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Filosofia

Reale, metaforico o pensato: viaggio con la filosofia

È facile pensare a un filosofo immerso in una polverosa biblioteca. Meno spesso ce lo immaginiamo in viaggio su un aereo o, in altri tempi, a bordo di una nave o in sella a un cavallo. Eppure i filosofi che hanno viaggiato non sono pochi: da Platone a Giordano Bruno, da Agostino di Ippona a Nietzsche, una riflessione su come il viaggio ha influenzato la filosofia.
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C'è ancora un altro mondo da scoprire - e più d'uno! Alle navi, filosofi!

(F.W.Nietzsche, La Gaia scienza, a cura di S. Gametta, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2000, aforisma 289)

  È facile pensare a un filosofo mentre è immerso nelle sue carte o sta sfogliando ponderosi volumi in una polverosa biblioteca. Meno spesso ce lo immaginiamo in viaggio su un aereo o, in altri tempi, a bordo di una nave o in sella a un cavallo. Eppure i filosofi che hanno viaggiato non sono pochi. Solo per citarne alcuni, Platone, secondo la tradizione e al pari di altri sapienti dell'antichità, dopo la morte del maestro Socrate si mette in viaggio e si reca tra l'altro in Egitto, il paese considerato la fonte del sapere. Studenti e professori, nel Medioevo, viaggiano per raggiungere università dove apprendere o diffondere il sapere. Non sempre però il viaggio è una forma di istruzione: Michel de Montaigne pare si sia recato in Italia per trovare una cura alla sua calcolosi (o “mal della pietra”, come era ancora chiamato nel Cinquecento) e il suo contemporaneo Giordano Bruno, più che per intenti filosofici, viaggia per cercare un posto da insegnante e per salvare la pelle e sfuggire alle molte accuse che le sue dottrine gli attirano addosso. Proprio perché il viaggio sembra tanto lontano dagli interessi dei filosofi e proprio perché, invece, è la chiave per comprendere meglio le loro personalità, non è raro imbattersi in libri dedicati ai viaggi dei filosofi.
Puoi leggere qui una recensione del volume "I viaggi dei filosofi", a cura di Maria Bettetini e Stefano Poggi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.
Il viaggio come metafora Il connubio tra viaggio e filosofia si fonda anche su una diversa ragione, che riguarda l'uso che i filosofi fanno dell'immagine del viaggio. Anche quando non viaggiano, i filosofi (o almeno alcuni) adottano il viaggio come metafora. Il filosofo greco Parmenide, all'alba della filosofia, descrive il viaggio in cielo che lo conduce ad ascoltare la verità dalla bocca della dea della giustizia. Al filosofo viaggiatore la filosofia cristiana sostituisce l'uomo viaggiatore, il viator, che percorre le strade del mondo prima di giungere alla sua vera casa, la vita futura. Proprio per questo, dice Agostino di Ippona nella Dottrina cristiana,  il cristiano non deve fermarsi a contemplare le bellezze del mondo, rischiando di perdere la felicità che lo attende nella vera patria (La dottrina cristiana, I, 4, 4). La metafora  della vita come viaggio ha goduto di grandissima fortuna e ancora nell'Ottocento  il danese Søren Kirkegaard scrive una serie di meditazioni dal titolo Stadi lungo il cammino della vita. Possiamo chiederci a questo punto perché l'associazione tra viaggio e vita sia così spontanea. La risposta è suggerita dal filosofo contemporaneo George Santayana (1863-1952): perché entrambe sono forme di movimento e perché il viaggio è un'esperienza fondamentale della vita.
Sull'utilità del viaggio puoi leggere la recensione a un libro del filosofo Santayana qui.
Il viaggio e l'identità personale. Quest'ultima considerazione introduce un nuovo tema. Per il filosofo il viaggio è inestricabilmente legato alla soggettività e alla natura nascosta e mutevole dell'identità individuale. Ciò significa forse che il viaggio muta il viaggiatore, il quale, tornato tra le mura domestiche, è ormai un'altra persona? Consideriamo la risposta che tre filosofi hanno fornito a questa domanda. Per lo stoico Seneca (4 a.C.- 65 d.C.) il viaggio è inutile e non muta alcunché nell'individuo. «Perché ti stupisci se i lunghi viaggi non ti servono, dal momento che porti in giro te stesso? Ti incalza il medesimo motivo che ti ha spinto fuori di casa, lontano», scrive in una delle Lettere morali, ricordando all'amico Lucilio, che viaggia per fuggire i propri dilemmi, parole che attribuisce a Socrate (Seneca, Lettere morali a Lucilio, a cura di F. Solinas, Oscar Mondadori, Milano, 1994, p. 79). Seneca ha facile gioco a spiegare che i tormenti interiori non svaniscono in viaggio, ma il viaggiatore li porta sempre con sé e, fino a quando non li avrà risolti, spostarsi di paese in paese sarà solo un'inutile fuga. Molti secoli dopo Nietzsche fornisce una risposta diversa nella Gaia scienza, dove sviluppa la metafora dell'uomo vascello sul quale i lunghi viaggi hanno provocato un profondo mutamento, ed egli è diventato ormai un estraneo per gli altri uomini-vascello, un tempo suoi amici. La metafora di Nietzsche  suscita un interrogativo che vale tanto per gli interpreti del pensiero del filosofo tedesco, quanto per chi ama viaggiare: l'identità soggettiva non è dunque immutabile? Un viaggio può cambiarci in profondità? Il viaggio mette in gioco la soggettività: alla fine del viaggio "che cosa ho appreso di me?", si chiede Michel Onfray, un filosofo dei nostri giorni. Viaggiare ha una funzione formativa, non solo perché si apprende qualcosa di nuovo sul mondo, ma anche perché il viaggiatore coglie qualcosa di sé che prima gli sfuggiva. Anzi, è una caratteristica propria del viaggiatore quella di scoprire un proprio lato nascosto: è al turista, la copia più sbiadita e superficiale del viaggiatore, che non interessa scoprire e perciò non scopre nulla. E alcuni, dice Onfray sono più della razza di Abele, lo stabile agricoltore, che di quella di suo fratello Caino, il pastore nomade, e il viaggio non lo amano affatto, perché preferiscono una vita organizzata, ritmata, “inquadrettata”.
Trovi qui una scheda sul libro di Michel Onfray.
Quando inizia e quando finisce il viaggio? Il viaggiatore autentico è un uomo pronto ad abbandonare la quotidianità e le abitudini per scoprire la propria identità liberata dai vincoli dell'ambiente in cui vive. In effetti in La mente del viaggiatore. Dall'Odissea al turismo globale (Il Mulino, Bologna, 2007) lo storico Eric Leed spiega che il viaggio è nello stesso tempo l'origine e la soddisfazione del bisogno di mutamento dell'io: tant'è che se il ritorno a casa non dà la sensazione di essere in qualche modo diversi, il viaggio ha fallito il suo scopo. Quindi potremmo dire che il viaggio nasce da un desidero di cambiamento (ma non è detto che il viaggio abbia sempre successo). Spinto dai bisogni dell'io, il viaggiatore si mette in marcia: ma dove andrà? Non siamo noi a decidere, ma è un paese che ci attira a sé, come se fosse il nostro luogo naturale, spiega Onfray: si tratta di una chiamata misteriosa, al limite stimolata dalla suggestione delle mappe e delle guide. Ma queste informazioni sono veramente utili al viaggiatore? O forse non fanno altro che costringerlo a verificarne l'esattezza e lo saturano di preconcetti e schemi? Una certa dose si ignoranza, allora, aiuta a vivere meglio il viaggio. Se quindi il viaggio inizia prima del viaggio vero e proprio, e cioè nel momento avvertiamo la “chiamata” verso un luogo misterioso, nemmeno finisce quando posiamo i bagagli sul pavimento di casa, perché quell’insieme di impressioni, sensazioni, eventi, pensieri, immagini che si è depositato nella nostra mente va domato e strutturato. Man mano che si organizza nella memoria, il viaggio assume la sua vera fisionomia e il suo senso. Perciò al viaggiatore sono richiesti buona memoria e l'uso di utili supporti: taccuini di viaggio, schizzi, fotografie. La memoria va addestrata e aiutata. Ed è allora che il viaggio torna a vivere come una forma di narrazione di sé e del mondo, non molto diversamente da quando, secoli fa, i rampolli di buona famiglia compivano un grand tour per l'Europa e si appuntavano doviziosamente itinerari, descrizioni, impressioni e avvenimenti sui loro diari di viaggio. Immagine in apertura: particolare di Giorgione, "I tre filosofi", 1508 (via Wikipaintings)
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