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Tra rischi e opportunità

Approfondimenti e percorsi didattici sulla crisi

L'arte contemporanea trova la sua genesi nelle avanguardie artistiche di inizio Novecento, senza le quali sarebbe difficile comprendere la produzione dei nostri giorni. È perciò necessario partire dal significato del termine “avanguardia” e dalla sua accezione in ambito artistico, poiché inizialmente era usato in ambito politico e rivoluzionario.
Per comprenderlo dobbiamo analizzare prima di tutto i tempi: la fine dell'Ottocento e le immagini della belle époque, ci lasciano in mente un'idea di spensieratezza e di benessere mentre, in realtà, un vuoto e un senso di ambiguità prevale, specialmente nel passaggio dalla vecchia borghesia ottocentesca all'apparizione sulla scena sociale e politica di un nuovo soggetto: le masse popolari.
I primi anni del Novecento sono caratterizzati da una crisi di valori che coinvolge tutti gli ambiti, dalla scienza all'arte alla filosofia: emergono correnti di pensiero che superano le visione positivista precedente e fanno cadere tutte le certezze di potere conoscere la realtà esclusivamente attraverso i sensi.
Il termine “avanguardia” indica dunque una nuova frontiera, nel nostro caso, dell'arte: nella poetica delle avanguardie l'arte può cogliere aspetti della realtà che la sola conoscenza razionale non sarebbe in grado di comprendere.
Come forse si può immaginare, viste le premesse, l'origine comune a tutte le avanguardie artistiche è l’anti-impressionismo, il rifiuto cioè della rappresentazione e della conoscenza che si affida esclusivamente alle sensazioni e, nello specifico, alla vista per comprendere il reale. Si inverte così il senso di marcia della produzione artistica: se l'IMpressione va dall'esterno all'interno, la nuova ESpressione va dall'interno all'esterno. Il problema nuovo che si pongono le avanguardie è quello della relazione tra il soggetto e il mondo che, ora, viene osservato da un nuovo punto di vista. L'arte diventa così azione e non più rappresentazione.
Altra caratteristica che tutti i movimenti d'avanguardia condividono è la stesura di manifesti e il fatto di configurarsi come movimenti di gruppo nei quali gli artisti aderenti, non solo figurativi ma poeti, scrittori e musicisti, condividono i criteri fondamentali.

Il Cubismo

Il cubismo è la prima ricerca di gruppo nella storia dell'arte contemporanea, tanto che all’inizio le opere di Picasso e Braque, i maggiori esponenti di questa corrente, si distinguono a malapena. L’obiettivo dei suoi fondatori è superare il limite delle due dimensioni imposto dalla tela, andare oltre per mostrare la realtà da tutte le prospettive possibili.
Le Demoiselles d’Avignon è considerata l'opera manifesto del cubismo ed è il primo quadro cubista realizzato da Picasso. Il soggetto sono cinque ragazze, probabilmente prostitute di una casa di tolleranza di Barcellona che l’artista frequentava. Il titolo originale di quest’opera è Le bordel philosophique ed è facile immaginare come quando fu esposto per la prima volta, nel 1916, fu accusato di immoralità. Ognuno dei personaggi rappresentati è dipinto da diversi punti di vista, come se non fossero parte dello stesso quadro, e si possono cogliere nei visi delle protagoniste richiami all’arte egizia e a quella africana.
Sembra che l’obiettivo di Picasso fosse quello di catturare lo sguardo dell’osservatore, le cinque donne sembrano ignorarsi l'un l'altra e rivolgersi solo a chi osserva come se noi che guardiamo l’opera fossimo seduti insieme alle fanciulle, dall’altra parte del tavolino che si trova in basso.
Il cubismo si può suddividere in tre fasi, il periodo formativo, a cui appartiene Les demoiselles d’Avignon, è il momento iniziale, che va dal 1907 al 1909, durante il quale gli artisti trasformano geometricamente le figure e i loro soggetti che appaiono così formati da tanti poligoni sovrapposti.
La seconda fase è quella del cubismo analitico (dal 1910 al 1912 circa) in cui i soggetti vengono scomposti in forme geometriche e ricomposti sulla tela ponendo le parti un ordine diverso da quello iniziale.
La terza fase, infine, è quella del cubismo sintetico, durante il quale viene inserito un nuovo elemento nelle opere, il collage, sempre con l’obiettivo di superare la bidimensionalità della pittura.

Il Futurismo

Aggressivi, violenti, guerrafondai: i futuristi sicuramente non brillavano per simpatia ma ebbero il grande merito di avere portato all’onore delle cronache la scena artistica italiana dopo secoli di silenzio.
ll futurismo ha una data di nascita precisa, il 20 febbraio 1909, quando il poeta Filippo Tommaso Marinetti pubblicò Il manifesto Futurista sul quotidiano francese “Le Figaro”.
Sì, il fondatore fu un poeta perchè il Futurismo raccoglie autori di tutte le arti, pittura, scultura, letteratura, poesia, architettura, cinema, fotografia e propone una esaltazione della cultura moderna e un nettissimo stacco dalla visione precedente.
Le automobili, le industrie, gli aeroplani, i porgessi tecnologici, la velocità del moderno uniti all’esaltazione del patriottismo, del militarismo e anche della guerra come necessario motore di cambiamento, sono i punti cardine della nuova corrente destinata a segnare un definitivo stacco con la cultura del passato, considerata noiosa, borghese e sorpassata.

Forme uniche della continuità nello spazio è un’opera matura di Boccioni, considerato uno dei maestri del futurismo artistico insieme al più anziano Balla, nella quale l’artista riporta nelle tre dimensioni della scultura le scie di movimento che in pittura erano date da pennellate lunghe e arcuate.
Si potrebbe dire che la scultura di Boccioni vive nel tempo e nello spazio.

Il passare del tempo modifica la posizione della figura nei diversi momenti che Boccioni rappresenta come simultanei. Il movimento e il dinamismo, espressi dalle scie materiche che la figura lascia dietro di sé, invadono lo spazio e sono il fulcro del lavoro.
Quest’opera è la sintesi delle idee cardine del Futurismo che si prefigge di rappresentare la velocità e la forza del dinamismo nell’arte, la simultaneità della visione, la rappresentazione di una azione durante il suo stesso svolgimento.

L’Espressionismo

Al Salon d’Automne di Parigi del 1905 furono esposte le opere di un gruppo di giovani artisti che suscitarono grande scandalo e il totale disprezzo da parte di eminenti critici d’arte.
Gli autori di queste opere vennero definiti Fauves, che significa in modo dispregiativo “belve”, per la violenza della pennellata e dei colori. Questi erano Henri Matisse (1869-1954), André Derain (1880-1954) e Maurice de Vlaminck (1876-1958).
I Fauve mirano a rappresentare la realtà non così come appare oggettivamente ma come essi la percepiscono interiormente e personalmente: per loro la pittura deve esprimere le sensazioni dell’artista.
Il gruppo dei Fauve è anche definito espressionismo francese e si differenzia da quello tedesco per alcune caratteristiche come l’uso di colori molto vivaci e innaturali, accostati in modo non convenzionale, come si vede bene nell’opera forse più conosciuta di questa corrente, La danza di Matisse. Le forme sono semplificate e appiattite, hanno contorni netti e marcati, non esistono più prospettiva, profondità e chiaroscuri, insomma aboliscono le regole della pittura tradizionale.

Anche in Germania nello stesso 1905 nella città di Dresda si raccoglie un gruppo di giovani pittori riuniti dal desiderio di esprimersi liberamente, di abbandonare le regole della rappresentazione tradizionale, di denunciare le ipocrisie della società e di gridare la propria verità. Sono artisti capaci di esprimersi con immediatezza e sincerità, con un'arte quasi dissacrante che colpisce al cuore l'osservatore, di raccontare i loro tempi con una visione drammatica e pessimistica.
Kirchner è uno dei grandi autori di questo movimento e nella Scena di una strada di Berlino mostra tutto ciò da cui vuole allontanarsi.

Il modello per quest’opera è probabilmente l'amico dell'artista, e artista espressionista egli stesso, Otto Mueller, ma potrebbe anche essere che Kirchner abbia raffigurato sé stesso nel quadro.
«Le scene di strada si sono sviluppate negli anni dal 1911 al 1914», racconta l’autore. «È stato uno dei periodi più solitari della mia vita, in cui vagavo giorno e notte per le lunghe strade piene di gente e di carri in un'agitazione straziante». E l’angoscia che lo travolge è gettata sulla tela nei ritratti di uomini d’affari che si intrattengono con prostitute.

Uno degli autori più discussi e controversi dell’espressionismo, allievo e pupillo di Klimt, è l’austriaco Egon Schiele (1890 – 1918), considerato come uno dei precursori del movimento, poiché ne ha fissato alcuni dei tratti caratteristici.

La sua vita, brevissima e tormentata dalla malattia e dal difficile rapporto con la madre, si riversa nella sua pittura esprimendosi con linee taglienti e incisive che raffigurano l’angoscia esistenziale. Nelle sue opere, per lo più ritratti e autoritratti, il corpo è rappresentato in modo aggressivo e distorto, i suoi soggetti sono sempre all'interno di spazi vuoti che simboleggiano la dimensione del vuoto esistenziale dell'essere umano. Anche quando rappresenta sé stesso, l’immagine è carica di tensione, contorta e ricca di pathos, quasi rappresentasse un lato estraneo dell'io. La pittura per lui era una sorta di cura dall’angoscia dell’esistenza e per questo nei soli 28 anni di vita produsse oltre 3.000 opere fra disegni e oli e acquerelli.

Dada

C’è un movimento che più degli altri ha influenzato tutta l'arte che lo ha seguito, è Dada.
Dada nasce un po’ dopo quelli già citati, negli anni della Prima guerra mondiale, è contro la guerra e contro tutta la cultura che lo precede compresi gli stessi movimenti d'avanguardia, contro la società borghese, contro i suoi valori, le sue regole e i suoi canoni estetici. Dada taglia i ponti con tutto ciò che lo precede, con l'arte visiva e la cultura in genere, è un punto di non ritorno, senza la conoscenza del quale molta dell’arte del secondo Novecento risulterebbe incomprensibile.
Il caso, il dubbio, il rifiuto di ogni certezza preordinata, l’esaltazione del banale e del quotidiano sono il centro del dadaismo il cui strumento espressivo ideale e il ready-made, inventato dal più grande dei suoi maestri, Marcel Duchamp.
Ready-made significa prelevare un oggetto quotidiano e banale, decontestualizzarlo, privarlo della sua funzione originaria ed elevarlo allo status di opera d’arte, a volte anche apponendoci una firma, insomma un vero e proprio battesimo dell’opera. Si entra così in un nuovo periodo in cui l’opera d’arte ha caratteristiche completamente diverse da quelle dei secoli precedenti e ciò che la differenzia da tutti gli oggetti di uso quotidiano è la polisemia che l’artista le attribuisce nel momento in cui la “battezza”.
L’opera d’arte non è più espressione di abilità manuali e passiva imitazione della natura, ora è espressione del pensiero e dell’intelletto, l’arte è espressione della vita.
Il ready-made più noto di Duchamp è sicuramente Fontaine, un orinatoio da parete, prodotto da un produttore di sanitari qualsiasi, ruotato di 90 gradi, appoggiato su una base e firmato R. Mutt., pseudonimo dell’artista. L’opera ha una storia molto particolare: nel 1917 Duchamp si era da poco trasferito a New York e inviò segretamente l’opera alla fiera delle Society of Independent Artists, della quale era membro, con lo pseudonimo di Richard Mutt. La Società non espose la sua Fontana perchè venne considerata dalla commissione “non arte” e dopo quell’episodio non se ne ebbero più notizie. Ne rimase solo una foto scattata da Alfred Stieglitz. Negli anni Cinquanta, l’artista ne realizzò e autenticò diverse copie da distribuire nei principali musei.

Il Surrealismo

Il Surrealismo nasce a Parigi negli anni Venti, un po’ più tardi delle avanguardie vere e proprie ma trova una collocazione fra queste nella linea tracciata finora di rottura con il passato. Il surrealismo va a braccetto con Dada, forse in qualche modo ne deriva, certamente dichiara guerra alla dittatura della ragione per superare le soglie del visibile. Quest'arte costringe lo spettatore ad andare al di là di ciò che si vede con gli occhi, a immaginare una realtà diversa che si può conoscere solo attraverso l'inconscio. Inconscio e subconscio sono l'oggetto principale della creazione surrealista, attraverso questi l'uomo è libero di esprimere la parte più nascosta di sé stesso. 
Anche il surrealismo ha un fondatore e un manifesto, si tratta di André Breton che raccolse le regole del movimento in questi termini: «Automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale.»
È facile individuare l'influenza degli scritti di Freud sulle basi teoriche del movimento.

Opera simbolica in questo senso, anche se non fra le più note di Magritte, è il suo Doppio segreto. Qui, consapevole della natura artificiale delle immagini, l’autore sposta un grande frammento di una testa androgina per rivelarne un interno pieno di campanelli e mettere a nudo i complessi meccanismi della psiche umana.
Magritte, Dalì e lo stesso Breton sono i protagonisti di questi sogni a occhi aperti che già nei titoli raccontano tutta la loro lontananza della realtà conoscibile con i sensi.


Crediti banner: Umberto Boccioni, Stati d'animo: Gli addii, particolare, 1911, New York, Museum of Modern Art (MoMA) – Wikipedia

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Egon Schiele, Autoritratto con la testata abbassata, 1912 (Wikimedia Commons)

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Ernst Ludwig Kirchner, Strada a Berlino, 1913, New York, Neue Galerie, Museum for German and Austrian Art

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Umberto Boccioni, Stati d'animo: Gli addii, particolare, 1911, New York, Museum of Modern Art (MoMA) – Wikipedia

Il lavoro fra digitalizzazione, Industria 4.0 e sapere umanistico

In un momento difficile come quello che stiamo vivendo, parlare di crisi come opportunità può suonare ingenuo e fuori luogo. Ma è anche vero che la crisi può offrire effettivamente opportunità, per chi ha il talento e la fortuna di coglierle. Secondo un grande economista come Schumpeter, è proprio la “distruzione creativa” che mette in moto l’innovazione e il progresso.
Anche la storia mostra che dopo i momenti di crisi (una crisi economica, un’epidemia, una guerra) si assiste spesso a periodi di rinascita, sviluppo, di vero e proprio boom come è stato da noi dopo la seconda guerra mondiale.

Il modello di lavoro novecentesco è in crisi. Il sistema produttivo è cambiato, i modelli contrattuali sono cambiati (sempre meno lavoratori hanno il posto fisso, a tempo indeterminato, e sempre più hanno un lavoro precario e flessibile), la globalizzazione e la delocalizzazione hanno ridisegnato i contorni del mercato del lavoro, e poi c’è stato l’avvento dell’Industria 4.0. Moltissime mansioni sono svolte in modo automatizzato e digitalizzato, con ampio impiego dell’intelligenza artificiale, del machine learning, cioè l’apprendimento automatico delle macchine, di algoritmi estremamente sofisticati in grado di processare e incrociare enormi masse di dati, i big data.

Le macchine sostituiscono sempre più gli esseri umani nei lavori manuali, usuranti e nelle professioni che si basano su protocolli e attività ripetitive. Il fatto che saranno le macchine a svolgere lavori faticosi, pericolosi e monotoni è però una buona notizia. Questo permette infatti di affrancarsi dal nesso millenario fra lavoro e fatica, lavoro e sofferenza, come già è successo in passato, quando professioni faticose e pericolose sono via via scomparse. Pensiamo agli spazzacamini e alle lavandaie, per esempio.

Le professioni generate dalle nuove tecnologie sono richiestissime, tanto che spesso non si riesce a saturare la richiesta. Lo scenario è quello opposto alla disoccupazione.
Internet inoltre crea nuove forme di intermediazione fra domanda e offerta di lavoro, con la possibilità per il lavoratore di autogestirsi, in modo autonomo o tramite piattaforme, per intercettare nuove opportunità di lavoro, anche in altre parti del mondo: un’altra opportunità nella crisi.

Molti sostengono che, al tempo della quarta rivoluzione industriale, l’istruzione di qualità di cui parla il Goal 4 debba avere come fulcro le materie scientifico-tecnologiche, le materie STEM. In effetti, il mercato del lavoro conferma che i profili di gran lunga più richiesti e meglio retribuiti sono quelli legati alle tecnologie informatiche e telematiche e all’intelligenza artificiale.

Ma allora le materie umanistiche servono ancora? 

Nel celeberrimo discorso di Steve Jobs ai laureandi di Stanford, nel 2005, quello del Stay hungry, stay foolish, Jobs racconta agli studenti un episodio chiave della sua vita.
Dopo aver abbandonato il college, Jobs decise di continuare a seguire un solo corso, l’unico che gli interessasse. Quello di calligrafia, tenuto da un monaco calligrafo.
Un corso affascinante, che però, per ammissione dello stesso Jobs, non aveva alcuna applicazione pratica. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, si sarebbe rivelato l’ingrediente decisivo per rendere i personal computer, e poi gli smartphone, quello che sono oggi.

Fra le soft skill più richieste nel mondo del lavoro ci sono poi la capacità di comunicazione e la creatività. E l’OCSE ha inserito proprio il pensiero creativo nell’indagine PISA 2022, in corso in questo momento. E qui le materie umanistiche danno un contributo decisivo. Il valore del sapere umanistico, in un’epoca di crisi e passaggio come questa, si gioca anche su un altro terreno: quello che forma i cittadini di società democratiche e libere, come afferma Martha Nussbaum.


Crediti immagine: Pixabay

Si avvicina la fine dell’anno e, come di consueto, iniziano a circolare statistiche e classifiche dei più disparati generi.
Tra queste ce n’è una di nostro particolare interesse: in generale, perché ha a che fare con la lingua, e per ragioni che hanno a che fare con il tema dell’Aula di Lettere di questo mese. In cima alla lista delle parole più rappresentative del 2022 per il dizionario britannico Collins si trova infatti permacrisi…


Crediti immagine: Pixabay

Ciclicamente il romanzo muore, o almeno questo è quello che si dice. Da quando è nato, alcuni secoli fa, il genere romanzesco ha vissuto periodi di splendore (gran parte del XIX secolo), di sperimentalismo e grande libertà creativa (la prima metà del XX secolo, ma tenete conto che sto facendo delle approssimazioni, perché anche questa, la nostra, è un’epoca di grande libertà creativa dentro i romanzi – ci torno tra un po’), ma, tra un periodo e l’altro, è entrato in crisi nera e infine è morto: vale a dire che è stato ritenuto incapace di raccontare il mondo, è sembrato insufficiente, ripetitivo, sfinito, superato da altre forme di narrazione (il cinema prima, la tv poi, internet infine).

Una delle prime volte che è morto, almeno se limitiamo il campo agli ultimi cent’anni, il romanzo si trovava in Russia, e la sua morte si portò dietro un po’ tutta la letteratura – la poesia, il teatro ecc. – perché tutta la letteratura non aveva più gli strumenti, si diceva, per raccontare il mondo: in un Paese, l’Unione sovietica, che, grazie alla Rivoluzione, stava realizzando sulla Terra il Sogno di un mondo migliore, a cosa poteva servire un’arte basata sulla finzione, sull’immaginazione, sulla creazione di mondi che non sono questo? Era questo il mondo che andava rappresentato, bisognava guardare alla realtà perché la realtà era straordinaria di per sé. Dunque alcuni autori, come il poeta Vladimir Majakovskij, e alcuni critici, come Osip Brik e Viktor Šklovskij, crearono il movimento Literatura fakta – letteralmente Letteratura del fatto, ma qualcuno lo chiama Movimento fattografico – dove la finzione veniva sostituita da uno sguardo nudo sui fatti della vita quotidiana. Nel fatto, nelle cose reali e concrete che accadono, sta il senso della nuova letteratura: dunque abbasso i romanzi e le poesie, generi invecchiati male, evviva il reportage, la biografia, il racconto dal vero. Il movimento durò tre anni: nel 1930, col suicidio di Majakovskij, che era stato un grande poeta e di cui rimangono molte opere, soprattutto quelle che fece prima e al di fuori di Literatura fakta, morì anche quest’idea d’avanguardia.

Poi il romanzo morì in ambito anglosassone. Che cosa si poteva scrivere ancora, dopo che nel 1939 il grande scrittore irlandese James Joyce aveva composto La veglia di Finnegan – capolavoro scritto in una lingua la cui base è l’inglese, ma che ne contiene decine, in un continuo gioco di segni e significati che include tutti i suoni che gli umani possono produrre, compresa la lallazione o i rumori che emettiamo quando sogniamo?

Ascoltatene un pezzo:

«Il prouts che colà inventerà una scrittura è in fine il poeta, ancor più erudito, che colà in principio rintrazziò la lettura. È questo il punto dell’escatologia che il nostrucido libro di chill sa raggangere in contrappante parole»
(in originale): «The prouts who will invent a writing there ultimately is the poeta, still more learned, who discovered the raiding there originally. That’s the point of eschatology our book of kills reaches for now in soandso many counterpoints words».

La veglia racconta la storia di un irlandese di nome Earwicker e della sua famiglia, che si intreccia con la storia della terra da cui tutti loro provengono, l’Irlanda: il punto è che questa storia è raccontata attraverso i sogni e alcuni momenti di veglia, più o meno cosciente, del protagonista. Joyce impiegò 17 anni a scrivere il romanzo, in cui la storia degli Earwicker è ovviamente poco più di un pretesto, e lo scopo è invece inventare letteralmente una lingua.

Ora, di nuovo: che cosa si poteva scrivere dopo che Joyce era andato oltre il linguaggio? Lo scrittore inglese Will Self, in un pezzo uscito alcuni anni fa sul quotidiano inglese The Guardian (qui c’è il link, ma è solo in inglese: https://www.theguardian.com/books/2014/may/02/will-self-novel-dead-literary-fiction), sostenne che, dopo quello che Joyce aveva fatto con il linguaggio, ogni romanzo era una sorta di zombie: vale a dire che La veglia aveva definitivamente ucciso ogni possibilità di inventare qualcosa di nuovo con la lingua.

Eppure, di nuovo, il romanzo non è morto, anzi: dopo il 1939 non solo sono stati scritti romanzi, ma sono stati scritti anche grandi romanzi. Self sostiene, in un certo senso a ragione, che nessuno di loro ha potuto andare oltre il punto dove l’arte della scrittura era stata spinta da Joyce, ma l’arte di narrare storie ha continuato a prosperare, nonostante le crisi e i ripensamenti. Perché? Una risposta è contenuta proprio nel pezzo di Self, che traduco al volo: «per il momento non c’è ancora qualcosa che sia in grado di sostituire appieno la lettura così come la conosciamo – vale a dire come la capacità che poche righe di testo hanno di farci immaginare interi mondi, la possibilità di immergersi profondamente nella psiche altrui che solo la lettura dà».
Non è mica poco. Però il problema rimane.

Perché il romanzo continua a morire? E soprattutto: arriverà il momento in cui la sua morte sarà definitiva e sarà definitivamente sostituito da un’altra forma di narrazione?
Molti proverebbero a dare una risposta analizzando le forme di narrazione che non sono il romanzo per vedere se, dove e quando possono batterlo. Io non lo farò, perché è un esercizio che è già stato fatto e che non ha mai dato grandi risultati (quelle forme particolari sono passate, il romanzo è rimasto). La prenderò da un altro lato, e sosterrò che il romanzo è sopravvissuto e sopravvive perché, a differenza di molte altre forme di narrazione, è quella più sfuggente, più aperta, più difficile da definire – e dunque quella più dura a morire.

Da qui alla fine di questo pezzo vi farò alcuni esempi di romanzi contemporanei la cui forma, o il cui linguaggio, sono talmente originali e inafferrabili che chiunque li voglia uccidere non vi riesce, per il semplice fatto che non riesce nemmeno ad acchiapparli.
E comincerò da una cosa che non è un romanzo nel senso vero e proprio del termine, anche se porta la dicitura romanzo sulla copertina: le Microfinzioni dello scrittore francese Régis Jauffret. Che cosa sono queste Microfinzioni? Sono, anzitutto, due libri, due volumi di mille pagine ciascuno. Il primo è del 2007, il secondo del 2018. Si tratta di un’opera che l’autore dichiara di aver scritto con l’intento di racchiudere «tutta la vita in un solo libro» - e non c’è impresa più romanzesca di questa, se è vero che, come lo definisce lo Zingarelli, un romanzo è «un componimento letterario in prosa di ampio respiro che narra le vicende di uno o più personaggi, che possono avere un qualche fondamento storico o essere del tutto inventate».
Solo che la forma attraverso cui questa vita è racchiusa non è quella della narrazione fluviale tipica del romanzo di mille pagine: ogni volume è invece composto da 500 racconti di due pagine, ciascuno dei quali ha un protagonista diverso, un tema diverso e sonda un diverso aspetto dell’animo umano. Quello che risulta alla fine di questa lunga, entusiasmante e a volte terribile lettura è un senso di pienezza, di epos si direbbe, che ricorda molto da vicino certe sensazioni provate mentre si leggono i grandi affreschi ottocenteschi.

Un ritratto di Jauffret e delle sue Microfinzioni: https://www.iltascabile.com/letterature/regis-jauffret-scrittore-sadico/

Da una narrazione frammentata, spaccata in mille pezzi, a un fiume in piena. È senza dubbio uno degli scrittori più grandi che ci sono in circolazione in questo inizio secolo, viene dall’Ungheria, ha un nome strano, László Krasznahorkai (ma non impronunciabile: sentite qui https://www.comesipronuncia.it/pronuncia/laszlo-krasznahorkai-12780), e ha scritto libri con titoli bizzarri come Satantango o Melancolia della resistenza, e che sono fatti di frasi lunghe, lunghissime, vorticose, piene di subordinate che creano, in chi legge, una sorta di stato ipnotico, un magma: sostiene Krasznahorkai che le frasi brevi siano un artificio, una costrizione e una gabbia, perché in realtà, quando parliamo o scriviamo, quando abbiamo da dire qualcosa che ci preme veramente, siamo un fiume in piena, non mettiamo punti, il nostro eloquio è tutto un fluire, un contraddirsi, un aprire parentesi.

E così è per l’ultimo, straordinario romanzo pubblicato in italiano, Herscht 07769: una storia cupa ambientata nella provincia tedesca, in una cittadina desolata in cui si è stabilita una banda di neonazisti. Gli abitanti sono spaventati, ma non Florian Herscht, un uomo ingenuo, convinto che la realtà stia per finire ma, allo stesso tempo, sicuro di poter instaurare un dialogo con questi neonazisti. Il romanzo è la sua storia, ma attenzione: si tratta di un’unica, infinita, meravigliosa frase di quasi 500 pagine, una frase che contiene tutto il mondo e lo racconta, rendendo la lettura un’impresa immersiva totale; nella seconda metà di questo romanzo, in città compaiono i lupi, e sono feroci, sono il segnale che il mondo sta davvero finendo, ma non solo: Krasznahorkai ha più volte detto che uno dei suoi obiettivi di scrittore è quello di arrivare a una narrazione priva di esseri umani, qualcosa che, forse, sarà vicino alle favole di Fedro e di Esopo e dunque sarà un tornare alle radici del raccontare storie, per le quali ovviamente lo scrittore ungherese dovrà inventare un nuovo linguaggio. Ecco, Herscht 07769 non è ancora quella narrazione radicale e definitiva che Krasznahorkai ha in mente e che chissà se riuscirà mai a fare, ma è qualcosa che gli si avvicina, perché a poco a poco, mentre si legge e ci si trova immersi in questo magma di virgole e di parole, ci si rende conto che gli animali, i lupi, hanno sempre più spazio e più importanza.

Insomma, per essere una cosa che continua a morire, mi pare che il romanzo abbia ancora molte cose da dire e molte rivoluzioni da fare: dall’infinitamente piccolo (ma con un respiro ampio, amplissimo) di Jauffret, all’infinitamente grande dell’interminabile Krasznahorkai, che sono ovviamente i due poli estremi dell’arte di narrar cose, se davvero il romanzo è una forma in crisi e in via di estinzione, mi sento di poter dire che, se morte sarà, non sarà domani.


Crediti immagine: Scultura di Anna Livia (da La veglia di Finnegan) di Éamonn O'Doherty, Croppies Memorial Park, Dublino, Irlanda (Wikimedia Commons; Wikimedia Commons)

Finali

«Mentre che io canto, o Dio redemptore,
Vedo la Italia tutta a fiama e a foco
Per questi Galli, che con gran valore
Vengon per disertar non sciò che loco:
Però vi lascio in questo vano amore
Di Fiordespina ardente a poco a poco.
Un’altra fiata, se mi fia concesso,
Raconterovi el tutto per espresso.»
                  
                                (M.M. Boiardo, Orlando innamorato, III, 9, 26).

 Nell'ultima ottava dell’ultimo grande poema cavalleresco del Quattrocento, l’Orlando Innamorato (o Inamoramento de Orlando) di Matteo Maria Boiardo, il poeta posa la penna e si guarda intorno: l’Italia, invasa da un esercito straniero, è un unico grande incendio e interi Stati rischiano di crollare. Non è più il tempo della poesia.
L’anno è il 1494 e i “Galli” sono le armate del re di Francia Carlo VIII, che hanno valicato le Alpi per rivendicare con le armi il possesso del Regno di Napoli. Boiardo, interrompendo la stesura del poema, si ripromette di raccontare il resto della storia se gli sarà concesso, ma non ne avrà mai l’occasione: morirà, infatti, nel dicembre di quell’anno. Poche settimane prima, a Firenze, è mancato Giovanni Pico della Mirandola: la “fenice degli ingegni”, interprete di un’irripetibile stagione di speculazione filosofica, si spegne il 17 novembre, nel giorno stesso dell’entrata dell’esercito francese a Firenze. Come a suggerire un collegamento fra il dilagare delle armate straniere nella città di Lorenzo il Magnifico e la fine di quella stagione di libertà intellettuale.

Le guerre d’Italia

È l’inizio di quelle che passeranno alla storia come guerre d’Italia.
La calata di Carlo VIII trasforma la penisola nel campo di battaglia in cui gli eserciti di tutta l’Europa – francesi, spagnoli, imperiali, papali oltre ai mercenari di ogni nazione – si scontreranno per oltre sessant’anni per stabilire la supremazia sul continente: sessant'anni di guerra quasi permanente che cambieranno profondamente il volto dell’Italia segnando la fine della sua indipendenza.
Francesco Guicciardini, testimone diretto e acuto osservatore di questa drammatica stagione, apre la sua Storia d’Italia rievocando con toni idilliaci il mondo travolto dalla tempesta della guerra: un’Italia «ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne’ luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a altro imperio che de’ suoi medesimi». È l’Italia libera e fiorente disegnata dalla pace di Lodi, che nel 1454 ha messo fine allo scontro fra Venezia e Milano inaugurando un quarantennio di relativa armonia fra gli Stati che compongono il mosaico della penisola. L’Italia di Lorenzo il Magnifico, capace con la sua sensibilità e la sua lungimiranza di orchestrare il delicato equilibrio fra principi sempre pronti a sacrificare la pace in nome della propria ambizione.
Proprio nella prematura morte di Lorenzo, avvenuta nel 1492, e nel conseguente prevalere dell’ingordigia dei principi italiani Guicciardini individua le cause principali della fine dell’idillio quattrocentesco.

I semi della crisi

In realtà, ben prima dello scoppio della guerra i semi della crisi sono già presenti nella politica italiana.
Nel corso del Quattrocento i maggiori Stati europei si sono rafforzati consolidando i propri confini, la propria struttura amministrativa e la stessa percezione del potere regale: la Francia è uscita dalla Guerra dei cent’anni (1453) e ha finalmente inglobato il Ducato di Borgogna (1477), in Spagna le corone di Castiglia e Aragona si sono unite – di fatto anche se non formalmente – grazie al matrimonio fra Ferdinando e Isabella (1469), l’Impero è cresciuto territorialmente e politicamente grazie all’intelligente strategia matrimoniale di Massimiliano d’Asburgo.
I principi e governanti italiani, al contrario, si sono limitati a conservare il fragile equilibrio fotografato dalla pace di Lodi senza creare un solido sistema di alleanze ma coltivando, al contrario, le proprie ambizioni dinastiche.
Politicamente deboli e strategicamente miopi, allo scoppio della guerra gli Stati italiani vengono relegati al margine dello scacchiere internazionale: un processo di demolizione delle grandi esperienze politiche della penisola iniziato con la crisi di Firenze seguita alla morte del Magnifico e che si può considerare già inarrestabile all’indomani della sconfitta di Venezia da parte della Lega di Cambrai (1509). Guicciardini stesso ne dà conto nelle pagine della Storia d’Italia: già nel discorso di Massimiliano d’Asburgo alla Dieta di Costanza del 1507 (VII, 7) l’Italia è solamente lo scenario dello scontro fra le grandi potenze europee, gli Asburgo e la Francia.

«Abominosi ordigni»

Gli antichi Stati italiani si rivelano subito inadeguati anche dal punto di vista bellico.
L’esercito francese introduce strutturalmente nella guerra una terribile innovazione tecnologica: le artiglierie, che in pochi anni cambieranno il modo di combattere e – con la necessità di nuove fortificazioni capaci di resistere ai colpi di cannone – il volto stesso delle città.
Ma non si tratta solo di uno scarto tecnologico: se fino a quel momento la guerra è stata condotta soprattutto attraverso lunghi assedi, i francesi adottano una modalità d’azione rapida, fatta di battaglie campali che puntano ad annientare in poco tempo la forza avversaria. Contemporaneamente, mettono in atto una strategia di scontro sistematico con la popolazione civile che ha lo scopo di terrorizzare gli abitanti delle terre poste sotto attacco.
Questo nuovo modo di fare la guerra, tanto cruento ed estraneo alla mentalità cavalleresca anacronisticamente celebrata nei poemi epici, suscita naturalmente il biasimo degli intellettuali. Nell’Orlando furioso, scritto nel pieno della tempesta della guerra, Ludovico Ariosto immagina che l’archibugio, «abominoso ordigno» inventato da Belzebù in persona e usato dal malvagio Cimosco re di Frisia, sia rimasto relegato in fondo al mare per secoli grazie al paladino Orlando, ma solo per ritornare a portare la morte sui campi di battaglia proprio nell’età e nella patria del poeta.

Ariosto si rivolge allora direttamente all’odiata arma:
 

«Per te son giti et anderan sotterra
tanti signori e cavallieri tanti,
prima che sia finita questa guerra,
che ‘l mondo, ma più Italia ha messo in pianti.»

           (L. Ariosto, Orlando furioso, XI, 27)

L’esortazione di Machiavelli

In difesa di un’Italia messa a ferro e fuoco da eserciti stranieri, piagata dalle pestilenze, umiliata sulla scena politica internazionale si leva fra le altre la voce di Niccolò Machiavelli, che nell’ultimo capitolo del Principe esorta i Medici a creare un esercito moderno ed efficiente, prendere possesso dell’Italia e «liberarla dalle mani dei barbari» (N. Machiavelli, Il principe, XXVI). Gli italiani «superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno» esprimono singole personalità straordinarie ammirate in tutto il mondo, ma sono incapaci di unirsi e di consegnare il proprio destino nelle mani di un principe dotato di «virtù» e «fortuna».
L’appello del segretario fiorentino rimarrà inascoltato. Già con l’incoronazione imperiale di Carlo V d’Asburgo, avvenuta a Bologna il 24 febbraio 1530 per mano del papa Clemente VII – al secolo Giulio de’ Medici – si profila all’orizzonte quello che sarà l’esito della guerra: la pace di Cateau-Cambrésis, che nel 1559 metterà fine alle guerre d’Italia affermando un predominio asburgico sulla penisola che durerà fino alle campagne napoleoniche.

La saggezza dello storico

La consapevolezza di questo imminente tramonto della libertà italiana ispira al solito Francesco Guicciardini, conterraneo e amico di Machiavelli, un pessimismo che appartiene a un’intera generazione: «Tutte le città, tutti gli stati, tutti e’ regni», osserva il fiorentino nei Ricordi, «sono mortali; ogni cosa o per natura o per accidente termina e finisce qualche volta» (F. Guicciardini, Ricordi, 189).
«O per natura o per accidente»: la caduta è presente in nuce nello stesso sorgere delle città e dei regni ed è il caso a dominare le vicende umane. Eppure, proprio la storia insegna al saggio a sopportare le avversità preservando intatta la propria dignità anche nella sconfitta: impotente davanti al destino avverso, l’essere umano è sovrano nel proprio regno, quello dell'intelletto.

Bibliografia essenziale
Anselmi G.M., La Storia d’Italia tra saggezza dello storico e dramma della storia, in Bologna nell’età di Carlo V e Guicciardini, a cura di E. Pasquini, P. Prodi, Bologna, Il Mulino 2002, pp. 41-52.
Ariosto L., Orlando furioso, a cura di L. Caretti, 2 voll., Torino, Einaudi 2015.
Bacchelli F., L'esecrazione dell'arma da fuoco nell'Orlando Furioso (IX 28-94 e XI 21-28), in «In partibus Clius». Scritti in onore di Giovanni Pugliese Carratelli, a cura di G. Fiaccadori, Napoli, Vivarium 2006, pp. 259-330.
Boiardo M.M., Orlando innamorato. L’inamoramento de Orlando, a cura di A. Canova, 2 voll., Milano, BUR 2011.
Gardini N., Rinascimento, Torino, Einaudi 2010.
Guicciardini F., Ricordi, a cura di V. De Caprio, Roma, Salerno Editrice 1990.
Guicciardini F., Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Torino, Einaudi 1971, 3 voll.
Machiavelli N., Il Principe, a cura di G. Inglese, Torino, Einaudi 2013.
Pellegrini M., Le guerre d’Italia (1494-1530), Bologna Il Mulino 2017.

Crediti immagine: Entrata di Carlo VIII a Firenze, Francesco Granacci, 1518 (Wikimedia Commons)

Per il filosofo Reinhardt Koselleck, crisi è termine dalla “polivocità metaforica” e, proprio in virtù della sua duttilità semantica, ben si presta a indicare la condizione di incertezza del nostro tempo. Secondo lo studioso, infatti, il concetto di crisi, utilizzato a fine Settecento per alludere ai processi rivoluzionari in atto soprattutto nella storia francese, è diventato un tratto distintivo della modernità. Nel linguaggio comune attuale, crisi ha accezione negativa: segnala il rapido peggioramento di una condizione personale (come nel caso di una malattia), o di una fase storica suscettibile di sviluppi più o meno gravi. Annuncia, in generale, un futuro incerto e preoccupante.

Non così nell’etimologia del termine derivante dal greco krisis (κρίσις) che significa scelta, separazione, giudizio”; a sua volta, il sostantivo krisis deriva dal verbo krinein, “scegliere”, “giudicare”. Se il termine, in origine, alludeva alla perizia con cui gli agricoltori separavano il grano dalle piante infestanti per assicurarsi un buon raccolto, esso è poi diventato specifico del lessico giuridico, in riferimento al processo vero e proprio e al suo svolgimento in tribunale. In Platone (Leggi 856c4), per esempio, krisis ricorre per indicare il processo a cui è sottoposto un imputato accusato – nel caso specifico – di aver tramato contro l’ordine costituito. Sempre in ambito tecnico-giuridico, tra le numerose occorrenze del termine si può ricordare un passo di Senofonte (Anabasi I 6.5) in cui krisis allude sia al processo in sé (nel caso in questione, il nobile Oronta è accusato di alto tradimento) sia al giudizio di condanna, a seguito di una scrupolosa valutazione delle circostanze e delle prove a carico dell’imputato.

In ambito filosofico, krisis è la facoltà del retto giudizio. Non molto lontano da questa sfumatura originaria è l’uso che Kant farà del termine Kritik (stessa radice di krinein) nel titolo delle sue tre Critiche, alludendo all’analisi e alla valutazione delle condizioni di possibilità della conoscenza, dell’etica e del giudizio estetico. Nel mondo greco, già in Parmenide il termine indica la capacità di analizzare accuratamente la realtà, sceverando l’essere dal non essere: la Dea, introdotta nel Proemio del trattato parmenideo, esorta infatti il giovane iniziato a «giudicare con la ragione» (κρῖναι δὲ λόγωι, 28 B 7.5 DK), cioè a separare per mezzo del logos la via della verità dal sentiero ingannevole dell’opinione, a cui gli esseri umani preferiscono affidarsi. I mortali confondono le due vie di ricerca tracciate dalla Dea, sostenendo che essere e non essere sono e insieme non sono la medesima cosa, e vengono pertanto definiti ἄκριτα (aggettivo costruito con alfa privativo), cioè incapaci di krisis, di discernimento tra i due opposti (si vedano i frammenti 28 B 6.14 e B 8.15 DK). Anche in Aristotele krisis è la facoltà di «decidere intorno alla verità» (Metaph. 1063a13): prendendo a modello ciò che non muta, come i corpi celesti, Aristotele invita a non farsi ingannare formando un giudizio che parta da realtà sempre mutevoli, come avviene nel caso delle percezioni: se lo stesso fenomeno appare diverso a diversi percipienti, ciò non implica che siano tutti nel giusto; semmai, è necessario operare una distinzione tra ciò che è ingannevole nella sua mutevolezza e ciò che è immutabile, e può dunque valere come saldo criterio di conoscenza.

Krisis è, dunque, il fondamento razionale di un processo valutativo essenziale per giungere alla verità, soprattutto nel caso dell’indagine condotta dalla scienza (in particolare la medicina antica) o dalla storia (come in Tucidide). Nella sezione metodologica della sua opera, Tucidide dice di aver appurato gli eventi del passato attraverso le proprie ricerche condotte nel modo più accurato possibile. Il suo obiettivo non è rendere piacevole all’ascolto i fatti narrati, ma restituire la verità o avvicinarsi a essa attraverso un resoconto attendibile, a differenza di quanto avviene alla maggior parte degli esseri umani, che «preferisce rivolgersi a versioni già pronte dei fatti» (Hist. I 20.3). Il lavoro di ricerca ha nella krisis il suo momento costitutivo: da un lato lo storico valuta le fonti, privilegiando le testimonianze dirette e appurandone con scrupolo la affidabilità; dall’altro è ben consapevole che, come nel caso della medicina, la sua ricerca si basa sul vaglio delle prove (τεκμήρια) e sulla lettura dei segni (σημεῖα). L’attenta disamina di questo materiale avviene «con fatica» (ἐπιπόνως, I 22.3), sia perché i testimoni diretti riportano versioni contrastanti tra le quali lo storico deve operare una scelta, sia perché gli stessi testimoni tendono a cadere in un’illusione prospettica: da fine conoscitore dell’animo umano, Tucidide sa che gli uomini dapprima giudicano positivamente (κρίνειν) gli eventi a cui hanno partecipato considerandoli i più rilevanti del proprio tempo, poi – a posteriori – li trascurano, preferendo esaltare il passato più remoto.

Da questo punto di vista, il lavoro dello storico è assimilabile a quello del medico che anticipa, attraverso l’indagine sui sintomi, l’esito della malattia, prevedendo la guarigione o la morte. Sia nel Prognostico sia nelle Epidemie, trattati di medicina antica tramandati all’interno del Corpus Hippocraticum, krisis e termini derivati ricorrono in due accezioni principali: da una parte indicano i giorni critici o i segni critici (τά κρίσιμα, τά κρίνοντα), ovvero l’insieme significativo dei segni da valutare sia diacronicamente, nel loro manifestarsi in diverse zone del corpo, sia sincronicamente, cioè in diversi momenti nel corso delle settimane, per predire l’esito della malattia; d’altra parte, krisis è il processo, guidato dall’esperienza, di lettura e discernimento di sintomi che, nella fase prognostica, vengono valutati come fausti o infausti. Ciò che è oscuro e illeggibile ai più viene illuminato dalla competenza del bravo medico che, evitando il rischio di un approccio «interamente disordinato, irregolare o acritico» (πάνυ ἀτάκτως καὶ πεπλανημένως, καὶ ἀκρίτως, Epidemie I 2.4.80), sa riconoscere nei sintomi il segno della malattia o, viceversa, della forza vitale che assicurerà la guarigione.

Nella sua accezione positiva, dunque, crisi ha a che fare con l’analisi, la messa in discussione di una situazione contingente e, infine, il superamento di paradigmi interpretativi usurati o insoddisfacenti. La crisi può essere allora una formidabile opportunità per sciogliere il nodo problematico di un contesto (socioeconomico, politico, culturale o sanitario) compromesso, trasformando lo stallo in forza propulsiva, sempre a partire da un esercizio consapevole della razionalità e da un’accurata analisi del presente: tale discernimento chiede competenza, attenzione e cura.


Crediti immagine: La peste di Atene, Michiel Sweerts 1652-1654 circa (Wikimedia Commons)

La parola “crisi” è di quelle che mettono in… crisi! Usata e, troppo spesso, abusata; buona per tutte le stagioni, tanto per indicare piccole difficoltà personali («Sono un po’ in crisi…») quanto per designare reali e colossali tragedie geopolitiche (la “Crisi in Ucraina”). E inoltre, non bisogna dimenticarlo, può addirittura assumere una valenza positiva: le benefiche “crisi di sviluppo”, ad esempio, con happy end. Il cinema, da sempre e per sempre specchio della realtà, ha accettato tutte, ma proprio tutte queste suggestioni, ovviamente trasformandole da par suo. L’immagine cinematografica è inevitabilmente immagine deformante e deformata , ma non per questo meno interessante e colma di informazioni. Come un sogno, sta a noi interpretarla e “gustarla”. Non a caso, questa volta nella scelta dei titoli abbondano i capolavori.

La crisi!, di Coline Serreau, Francia 1992

Una vita piena di soddisfazioni, quella di Victor: un buon lavoro, una bella famiglia, nessun problema economico. Non c’è che dire, l’uomo è perfettamente soddisfatto di quello che ha costruito negli anni. E così, quando un mattino arrivando in ufficio scopre di essere stato licenziato, non sa farsene una ragione: ma perché, ma dove, ma come ha sbagliato? Povero Victor, non sa che è solo l’inizio dei suoi guai. Lo stesso malefico giorno, infatti, viene pure lasciato dalla moglie, apparentemente invaghita di un altro… La crisi, devastante, è stata repentina. Forse c’erano stati dei segnali, ma Victor non se n’era accorto, come confida agli amici che gli sono rimasti e presso i quali cerca conforto, dopo aver mandato i figli dai suoceri. Una crisi personale e famigliare che, nelle intenzioni della regista, diventa il segno di una crisi ben più grande, quella della società francese. Trent’anni fa come ora, le certezze venivano tutte messe in discussione: la famiglia, il lavoro, i punti di riferimento culturale. Un tarlo, questa crisi con il punto esclamativo del titolo, che non ha mai smesso fino ai giorni nostri di mandare in tilt “les citoyens français”.

La dolce vita, di Federico Fellini, Italia 1960

Torniamo indietro di altri trent’anni, nell’Italia felice e spensierata del “boom” economico. Ben pochi italiani, in quegli anni, potevano o volevano pensare a una possibile crisi in arrivo: la guerra era finita da 15 anni, l’imperativo assoluto per tutti era lavorare, darsi da fare, mettere via un po’ di soldi e, perché no?, divertirsi. Ed è proprio qui che arriva quel “guastafeste” di Fellini (se ci pensate bene, gli artisti più grandi sono sempre un po’”guastafeste”): il grandissimo regista di Rimini, che scrive il film assieme agli sceneggiatori Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, vede che la macchina sociale si sta inceppando, che dietro tutta quella smania, quella voglia di strafare si comincia a sentire qualcosa, anzi molto che non va. E così, mentre da una parte un giovanissimo Adriano Celentano canta a squarciagola Ventiquattromila Baci, enorme successo del momento, dall’altra il giornalista Marcello, il protagonista, vaga per Roma sempre più travolto da un’insuperabile insoddisfazione esistenziale. Partito dalla provincia (come esattamente aveva fatto il regista in gioventù)  passa i giorni e le notti inseguendo la cronaca mondana della Capitale, per poi riversarli nei suoi articoli. Ma più la vita, soprattutto quella notturna, appare sfavillante e piena di promesse, più si fa largo il Vuoto. Nessun senso, nessuna speranza, nessun vero sentimento, tutto sembra essere travolto. Fellini e i suoi sceneggiatori “pre-vedono”, “sentono” che il giocattolo sta rompendo. L’età italiana più felice, che ha tra l’altro coinciso con lo sviluppo impetuoso del nostro cinema migliore, sta inesorabilmente entrando in “crisi”.

Per approfondire: https://bit.ly/3UFHBYK

Andrej Rublëv, di Andrej Tarkovskij, Urss 1966

E ora un grande salto nel passato, addirittura nel Medioevo russo. Come già con La dolce vita, anche qui siamo di fronte a un immenso capolavoro: un film profondo, maestoso, da vedere con attenzione quasi religiosa. Un film non facile, certo, ma che a ogni nuova visione rivela ricchezze inaspettate. Sullo sfondo di tragiche vicende storiche (invasioni, guerre, tradimenti, ovunque violenza e morte) il film racconta il peregrinare, fisico e spirituale, del monaco Andrej Rublëv, straordinario pittore di icone realmente vissuto tra il 1360 e il 1430. Tutto il tempo della sua esistenza è un tempo di grande crisi: la terra russa è percorsa da orde di barbari, i principi si fanno la guerra l’un l’altro, per gli umili non sembra esserci speranza. E quando Andrej, già divenuto esperto nel suo mestiere sacro, assiste a un atto di violenza particolarmente efferato ed è costretto lui stesso a uccidere un soldato, ecco che entra in una crisi personale radicale. Per espiare la sua colpa non solo non dipingerà più, ma addirittura si chiuderà in un mutismo assoluto. Il mondo, dunque, rischia di perdere un artista favoloso, una persona che con la sua opera più illuminare la via e la vita degli altri esseri umani. È giusto tutto questo? Ha il diritto Andrej di privare i suoi contemporanei e noi tutti del suo divino talento? L’ultimo, grandioso episodio del film (intitolato La campana) ci dà la risposta. Ed è una risposta che ci illumina e ci riempie di gioia perché Andrej scopre la ragione per continuare a lavorare, per donare di nuovo la sua arte al mondo. Se pensate che il regista Andrej Tarkovskij lavorava in Unione Sovietica, uno Stato governato da una feroce dittatura comunista, vi rendete conto di quanto le vite dei due Andrej, il pittore e l’uomo di cinema, finiscano per coincidere e per donare anche a noi una possibile via di soluzione alle crisi, ora come allora, che incombono sull’umanità.

Il padre di famiglia, di Nanni Loy, Italia 1967

Prodotto pochi anni dopo La dolce vita, ecco un altro film indagatore sul “male di vivere” che sembra essersi impossessato della società italiana a cavallo tra i favolosi anni Cinquanta e il sempre più problematico decennio successivo. Seguiamo la parabola esistenziale di Paola e Marco: studenti di architettura  all’Università di Roma, si fidanzano e si sposano appena finita la Seconda guerra mondiale, quando tutto il nostro Paese nutre una straordinaria speranza nelle possibilità del futuro. I due non sono certo da meno, anche perché il loro mestiere li spinge a sognare nuovi scenari urbanistici liberi dalla speculazione, attenti alle esigenze dei cittadini più svantaggiati. E invece… e invece la realtà è molto, molto diversa. I palazzinari imperano, i compromessi sono sempre più pesanti, la famiglia cresce in continuazione. Ora Paola e Marco hanno quattro figli, e lei ha abbandonato il lavoro fuori casa per dedicarsi completamente alle faccende domestiche, mentre lui è sempre più insoddisfatto e desideroso di cambiare vita. I sogni sono morti, la quotidianità sommerge tutto, il futuro non sembra più promettere nulla di buono. Sullo sfondo di vent’anni della vita di una famiglia, Nanni Loy racconta l’intera parabola di un Paese, la nascita di una crisi radicale che ha le sue radici in un passato lontano, sul quale non si è mai adeguatamente riflettuto.

Donne sull’orlo di una crisi di nervi, di Pedro Almodóvar, Spagna 1988

Sono due i motivi per inserire il film di Almodóvar (il «monellaccio del cinema spagnolo post-franchista», secondo l’arguta definizione del critico Morando Morandini): la prima è perché ha la parola “crisi” nel titolo, proprio come la pellicola che sta in testa alla nostra lista; la seconda sta nel fatto che, finalmente!, si tratta di una storia divertente, addirittura una commedia con risvolti farseschi. Dunque, sulla crisi si può anche ridere, la crisi e la mitologia della crisi possono essere prese in giro, regalando allo spettatore una ristorante pausa di pace e sollievo dal “logorio della vita moderna”. Sono tutti un po’ “fuori di zucca”, i protagonisti, in linea con lo stile che da sempre caratterizza il regista spagnolo. C’è una donna, Pepa, che è appena stata lasciata dal suo compagno. Lei crede che lui sia tornato con l’ex moglie, uscita da poco dall’ospedale psichiatrico, e invece l’uomo ha un’altra amante. Intanto, nell’appartamento di Pepa si succede un vortice di avvenimenti, compreso persino l’arrivo di due poliziotti alla ricerca di terroristi, insieme a svariati altri personaggi di ogni tipo. Tutti, più o meno, in crisi, soprattutto le donne, come recita il titolo, lì lì per scoppiare. Siamo diventati un po’ tutti matti? Almodóvar ce lo ripete dal lontano 1988 in tanti dei suoi film, passando con naturalezza dalla commedia al melodramma, fino a sfiorare la tragedia. Qui esorcizza la parola “crisi”: lo fa con sofisticata maestria, giocando con i suoi personaggi, prendendo in giro le loro nevrosi. Che, con ogni probabilità, sono spesso anche le nostre…


(Crediti immagine: Pixabay)

A pochi anni dal termine della Seconda guerra mondiale, l’Europa si trova ad affrontare nuovi e cruenti conflitti, non più all’interno dei propri confini, ma nei suoi storici possedimenti coloniali che tentano ora di ribellarsi a secoli di violenze e sopraffazioni in un complesso scenario geopolitico globale. In questo contesto, emblematico si rivela la lotta del popolo algerino contro il dominio francese che porta con sé non solo sette lunghi anni di lotte sanguinose – dal 1954 al 1962 – ma anche una profonda lacerazione all’interno della società francese con alcuni filosofi e intellettuali di primo piano che, prendendo le difese della causa algerina, vengono etichettati come traditori dal proprio paese e arrivano persino a rischiare la vita per difendere queste posizioni.

Per approfondire il contesto in cui ha avuto inizio la Guerra d’Algeria, il suo sviluppo e la sua conclusione, si rimanda alla seguente puntata de Il Tempo e la Storia:
https://www.raiplay.it/video/2014/04/Il-tempo-e-la-Storia-I-francesi-e-la-guerra-di-Algeria-del-30042014-216fad9c-79b9-4d25-a583-65d9296bf65e.html

La Francia, patria dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), del motto «Libertà, uguaglianza, fraternità», si trova a fare i conti con gli spettri di un passato e di un presente coloniale in cui alcuni dei suoi valori fondanti sono stati deliberatamente e ripetutamente calpestati, in nome di un benessere economico destinato a pochi. Certamente, non si tratta dell’unica potenza colonialista europea. Tuttavia, proprio in virtù della narrazione su cui ha costruito la propria identità, attraverso la sua cultura e il suo pensiero filosofico, la Francia costituisce forse l’esempio più significativo della crisi dell’Europa e dell’Occidente di fronte alle rivendicazioni dei Paesi del cosiddetto Terzo Mondo che porteranno nel corso del Novecento al processo di decolonizzazione (per alcuni mai davvero realizzato).

È il testo I dannati della Terra di Frantz Fanon (1925-1961) a squarciare la cortina delle certezze francesi ed europee. Fanon è uno psichiatra e scrittore, originario della Martinica, una piccola isola del Mar dei Caraibi, possedimento tuttora francese. Egli stesso si unirà al Fronte di Liberazione Nazionale algerino, con il fine di combattere per una causa che oltrepassa le motivazioni strettamente nazionaliste. Il testo di Fanon, pubblicato nel 1961, è ancora oggi una pietra miliare per questi temi, imprescindibile punto di partenza per chiunque intenda affrontarli.

Per approfondire la biografia e il contributo intellettuale di Frantz Fanon, si rimanda alla puntata di Wikiradio di Radio3: https://www.raiplaysound.it/audio/2018/11/WIKIRADIO---Frantz-Fanon-04e0c695-c018-49f6-9622-06ecedc20293.html

La prefazione del libro è firmata da uno dei più importanti filosofi francesi, Jean-Paul Sartre (1905-1980), da anni schierato contro il proprio paese sulla questione algerina. Sartre definisce “scandaloso” il libro di Fanon, perché per la prima volta il rapporto tra soggetto e oggetto della narrazione viene ribaltato: sono gli europei e le loro azioni a essere ora al centro dell’analisi e a portare avanti questa critica sono le vittime del secolare sistema colonialista. Nel suo testo, Fanon accusa in modo duro e deciso non un generico Occidente, ma specificamente l’Europa, colpevole di aver «arrestato la progressione degli altri uomini e [di averli] asserviti ai suoi disegni e alla sua gloria; secoli che in nome di una pretesa “avventura spirituale” hanno soffocato la quasi totalità dell’umanità».

L’Europa ha posto al centro della costruzione della propria identità l’“uomo” e l’“umanità”, intendendo però con questi concetti solo una minoranza ben circoscritta e privilegiata della popolazione mondiale. Già nell’editoriale Il colonialismo è un sistema, pubblicato nel 1956 su Les Temps Moderns, Sartre individuava in modo chiaro la strategia utilizzata per giustificare prevaricazioni e violenze: abbassare l’indigeno al rango di selvaggio, di animale, di sub-umano. Questa disumanizzazione dell’Altro ha consentito di difendere sfruttamento e schiavismo, mantenendo volutamente interi popoli nella miseria e nell’ignoranza per poter continuare a servirsene. Lo stesso linguaggio che è stato coniato ed elaborato nel tempo per riferirsi ai popoli colonizzati è un linguaggio che Sartre definisce «zoologico» quando si riferisce a uomini e donne dei territori conquistati alla stregua di «scimmie superiori»: persone che si scoprono «animali nelle parole dell’altro».

Emerge in questo discorso anche un altro tema, quello della paura dell’uomo bianco di fronte all’Altro. Fanon aveva già toccato questo punto nell’altro suo fondamentale testo del 1952 Pelle nera, maschere bianche, in cui scardinava il meccanismo sottile che si crea tra carnefice e vittima: «lui [il bianco] ha paura di me non a causa di ciò che gli ho fatto, ma a causa di quello che lui mi ha fatto e che pensa potrei fargli in risposta». Come superare allora la frattura che si è generata tra europei e resto del mondo? Fanon pone come primo imperativo quello di non imitare l’Europa e il suo pensiero, ma di orientare lotte e cervelli verso la creazione di un essere umano che sia davvero “totale”, archiviando la corrispondenza tra essere umano ed essere europeo.

Mettere in discussione una narrazione. Il lato oscuro dell’Illuminismo europeo

Non sarebbe corretto pensare al colonialismo come mera azione di forza e conquista. Riprendendo le parole di Sartre, il colonialismo ha costituito un vero e proprio sistema, che ha potuto radicarsi e prosperare per secoli anche grazie alle argomentazioni filosofiche del mondo intellettuale europeo che si sono depositate nell’immaginario comune. L’illuminismo è tuttora descritto come il periodo che più ha plasmato l’Europa e i suoi valori fondanti, ma spesso si sorvola sulle responsabilità del pensiero europeo nella giustificazione di azioni atroci.

Ne Lo spirito delle Leggi, tra i testi caposaldo del diritto europeo, Charles-Louis Montesquieu (1689-1755) si dichiarava favorevole alla colonizzazione. Riprendendo la teoria dei climi, già diffusa nel mondo greco, sosteneva che il clima temperato, tipico dei paesi europei, non predisponeva i suoi abitanti alla schiavitù, a differenza di quello asiatico che rendeva impossibile poter trovare in quei territori una vera «anima libera». Montesquieu riusciva in questo modo da un lato a sostenere che la schiavitù fosse contro natura, ma dall’altro ad argomentare che in alcuni paesi si basasse su una legge naturale. Ancora, nel Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1755), Voltaire descriveva i neri come dotati di un’intelligenza inferiore a quella degli europei, incapaci di attenzione e poco propensi a combinare qualcosa, certamente non portati per la filosofia. Per buona parte degli illuministi, la colonizzazione consisteva in una vera e propria missione civilizzatrice, che aveva il nobile obiettivo di far progredire intellettualmente e moralmente i “cattivi selvaggi”. Per giustificare posizioni di questo tipo, viene spesso usato l’argomento secondo cui la “sensibilità” di quel periodo storico fosse ancora scarsa su questi temi. Tuttavia, voci contrarie si erano levate, poche e isolate, anche se non meno prestigiose. È il caso di Denis Diderot (1713-1784) convinto che “civilizzare” significasse assoggettare a una forma di tirannia.

Consigli di lettura

E oggi? La crisi pare non essere stata davvero affrontata e tantomeno superata. Le sfide contemporanee a livello globale fanno tornare in primo piano le lucide analisi di Fanon, mostrando come determinati processi storici siano strettamente legati al nostro presente. La letteratura che affronta, da prospettive diverse, questi temi è molto ricca, ma proviamo a segnalare un paio di testi significativi.
Il primo è Il pensiero bianco (2021) di Lilian Thuram, ex calciatore da anni impegnato contro il razzismo. Il libro, di carattere divulgativo e accessibile, si concentra proprio sulla Francia, ricostruendo passaggi storici importanti per il paese. Questo percorso è orientato alla lettura del presente e a quanti e quali siano ancora gli irrisolti di una (ex) potenza coloniale.

Il secondo libro che si segnala è La maledizione della noce moscata (2022) del celebre scrittore indiano Amitav Ghosh. Partendo da un fatto realmente accaduto nel lontano arcipelago delle Banda nel 1621, Ghosh ripercorre secoli di conquista e sfruttamento da parte degli europei, mostrando come quella storia non sia ancora chiusa ma giochi un ruolo cruciale nei problemi geopolitici attuali.

Crediti immagine: Soldati del Fronte di Liberazione Nazionale durante la Guerra d’indipendenza algerina, 1958, Museo d’Arte Africana, Belgrado. Foto di Zdravko Pečar (Wikimedia Commons

Anche se a prima vista quella di “crisi adolescenziale” sembra una locuzione ormai superata, una sorta di luogo comune del passato in un mondo in cui i genitori non vogliono essere antagonisti dei figli e i figli accettano un alto grado di collusione con i genitori, la crisi è invece un evento che si manifesta ancora ed è dettata dalla natura dell’evoluzione psicologica.

Che cosa è la crisi adolescenziale

Che cosa succede nel corso della preadolescenza e dell’adolescenza? È sotto gli occhi di tutti che il corpo si trasforma; tuttavia anche l’identità del giovane cambia in profondità e quello che era un bambino diventa progressivamente un adulto. Per farlo però deve rendersi autonomo dai genitori, ossia diventare una persona che non è qualificabile (anche ai propri occhi) come “un figlio” e, per compiere questo passo,  deve paradossalmente interiorizzare le qualità degli adulti, dai quali sta prendendo le distanze.
Perché quindi l’adolescenza è un periodo di crisi? Perché innesca un cambiamento profondo, vissuto con difficoltà, durante il quale il giovane è alla ricerca di punti di riferimento nuovi, deve mettere a fuoco una nuova immagine di sé e del suo corpo. Ma questo processo avviene in una condizione di fragilità, quando l’adolescente, per dirla con una metafora della psicanalista Françoise Dolto (in Adolescenza. Esperienze e proposte per un nuovo dialogo con i giovani tra i 10 e i 16 anni, Mondadori, Milano 1988), è vulnerabile come un crostaceo che sta cambiando il guscio e le ferite del momento resteranno visibili anche sotto la nuova corazza.
A questa fragilità si somma la presenza ingombrante del “genitore nascosto”, che la psicoterapeuta Giovanna Ranchetti indica come una presenza interna nel figlio, in grado di intralciare il giovane nel suo desiderio di crescita e individuazione (Il genitore nascosto, FrancoAngeli, Milano 2005).

L’espressione genitore nascosto può essere usata in diversi sensi: come una presenza interna e ingombrante di una figura familiare, ma anche come una costruzione fantasmatica di chi non ha conosciuto i propri genitori. Per questo secondo senso si veda per esempio il seguente articolo https://www.stateofmind.it/2021/09/genitore-nascosto-adozione/ 

Quali sono gli aiuti per evolvere

Che cosa si agita nel profondo della mente di un adolescente? Secondo lo psicologo Pietropolli Charmet, l’adolescente in crisi, come in realtà tutti gli adolescenti, «vuole assolutamente definire chi è, cosa vuole, dove finirà, quali siano i propri valori e tutte le vicende collegate a quest’area di ricerca introspettiva» (G. Pietropolli Charmet, Adolescente e Psicologo. La consultazione durante la crisi, FrancoAngeli, Milano 1999). Per arrivare a questo scopo, e infine per approdare a un’indipendenza affettiva dai genitori e a riconoscersi come un soggetto autonomo, capace di distinguere i propri desideri da quelli trasmessi dai genitori, occorre un grande lavoro introspettivo, che può essere bloccato da molteplici ostacoli.

Gustavo Pietropolli Charmet è tra i fondatori dell’Istituto Minoaturo di Milano. https://minotauro.it/chi-siamo/ 

L’adolescente a scuola

Una buona fetta della vita di un adolescente o di un preadolescente si svolge a scuola. Per questo, spiega Giovanna Ranchetti, la scuola è una delle scene su cui svolge il dramma adolescenziale. Anzi, per certi versi è un luogo privilegiato. A scuola si forma un gruppo di pari, nei quali l’adolescente cerca un rispecchiamento delle proprie paure e insicurezze: vederle riflesse negli altri rende infatti più normale il proprio vissuto.
Anche i docenti svolgono un ruolo al di là della loro funzione di insegnamento: rappresentano infatti degli adulti da cui prendere al contempo esempio e le distanze. Si tratta di adulti con i quali il rapporto è meno conflittuale di un tempo, cosa che rende forse più difficile un processo di identificazione.
Da qualche tempo a scuola è possibile incontrare adulti diversi dagli insegnanti, che possono porsi come un supporto alla crescita del giovane. La figura dello psicologo si presenta in modo differente da un tempo: invece di essere una figura sanitaria che affronta una patologia, in molti casi il suo ruolo è quello di supportare i giovani nella crescita, rivestendo il ruolo di “adulti non giudicanti”.
La scuola si presta molto bene come sfondo di questa azione sia perché in essa il preadolescente o l'adolescente mette in scena il proprio disagio, interagendo con coetanei e adulti, sia perché l’intervento psicologico a scuola costituisce un aggancio “facile” tra mura protette.

Cosa succede all’adulto di fronte all’adolescente in crisi

L’adolescente o il preadolescente in crisi sono soggetti con cui è difficile porsi in relazione. L’adulto deve fare i conti con un ruolo di stimolo e di supporto che di gratificazioni a breve termine ne dà poche. Ancora Françoise Dolto evidenzia la scarsa considerazione in cui sembra essere tenuto il docente anche quando stimola lo studente e cerca di valorizzarlo, ma ricorda quanto lo sforzo sia in realtà importante per il giovane.
La crisi dell’adolescenza non è infatti solo un fatto biologico, ma l’esito di una società che non è in grado di fornire punti fermi e appigli sicuri: non solo non esistono riti di passaggio che rendono socialmente adulti, ma la possibilità di essere autonomi da un punto di vista economico si riducono e così anche quella di essere adulti.
A questa assenza di simboli dell’adultità o di limiti materiali nello sperimentarla si aggiunge lo sguardo attonito dei figli quando scoprono che i loro genitori “vivono a loro immagine”, senza restare disorientati perché ritrovano qualcosa della loro adolescenza in quella del figlio o addirittura si mettono in concorrenza con loro, evidenzia sempre Françoise Dolto.
In assenza di nuovi modelli e valori sociali forti, di riti di passaggio consolidati, di una patente sicura di adultità, anche la crescita sembra talvolta doversi affidare all’aiuto di un professionista dell’ascolto, lo psicologo, carico di empatia e di capacità di aiuto. Una tendenza emersa negli ultimi anni, e che l’epoca delle attuali incertezze non ha fatto che rafforzare.
O il combinato disposto delle crisi sanitarie, politiche e demografiche ridisegnerà anche la crisi adolescenziale?


Crediti immagine: Pubertà, Edvard Munch, Oslo, Munch Museet 1893

L’opera che trovate a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=JTEFKFiXSx4 si chiama 4’33’’: è un’opera musicale, lo è davvero, è stata composta nel 1952 dal grande compositore americano John Cage e può essere eseguita da qualunque strumento o ensemble musicale – così dice una nota sullo spartito. Sono 3 movimenti, nel senso che il primo dura per i primi 30’’, il secondo 2’23’’, il terzo 1’40’’. Sono 4’33’’ di completo, assoluto silenzio – anche se, diceva Cage, il silenzio non c’era mai del tutto: nei teatri, durante l’esecuzione, c’era sempre un colpo di tosse, un fruscio, insomma il rumore normale del mondo che, nelle intenzioni del compositore, era ed è parte integrante di 4’33’’. Ma su disco, per esempio, non si sente nulla, ed è una sensazione stranissima: là dove ci dovrebbero essere suoni non c’è niente, c’è lo zero assoluto.

Ora, direte voi, cosa c’entra tutto questo con le figure retoriche? C’entra, perché anche il silenzio è un artificio retorico. È il punto d’approdo più radicale di pratiche come la preterizione, l’ellissi, lo zeugma – insomma di tutte quelle figure che lavorano sul non detto, sulla sottrazione.

Pensate agli spazi bianchi, al niente, di certe poesie. Vi faccio un esempio, Veglia di Ungaretti:

Un’intera nottata
Buttato vicino
A un compagno
Massacrato
Con la bocca
Digrignata
Volta al plenilunio
Con la congestione
Delle sue mani
Penetrata
Nel mio silenzio
Ho scritto
Lettere piene d’amore

Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.

Ora, si tratta di una poesia di immediata comprensione, con tutti quei participi passati messi lì a specchio, e lasciati soli nel verso come solo è chi scrive e chi muore («buttato»/ «massacrato», «digrignata»/«penetrata»), e senza dubbio quando ve la spiegano vi raccontano della forza di quei versi brevissimi. Un bravo professore vi dirà però anche che il momento chiave di Veglia è lo spazio bianco che c’è prima dei tre versi finali. Cioè quel momento di silenzio, di niente, che Ungaretti ha messo prima di quella chiusa paradossale e potentissima. Non vi fidate? Fate la prova, togliete lo spazio bianco:

Un’intera nottata
Buttato vicino
A un compagno
Massacrato
Con la bocca
Digrignata
Volta al plenilunio
Con la congestione
Delle sue mani
Penetrata
Nel mio silenzio
Ho scritto
Lettere piene d’amore.
Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.

È ugualmente forte? No, dai. A leggerla di fila, senza quello stacco, si sente meno il paradosso degli ultimi versi, e verrebbe da dire che Ungaretti poteva tranquillamente chiudere dopo le «Lettere piene d’amore» (dopotutto, il concetto di vita è contenuto anche in quel verso). In questa forma “senza silenzio”, gli ultimi tre versi non sembrano più necessari.
Ma attenzione: è importante sapere anche quando è giusto tacere, o mettere uno spazio bianco. Proviamo a fare un altro esperimento, sempre su Veglia, dividendola in modo didascalico: i primi undici versi che parlano di morte e poi, dopo lo stacco, quelli su amore/vita. Eccola:

Un’intera nottata
Buttato vicino
A un compagno
Massacrato
Con la bocca
Digrignata
Volta al plenilunio
Con la congestione
Delle sue mani
Penetrata
Nel mio silenzio.

Ho scritto
Lettere piene d’amore
Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.

È un po’ moscia, vero? Di nuovo dà la sensazione che gli ultimi tre versi siano un po’ ridondanti, ma soprattutto la divisione in due tronconi così monolitici, così monotematici, rende il tutto un po’ rigido, un po’ “spiegato”.
Ecco, il silenzio è un artificio retorico, qualcosa che dà forza alle parole che si usano prima e dopo di lui: è per questo che è importante riconoscere quando si può, o si deve, tacere.


(Crediti immagine: EliFrancis, Pixabay)

Salute mentale, discorso pubblico e creazione artistica

Da tempo al centro dell’attenzione di studiosi e organizzazioni nazionali e interazionali come ISS e OMS, il tema della salute mentale sta guadagnando un nuovo spazio nel discorso pubblico e nelle narrazioni mediali.
L’immagine di chi soffre di disturbi mentali fatica ancora a svincolarsi da diffidenze e pregiudizi, rimanendo facile oggetto di etichette e ritratti stereotipati. Persiste la percezione di una separazione tra “sano” e “malato”, tra quanto può stare alla luce del sole e quanto si ritiene meglio occultare, gestendolo nel privato. Una distinzione che agisce a livello sociale ma anche nelle autorappresentazioni, se la paura dello stigma spinge spesso a non lasciar trasparire all’esterno le proprie esperienze di disagio mentale.
In questo scenario, un posto peculiare è occupato dalla figura dell’artista, per cui si ripropone uno dei topoi più longevi e consolidati, quello del legame tra “genio” e “follia”. Un’associazione per cui da un lato al disturbo neuropsichiatrico si accompagna uno stato di particolare sensibilità, che rende gli artisti maggiormente ricettivi alle emozioni umane, dall’altro la sofferenza psicologica ed esistenziale genera l’arte più intensa e autentica. L’artista si colloca dunque in un regime di eccezione in cui il disagio mentale è socialmente accettato, proprio perché dichiaratamente fuori dalla norma.
I prossimi paragrafi illustrano come questo approccio viene ridefinito in alcuni prodotti culturali, approfondendo l’esempio di un graphic novel, Marbles. Mania, depressione, Michelangelo e Me (Ellen Forney, 2012) e di una serie televisiva, Tutto chiede salvezza (Francesco Bruni, 2022).
Queste narrazioni scelgono la strada dell’autobiografia come momento di rielaborazione del vissuto, ma anche come apertura allo spazio pubblico del tema della crisi e della salute mentale. Inoltre, questi prodotti si interrogano sul rapporto tra sofferenza psichica e creatività, riaffermando l’esistenza di un rapporto privilegiato ma raccontandolo in modo nuovo, più prosaico forse, ma anche più realistico ed equilibrato.

Per approfondire
Indagine statistica sulla percezione della salute mentale in Italia: https://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato1664180969.pdf

World Mental Health Report della World Healt Organization (2022): https://www.who.int/publications/i/item/9789240049338

Il disturbo bipolare a fumetti: Marbles

In Marbles, Ellen Forney, fumettista di Seattle, narra il percorso di scoperta e accettazione del proprio disturbo bipolare. La chiave autobiografica è esplicita e fondamentale per comprendere appieno l’opera: la rielaborazione narrativa dell’esperienza è insieme modo per rimetterla in forma e strumento per connettersi con gli altri, portando allo scoperto una parte di sé difficile da raccontare.
La protagonista ha trent’anni, è un’artista di successo, affermata rappresentante del mondo queer, e si sente al massimo della sua energia. Quasi improvvisa, la diagnosi di una psichiatra la spinge a rileggere sotto nuova luce l’alternarsi di momenti di euforia maniacale e di profondi stati depressivi che caratterizzano la sua esistenza. Più a fondo, Ellen deve imparare a ripensare sé stessa, la propria identità e le proprie relazioni. Si può convivere con un il bipolarismo? È davvero necessario assumere farmaci per regolare l’umore? Come relazionarsi con le altre persone?
La protagonista deve capire come sia possibile rimettere insieme il proprio io mentre si è in balia di stati d’animo opposti, che si alternano in maniera improvvisa. Questa costante instabilità viene raccontata attraverso uno stile articolato, a tecnica mista, in cui testo e immagini si aggrovigliano e si compenetrano, o al contrario sembrano entrambi dissolversi.
Tavole dense di parole e disegni restituiscono l’affollamento mentale negli stati maniacali: la saturazione della pagina disorienta chi legge, immergendolo senza mediazioni in un susseguirsi vorticoso di pensieri esaltati. In altri passaggi, la narrazione conduce attraverso pagine fitte di testo, di descrizione di sintomi, di autoanalisi. In questi fiumi di parole, i contorni del disturbo vengono tratteggiati in modo sempre più preciso, con minuzia chirurgica. Eppure, questa estrema consapevolezza fatica a lungo ad associarsi a un reale controllo dei sintomi. A creare improvvise rotture intervengono allora tavole in cui lo spazio della pagina si svuota, il tratto si fa meno deciso, più tormentato. Sono i momenti di crisi depressiva, i “bassi” della solitudine e della disperazione, a cui Ellen cerca di dare forma tracciando schizzi su un quadernino.
A lungo oscillante verso questi stati opposti, la narrazione si appoggia, nella ricerca di stabilità, ai lunghi momenti di confronto con la psichiatra, oltre che agli sforzi sempre più consapevoli della protagonista per stare meglio.

Genio e “follia”

Al processo di ricerca di un equilibrio si intreccia la riflessione sul rapporto tra arte e malattia mentale, e sullo spazio che rimane alla creatività sotto l’azione delle terapie. «Se prendo i farmaci per prevenire i miei sbalzi d’umore, sto scegliendo di essere meno creativa?» (p. 219). La domanda, la prima a sorgere in Ellen quando le vengono proposti le cure, percorre sottotraccia tutta la narrazione ma viene affrontata di petto solo quando il suo percorso è ormai avviato al miglioramento.
Nell’imparare a conoscere il suo disturbo, la fumettista trova un confronto prezioso nelle opere di figure dolenti e tormentate come Michelangelo, Paul Gauguin, Edward Munch, Georgia O'Keefe, William Styron, Sylvia Plath. Ellen si abbandona a un’esplorazione della loro arte alla ricerca delle tracce di un male comune, ma soprattutto, come lei stessa ammette, di “compagnia”.
La protagonista si pone allora una domanda fondamentale: soffrire rende artisti migliori? Scegliendo di curarsi, sta rinunciando alle sue idee più originali?
L’istinto le dice che ha bisogno di trovare un equilibrio, ma rimane insistente il dilemma su come conciliare la spinta alla sopravvivenza con le narrazioni che legano in maniera inscindibile arte e follia. Sciogliere questo dubbio richiede un ulteriore passaggio nella consapevolezza di sé, per superare l’idea romantica dell’artista: è solo nello stato di stabilità, per quanto relativa, che la più genuina spinta creativa trova lo spazio per emergere.

Per approfondire: altri graphic novel sul tema del disturbo mentale

La mia ciclotimia ha la coda rossa (Lou Lubie, 2017) https://www.ascuoladifumetto-online.com/prodotto/la-mia-ciclotimia-ha-la-coda-rossa-nuova-edizione/

Il Nao di Brown (Glyn Dillon, 2013) https://baopublishing.it/prodotti/il-nao-di-brown-nuova-edizione/

La differenza invisibile (Caroline Mademoiselle, Julie Dachez, 2018) https://www.edizionilswr.it/cultura-e-societa/la-differenza-invisibile.html

Maria e io (Miguel Gallardo, Maria Gallardo, 2009) https://www.comma22.com/maria-e-io/

The Bad Doctor (Ian Williams, 2014) https://myriadeditions.com/books/the-bad-doctor/

Dal romanzo alla serie: Tutto chiede salvezza

Tutto chiede salvezza è una serie prodotta da Netflix, uscita nell’ottobre del 2022. È tratta dal romanzo omonimo di Daniele Mencarelli, Premio Strega Ragazzi nel 2020, secondo di una trilogia autobiografica che comprende anche La casa degli sguardi (2018) e Sempre tornare (2021).
A vent’anni, dopo una violenta esplosione di rabbia, Daniele viene sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio (TSO). È il 1994. Mentre fuori è estate e si giocano i Mondiali di calcio, per una settimana Daniele condivide con cinque sconosciuti una stanza del reparto di psichiatria. Quello spazio apparentemente fuori dal mondo diventa terreno su cui si compie un percorso di crescita, che passa innanzitutto per l’acquisizione della consapevolezza di sé e della propria fragilità.
La serie è stata scritta con la collaborazione di Daniele Mencarelli ed è diretta dallo sceneggiatore e regista Francesco Bruni. Come nel libro, la crescita di Daniele deve passare attraverso la consapevolezza di quello che ha fatto, l’accettazione delle proprie fragilità e la comprensione di quelle altrui, al di là di ogni giudizio.
Il racconto audiovisivo riprende la scansione temporale del romanzo, sviluppandosi in sette episodi, uno per ciascun giorno di TSO. Lo spazio è quello chiuso e isolato del reparto di psichiatria. Un ambiente che cerca però in tutti i modi una relazione con l’esterno: le finestre si aprono (inusuale per una sezione di psichiatria), i ricoverati passano eccezionalmente un pomeriggio in cortile, i visitatori vengono lasciati entrare fuori dagli orari programmati. Ben presto il reparto si rivela essere microcosmo in cui si riflettono, pur compresse e più violente, le dinamiche del “mondo là fuori”. Daniele e i compagni di stanza Gianluca, Mario, Giorgio, Madonnina e Alessandro sono “l’altra faccia della medaglia”, quel rimosso che la società non vuole vedere ma che ne porta allo scoperto le tensioni più profonde.

Tra le scelte di sceneggiatura più incisive c’è innanzitutto quella di rinunciare alla voce narrante in prima persona del romanzo. Rimane assoluta la centralità del protagonista, ma si perde la connotazione autobiografica del testo letterario. Inoltre, la serie viene ambientata nel presente e viene aggiunta una linea narrativa inedita: Daniele si innamora di Nina, sua coetanea che si trova in TSO nel reparto femminile dopo un tentato suicidio. La storia d’amore guadagna man mano peso narrativo, fino a diventare negli ultimi episodi il motore di importanti vicende e la cartina al tornasole del cambiamento avvenuto in Daniele.
Questa soluzione contribuisce a dare alla serie un appeal sul pubblico giovane, cui si rivolge in prima battuta il racconto. Non a caso il protagonista è interpretato da Federico Cesari, che ricopre anche il ruolo di Martino, uno dei personaggi più amati della serie adolescenziale Skam (di Ludovico Bessegato, 2018-). Inoltre, la linea narrativa legata a Nina prova a sviluppare il tema del discorso pubblico sulla salute mentale radicandolo nel contesto dei consumi mediali giovanili. Nina è un’attrice e influencer, da un lato schiacciata da figure adulte che la spronano al successo senza curarsi delle sue emozioni, dall’altro vittima di un violento discorso d’odio che la assale sui social network. Nel suo tormentato processo di accettazione della parte fragile di sé si confronta costantemente con lo sguardo altrui e la paura del giudizio. Al suo personaggio si lega il tema della visibilità del disagio mentale, in particolare nell’arena dei social media: è possibile raccontare pubblicamente la propria fragilità, incrinando l’immagine irrealistica di successo che i profili social rendono possibile costruire? Pur solo accennato, questo spunto va a toccare uno degli elementi di maggior fragilità per la popolazione più giovane, sul cui immaginario agiscono in modo potente e frustrante gli irraggiungibili modelli di perfezione veicolati da alcune narrazioni di sé sui media. Il tentativo della serie è dunque quello di sensibilizzare quelle fasce d’età al discorso sulla salute mentale e sui disturbi che possono colpire il benessere emotivo, sociale, relazionale.

Per approfondire

Indagine su pandemia, neurosviluppo e salute mentale di bambini e ragazzi (Agia-ISS): https://www.epicentro.iss.it/mentale/documento-agia-iss-2022

Dal libro alla serie tv, intervista ad autori e attori: https://www.youtube.com/watch?v=3kK_bdJy_bE

Il tabu della malattia mentale discusso nel format di Netflix Parliamone:  https://www.youtube.com/watch?v=LHZZnwPmmyA

Poesia e disagio mentale

Un altro dei temi che attraversa la serie è quello della creatività artistica, poetica in particolare. Daniele ha iniziato, per poi interromperli, gli studi di lettere. Apprendiamo che fin dal liceo scrive versi e in reparto ha con sé un quadernino su cui appunta pensieri e poesie. In un momento di ispirazione, ne compone una dedicata alla madre, che viene amata molto dai compagni di stanza, soprattutto da Mario (ep. 4). Questi sprona Daniele a continuare a scrivere e per incoraggiarlo gli regala un libro di Arthur Rimbaud, poeta “maledetto”.
Il motto rimbaudiano, “io è un altro”, ricordato da Mario, sembra rimesso in scena nei momenti di creazione poetica di Daniele: Alessandro, compagno di stanza che giace in stato vegetativo, diventa simbolicamente la voce della sua ispirazione, dettandogli all’orecchio i versi. Per quanto il tema della relazione tra disturbo mentale e scrittura poetica rimanga sottotraccia, viene suggerita una stretta connessione tra la spiccata sensibilità di Daniele e la capacità di rielaborare in forma artistica vissuti ed emozioni, anche dolorosi. Non si tratta tuttavia di una scrittura che nasce grazie al momento di crisi psichica, ma nonostante esso. L’ispirazione poetica è uno strumento per decifrare la sofferenza, metterla in forma, farne senso. Ed è a una poesia che è consegnata, nell’ultimo episodio, una delle riflessioni cruciali dell’intera narrazione: l’accettazione della fragilità umana, al di là del confine, artificioso e in definitiva inconsistente, tra “sano” e “malato”, tra “dentro” e “fuori” l’ospedale psichiatrico.

Per approfondire: altre serie tv che affrontano il tema del disturbo mentale

Mental (Simona Ercolani, 2020) https://www.raiplay.it/programmi/mental

Atypical (Robia Rashid, 2017-2021)

The Good Doctor (David Shore, 2017-)

Prisma (Ludovico Bessegato, Alice Urciuolodes, 2022)

Skam (Ludovico Bessegato, 2018-)

Crediti immagine: Pixabay

La crisi di un’epoca o un’epoca di crisi?

Nel periodo che va dalla morte di Commodo (192) all’inizio del regno di Diocleziano (284) l’Impero romano subisce una trasformazione profonda. Numerosi fattori di crisi caratterizzano un periodo di estrema incertezza, in cui è in dubbio persino la sopravvivenza dell’Impero. Negli studi storiografici recenti, tuttavia, ci si è spesso interrogati sulla legittimità del termine “crisi” in riferimento alle vicende del III secolo d.C., sottolineando gli elementi di continuità con ciò che segue (la cosiddetta età tardoantica, a partire dal regno di Costantino) e al limite concedendo che si può parlare di crisi nella gestione del potere imperiale, dato il rapido avvicendarsi di tanti imperatori negli anni drammatici che vanno dal 235 al 284. Ma i dati storici in nostro possesso ci dicono altro, attestando un drastico calo demografico, una decrescita nella produzione e nel commercio, una galoppante svalutazione monetaria, la diffusione di culti religiosi alternativi a quelli tradizionali di Roma: evidenti elementi di rottura che colpiscono l’intera vita dell’Impero e ci autorizzano a definire il III secolo come un’epoca di crisi.

La minaccia esterna, distribuita su più fronti

I rinnovati attacchi esterni mettono a rischio l’integrità territoriale dell’Impero, minacciato su più fronti spesso contemporaneamente, e lo stato di guerra permanente coinvolge un’ampia parte della popolazione. Alemanni e Franchi premono sul confine del Reno, l’area del Danubio è sotto l’attacco dei Goti, mentre in Oriente l’aggressione persiana si fa più aspra quando si afferma la nuova dinastia dei Sasanidi (con Ardashir I incoronato Re dei Re a Persepoli nel 226). Conserviamo due simboli icastici che ben rappresentano la gravità della minaccia esterna. Il primo, il ritratto dell’imperatore Valeriano (253-260), vinto e trascinato in catene dal re persiano Sapore, scolpito nel bassorilievo di Bishapur in Iran. Eppure Valeriano, un anziano senatore giunto al potere dopo una serie di effimeri imperatori militari, aveva tentato una soluzione sistematica, associandosi al potere il figlio Gallieno e affidandogli il governo delle province occidentali, per potersi così concentrare sul fronte orientale, dove l’offensiva di Sapore incombeva sulla Siria; ma evidentemente senza successo.

La seconda immagine simbolica viene dal cuore dell’Impero ed è l’impressionante cinta muraria con cui Aureliano (270-275) circondò Roma dopo le ripetute penetrazioni di popolazioni barbariche nella Pianura padana: un perimetro di diciotto chilometri per uno spessore di quattro metri.

Un periodo di “anarchia militare”, da Massimino Trace all’avvento di Diocleziano (235-284)

In un’epoca di drammatici problemi militari, il ruolo determinante assunto dall’esercito porta in primo piano la questione mai risolta della mancanza di un sistema rigido di regole per la successione alla carica imperiale. Generali vittoriosi in qualche difficile campagna, ma anche capi militari dal trascurabile curriculum, aspirano al potere supremo e tentano colpi di mano. La dinastia dei Severi, inaugurata nel 193 da Settimio Severo, che si afferma nel clima di incertezza posteriore alla morte di Commodo, finisce così: l’ultimo dei Severi, Severo Alessandro, impegnato su più fronti, in Germania e contro la Persia, perde il sostegno dell’esercito; un soldato di oscure origini, ma dotato, secondo le fonti, di una terrificante forza fisica, Massimino Trace, è acclamato imperatore nel 235 dalle reclute affidategli per l’addestramento, e dà inizio a un periodo noto come “anarchia militare”, cinquant’anni (fino al 284) in cui si succedono nella carica imperiale una ventina di imperatori, senza contare i numerosi tentativi di usurpazione, tanto effimeri quanto destabilizzanti. Di fronte alle ripetute ribellioni degli usurpatori, Gallieno, che dopo la cattura del padre Valeriano regge da solo l’impero negli anni 260-268, si trova persino costretto ad accettare la formazione di due regni separatisti: il cosiddetto “impero gallico”, comprendente le Gallie, la Spagna e la Britannia, nato nel 259 e sopravvissuto per trent’anni, e il regno di Palmira, esteso a Siria, Palestina e Mesopotamia, in una prima fase, sotto Odenato, ancora alleato di Roma, ma in seguito, con la vedova di Odenato Zenobia, orientato a una politica antiromana.

L’esercito accresce il suo peso politico e il potere imperiale si trasforma in senso assolutistico

L’esercito è il fondamento del potere degli imperatori, eletti per proclamazione militare e sostenuti nell’esercizio della loro carica dal favore delle truppe. L’accresciuto peso politico dell’esercito trasforma la natura stessa delle istituzioni. Il potere imperiale assume forme sempre più assolutistiche e cambia il proprio rapporto con il senato. Mentre secondo l’ideologia augustea del principato l’imperatore esercitava il potere in collaborazione con l’aristocrazia senatoria di cui era espressione (in quanto primus inter pares), ora il senato è un relitto istituzionale, ridotto a funzioni burocratiche e soggetto all’autorità assoluta dell’imperatore.
Le casse dello stato sono sempre più indistinte dalla cassa privata dell’imperatore, che tratta il tesoro pubblico come cosa sua. Anche l’adozione del culto del Sole da parte di molti imperatori del III secolo è legata alla sua diffusione tra i soldati e all’immagine propagandistica dell’imperatore come sovrano assoluto. Elagabalo (218-222), che deriva il soprannome con cui è noto dal nome greco del dio Sole, Helios, giunge perfino a portare a Roma il simulacro del dio, una pietra conica nera, e a consacrargli un tempio sul Palatino. Cinquant’anni dopo Aureliano (270-275) rende ufficiale il culto di Sol invictus, identificato con il dio Mitra adorato dai soldati, e associato al culto dell’imperatore: il potere imperiale diventa quasi teocratico.

La crisi economica e finanziaria

Per garantirsi il favore dell’esercito gli imperatori fanno concessioni sempre più ampie. L’aumento del “soldo”, la paga dei soldati, a partire dai Severi fa lievitare le spese per il mantenimento dell’esercito, con gravi conseguenze su un’economia già sofferente. La documentazione archeologica attesta, infatti, una riduzione significativa della produzione e dell’attività commerciale per tutto il III secolo. La crisi del sistema politico-amministrativo imperiale è anche la conseguenza di una profonda crisi economica e soprattutto finanziaria. Il bilancio dello Stato registra un disavanzo cronicizzato, uno squilibrio tra entrate e uscite causato da una drastica riduzione delle entrate fiscali. Infatti l’epidemia di peste dell’età antonina (165-180), che decimò la popolazione imperiale, è all’origine di un netto calo demografico. La stessa Constitutio Antoniniana, il provvedimento legislativo varato da Caracalla nel 212, che estendeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero, oltre che legalizzare il superamento di fatto della distinzione tra italici e provinciali nella società romana, aveva probabilmente ragioni di carattere fiscale, in quanto inteso ad allargare la base dei contribuenti. A sanare la crisi finanziaria è evidentemente orientato anche un altro provvedimento di Caracalla, l’introduzione di una nuova moneta, l’”antoninano”, che aveva il valore nominale di due denarii, ma con una percentuale d’argento (e quindi un valore effettivo) molto minore.

Una politica monetaria destinata al fallimento

Per rispondere alle crescenti spese militari e dell’amministrazione statale, per tutto il secolo la produzione di antoniniani è in vertiginoso aumento. Ciò è possibile perché la coniazione avviene a standard sempre più bassi di peso e di metallo fino. Inoltre, le nuove monete immesse sul mercato non provengono dalla coniazione di metallo nuovo, ma dalle monete già circolanti che entrano nelle casse dello Stato attraverso il circuito fiscale ed escono dalla zecca riconiate secondo i nuovi standard ponderali. La produzione di metallo nuovo monetabile, infatti, ha subito una brusca battuta d’arresto, per la cessazione dell’attività mineraria anche nelle zone metallifere più ricche. È probabile che la mancata produzione di metallo prezioso dipenda dalle molte difficoltà che l’impero si trova ad affrontare. Per esempio, la miniera di Rio Tinto in Spagna, la più importante fonte di argento monetabile, viene chiusa nel 170-180, negli anni in cui imperversa la peste antoniniana, e nella seconda metà del secolo non sarà più sotto il controllo dell’imperatore, trovandosi nel territorio dell’impero gallico. Secondo recenti ipotesi (dovute allo storico dell’economia imperiale E. Lo Cascio), tuttavia, il mancato sfruttamento delle miniere potrebbe risalire a una scelta strategica dell’autorità imperiale, che mira a far salire il prezzo del metallo monetabile rispetto a tutti gli altri prezzi, per continuare a riconiare la vecchia moneta a standard più bassi e così riequilibrare il disavanzo del bilancio pubblico senza ulteriori conseguenze per l’economia. Ma l’aumento del prezzo dei metalli preziosi alla lunga genera fenomeni di tesaurizzazione da parte dei privati, che tendono a trattenere nelle proprie mani i pezzi migliori sottraendo all’autorità imperiale cospicue quantità di metallo. E il fragile equilibrio finanziario, basato appunto sull’incremento della moneta in circolazione attraverso la riconiazione della moneta vecchia a standar inferiori, si spezza quando le entrate fiscali diminuiscono in seguito alla nuova crisi demografica e produttiva dovuta all’epidemia di peste scoppiata negli anni di Decio (249-251) e alla formazione dei regni separatisti, che sottraggono all’autorità imperiale un cospicuo numero dei contribuenti.

La diffusione del cristianesimo e la persecuzione di Decio

Guerre, epidemie, instabilità politica, crisi economica e finanziaria: in questo contesto anche la religione tradizionale dell’impero, il sistema dei culti cittadini, perde qualsiasi attrattiva. Si diffondono nuovi culti di origine orientale, capaci di rispondere meglio alla nuova ricerca di senso, e tra questi in particolare il cristianesimo, che nel III secolo fissa già le strutture organizzative della propria Chiesa primitiva. La reazione ostile dell’autorità imperiale contro la diffusione della nuova religione si manifesta in tutta la sua asprezza nella prima persecuzione sistematica dei cristiani, voluta da Decio nel 250-251, negli anni appunto in cui più forte si avvertiva la minaccia proveniente dai popoli barbari. Nell’intento di consolidare la religione tradizionale e in particolare il culto ufficiale dell’imperatore, considerato un fattore di coesione interna, Decio impose che ogni abitante dell’impero sottoscrivesse un documento che attestava il compimento dei sacrifici rituali agli dèi e all’imperatore: chi avesse rifiutato era condannato a morte.

Lo sguardo dei contemporanei su un mondo ormai vecchio

Cipriano, vescovo di Cartagine, scampato alla persecuzione di Decio, ma non a quella di Valeriano nel 258, anno del suo martirio, ci offre una testimonianza significativa di come in quegli anni i contemporanei percepivano la realtà storica. Rispondendo al pagano Demetrio che accusa i cristiani di essere responsabili delle molte calamità che colpiscono l’Impero poiché trascurando il culto degli dèi ne provocano l’ira, Cipriano dipinge un quadro rovinoso di tutti i mali dell’Impero e impiega contro l’interlocutore il topos della senectus mundi: il mondo presenta tutti i sintomi dell’invecchiamento. Lo scrittore cristiano suggerisce all’avversario pagano di applicare alla realtà contemporanea lo schema ciclico, biologico della storia umana, elaborato dalla civilità greco-romana. Demetrio quindi non attribuisce ai cristiani ciò che dipende da una legge di natura: il mondo romano ha esaurito il suo ciclo vitale e ormai non può sottrarsi alla morte (Ad Demetrianum, 3-5).


Crediti immagine: Bassorilievo raffigurante il trionfo di Shapur i sugli imperatori romani Valeriano e Filippo l'Arabo, necropoli di Naqsh-e Rostam, Iran (Wikimedia Commons)

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Bassorilievo raffigurante il trionfo di Shapur i sugli imperatori romani Valeriano e Filippo l'Arabo, necropoli di Naqsh-e Rostam, Iran (Wikimedia Commons)

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Le mura tra porta san Sebastiano e porta Ardeatina (Wikimedia Commons)

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