti in solitudine senza poter pubblicare, altri sono finiti in Siberia per le cose che hanno scritto. Ma costituiscono il vero canone del Novecento russo: lavorarono a dispetto e nonostante i dettami di Ždanov, scrissero cose a volte incomprensibili per le classi meno colte, satireggiarono il regime, costruirono i propri percorsi autoriali senza guardare all’Unione degli scrittori ma concedendosi un respiro più ampio e radicale.

(Crediti immagini: Black and white film copy negative of Maxim Gorky, half-length portrait, facing front by Herman Mishkin, N.Y., Wikipedia)

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