Palace Hotel di Sante Fe, 10 gennaio 1896, camera n. 59
“Nel mio hotel a Santa Fe, un indiano di nome Cleo Jurino e suo figlio Anacleto mi regalarono i disegni – eseguiti dopo qualche riluttanza di fronte ai miei occhi – nei quali avevano abbozzato con matite colorate la loro visione cosmologica. Il padre Cleo era uno dei sacerdoti e pittori della kiva di Cochiti. Un disegno mostrava il serpente come divinità del temporale, senza penne ma per il resto era identico a quello raffigurato sui vasi, con la lingua a punta di freccia”.
Il disegno del serpente di Cleo Jurino con gli appunti di Warburg. Immagine tratta da engramma.it
Chi parla è Aby Warburg che, dopo aver raggiunto New York nel settembre del 1895 per il matrimonio del fratello Paul, parte in novembre per il Sud Ovest degli Stati Uniti, per visitare la “zona dell’altopiano delle Montagne Rocciose dove gli stati del Colorado, dello Utah, del Nuovo Messico e dell’Arizona confinano tra loro”: qui si trovano resti di insediamenti preistorici degli indiani Hopi, come pure villaggi ancora abitati.
Aby Warburg, allora 29enne, era il figlio maggiore dei Warburg, la più antica dinastia di banchieri al mondo, la cui origine risale a più di cinque secoli fa e che tuttora, con il nome di M.M.Warburg & CO., è una delle banche di investimento più importanti a livello internazionale.
Basata a Amburgo, a fine Ottocento la famiglia Warburg era uno dei più eminenti gruppi di ebrei tedeschi e grazie alla sua forte coesione interna aveva potuto “conciliare per tanto tempo senza apparenti cesure i contrasti fra la sua anima ebraica e quella tedesca, fra i suoi sentimenti nazionalisti e la sua vocazione internazionalista, fra il suo radicato tradizionalismo e le sue proiezioni moderniste” (V. Castronovo). Sarà proprio il ramo americano, aperto dal matrimonio di Paul, che permetterà alla banca di sopravvivere alle persecuzioni naziste.
Aby Warburg, che come i fratelli avrebbe dovuto lavorare nella banca di famiglia, intraprese invece un percorso diverso, divenne storico dell’arte, con una laurea sui dipinti mitologici di Botticelli.
A New York, appunta Warburg nei suoi diari del 1895, “la vuotezza della civiltà sulla costa orientale dell’America era così repellente, che colsi l’occasione di fuggire verso oggetti reali e interessi scientifici andando a Washington a visitare la Smithsonian Institution”. Qui Warburg incontrò i pionieri della ricerca sull’America preistorica e ‘selvaggia’ che lo indirizzarono verso la cultura Hopi, in cui le danze tribali, in particolare il rituale del serpente, e le decorazioni sulle ceramiche presentarono da subito ai suoi occhi motivi di straordinario interesse.
Resta di questo viaggio una ricca documentazione fotografica, in gran parte realizzata dallo stesso Warburg, che portò in Germania anche più di cento esemplari di ceramiche hopi che in seguitò donò al museo di Amburgo.
In una di queste foto, Warburg è ripreso in piedi con vestito, cravatta e corpetto sul quale si nota la catena dell’orologio e in testa una maschera per le danze tribali, quasi una raffigurazione plastica di quanto scrisse qualche anno più tardi: “Quando ripenso al viaggio della mia vita, ho la sensazione che la mia funzione sia stata quella di un sismografo dell’anima posto sullo spartiacque tra le diverse culture. Collocato dalla mia stessa nascita tra Oriente e Occidente, spinto da un’affinità elettiva verso l’Italia e costretto a costruire la mia personalità sul confine tra Antichità pagana e Rinascimento cristiano del XV secolo, ero stato spinto in America… per conoscere come la vita nella sua tensione oscilli tra i due poli dell’energia naturale: istintiva e pagana da un lato, intelligibilmente strutturata dall’altro”.
Firenze e Amburgo
Rientrato in Europa nel giugno del 1896, Warburg si stabilì a Firenze dove fece un intenso e profondo lavoro negli archivi, per poi trasferirsi ad Amburgo dove visse fino alla sua morte nel 1929. Accanto alla ricerca, l’altro progetto in cui si impegnò a fondo fu la raccolta dei volumi per la sua straordinaria biblioteca, a tutt’oggi cuore del Warburg Institute.
Per la struttura della biblioteca, che racchiude in sé le molteplici dimensioni del pensiero di Warburg, clicca qui
Lo spettro degli interessi di Warburg è vastissimo e lascia di primo acchito perplessi: dipinti di soggetto mitologico del Botticelli, arazzi di Borgogna, i ritratti di Memling, incisioni fiorentine, calendari tedeschi, la corrispondenza d’affari tra i Medici e i loro agenti all’estero, controversie tra riformatori e controriformatori, l’Opera italiana, le feste di corte, le medicine dei ciarlatani vendute alle fiere, lo studio dell’astrologia e della magia nel Quattrocento e nel Cinquecento, le indagini sul ciclo di affreschi di Palazzo Schifanoja a Ferrara.
In tutto questo si rischia di perdere di vista il filo principale delle sue ricerche, il problema che lo aveva assillato fin dagli studi giovanili: il Nachleben der Antike, la sopravvivenza dell’antico e “più in generale il problema della ripresa di formule e stili a distanza di secoli” (S. Settis).
La domanda di partenza per Warburg era: “che cosa significa lo studio degli antichi per la civiltà artistica del primo Rinascimento?”. Attraverso l’utilizzo di fonti diverse, senza distinzioni tra ‘alto’ e ‘basso’, Warburg scopre come all’interno della civiltà del primo Rinascimento ricompaiano carsicamente forme espressive, in particolare nella raffigurazione della vita in movimento, che da secoli sembravano dimenticate.
Studiando la figura rinascimentale della ninfa, una fanciulla in corsa o danzante, dalle vesti svolazzanti e dai capelli al vento, Warburg ne dimostra l’ascendenza classica. La ninfa è un esempio del concetto warburghiano di Pathosformeln, “formule del patetico”, “formule genuinamente antiche di una intensificata espressione fisica o psichica, nello stile rinascimentale, che si sforza di rappresentare la vita in movimento”.
Questa ripresa di formule espressive “patetiche” non è per Warburg una semplice questione formale, bensì il sintomo di un mutato orientamento psicologico dell’intera società rinascimentale, decisa a riprendersi la vita nella sua interezza. L’antichità che parla all’uomo rinascimentale non è quella apollinea dei classicisti, bensì un’antichità pervasa di “pathos dionisiaco”.
Kreuzlingen, lago di Costanza, Svizzera. Clinica di Bellevue, 21 aprile 1923
Alla fine della prima guerra mondiale, l’equilibrio interiore di Warburg, quel suo essere “un sismografo dell’anima”, si spezza. “Lo studio dell’astrologia e della magia nel Quattrocento e Cinquecento s’intrecciò drammaticamente alla follia in cui cadde per lunghi anni – come se lo sforzo per padroneggiare razionalmente queste forze ambigue, per metà legate alla scienza, per metà a un mondo oscuro e demoniaco, esigesse un tragico compenso sul piano biografico” (C.Ginzburg). Dopo un periodo di lunghe sofferenze, nell’aprile del 1921 Warburg si affidò alle cure di Ludwig Binswanger nella clinica di Bellevue a Kreuzlingen. Assistente di Jung e legato da una profonda e duratura amicizia con Freud, Binswanger aveva creato nella sua clinica un ambiente particolarmente sereno, caratterizzato dal clima di confidenza e familiarità tra medici e pazienti. “Si trattava insomma di una terapia ‘dolce’ e dai tempi lunghi, fondata in gran parte sulla capacità di autoguarigione dei ricoverati. Un metodo terapeutico particolarmente adatto al caso di Warburg, di cui era nota la ferrea volontà di sconfiggere con le sue stesse forze le angosce e le ossessioni che lo tormentavano” (U.Raulff). Nell’aprile del 1923 Warburg si sente pronto a tornare alla vita attiva e, com’era d’uso alla clinica Bellevue, tiene una conferenza per dimostrare a se stesso e agli altri la sua rinnovata capacità di lavoro: “mi pare che questa conferenza sembrerà ai medici che mi curano un sintomo consolante della mia capacità di comunicare”. Scelse come argomento il suo viaggio in America di molti anni prima e commentò una serie di immagini che lì aveva scattato. La conferenza ora è nota come Schlangenritual, il rituale del serpente, e dimostra come il viaggio americano non fosse stata l’avventura estemporanea di un dilettante, ma “la ricerca di materiali per risposte radicali a domande radicali” (S.Settis). Come dice Warburg stesso, “decisamente vedo nella comprensione profonda della vita e dell’arte di un popolo ‘primitivo’ un correttivo validissimo nello studio di qualsiasi produzione artistica”, senza questo viaggio “non sarei mai stato capace di trovare una larga base ai miei studi sulla psicologia del Rinascimento”. Nella conferenza, che parte dal disegno del serpente che Cleo Jurino tracciò nella stanza d’albergo a Sante Fe, Warburg prosegue raccontando del suo viaggio verso i villaggi degli indiani Hopi di San Ildefonso, Walpi e Oraibi , dove assistette a diverse danze rituali. A Oraibi, il più sperduto dei villaggi rupestri occidentali, Warburg assistette alla danza associata al culto dello spirito dell’albero, “patrimonio religioso universale dei popoli primitivi tramandatosi nel paganesimo europeo fino alle odierne cerimonie per il raccolto. Si tratta di stabilire un nesso fra le forze naturali e l’uomo, di creare cioè il symbolon, l’anello di congiunzione, ed ecco che il rito magico opera allora un collegamento reale inviando un mediatore – in questo caso un albero, più vicino dell’uomo alla terra poiché in essa affonda le sue radici”. Warburg passa poi alla danza con i serpenti vivi di Oraibi e di Walpi, di cui ebbe a disposizione un resoconto fotografico. Per intendere il significato di questa danza, bisogna pensare alle condizioni di vita di queste popolazioni, estremamente difficili in un territorio con grande carenza di acqua: “la siccità insegna a fare incantesimi e a pregare”. Le decorazioni del vasellame hopi, all’apparenza puramente decorative, “hanno invece un significato simbolico e cosmologico”, come dimostrano il disegno di Cleo Jurino e quelli di alcuni bambini hopi, nei quali “accanto a uno degli elementi fondamentali della cosmologia indiana – l’universo concepito in forma di casa – compare come demone enigmatico e temuto un’irrazionale potenza animale: il serpente”. Serpente che ritroviamo come protagonista nella danza di Walpi, un rito che dura 16 giorni nel quale gli indiani costringono gli animali a un ruolo di mediazione: “i serpenti diventano, in magica comunione con gli indiani, mediatori e suscitatori di pioggia. Sono dunque come santi della pioggia viventi e zoomorfi. … All’acme del cerimoniale si giunge quando gli indiani si avvicinano al cespuglio , afferrano i serpenti vivi e li mandano per la pianura come messaggeri” il cui compito è di portare la pioggia: “la danza mascherata è causalità danzata”. E qui Warburg, con un salto nello spazio e nel tempo, ci porta in Grecia: “per il profano è naturale guardare alla manifestazione di questa religiosità come a una peculiarità della barbarie primitiva, sconosciuta all’Europa. E tuttavia, duemila anni fa, proprio nella terra in cui ebbe origine la nostra civiltà europea, in Grecia, si praticavano culti ancora più barbarici e stravaganti di quelli in uso presso gli indiani. Nel culto orgiastico di Dioniso, ad esempio, le Menadi danzavano con un serpente vivo avvolto come un diadema intorno al capo, recando in una mano dei serpenti e nell’altra l’animale che doveva essere dilaniato in onore del dio nel corso di un’ascetica danza sacrificale”. Nel contesto di un altro mito, i serpenti fanno morire nelle loro spire Laooconte insieme ai due figli. Ma acconto a questo serpente ctonio e distruttore, c’è anche un serpente salvifico, quello che troviamo attorcigliato intorno al bastone di Asclepio, nella Grecia antica il dio della salute. Perché il serpente “non è soltanto il morso letale – già dato o pronto a colpire – che annienta senza pietà; deponendo la spoglia, esso mostra con il suo esempio come il corpo, abbandonata la pelle – sgusciando per così dire dall’involucro corporeo – possa nondimeno continuare a vivere. Il serpente può infilarsi nella terra e riemergerne. Il ritorno dalla terra, dove riposano i morti, e insieme la capacità di rinnovare la spoglia, fanno del serpente il simbolo più naturale dell’immortalità e della rinascita da una malattia o da un pericolo mortale”. Ritroviamo il serpente anche nella Bibbia, il serpente sull’albero del Paradiso, qui ritornato essere immondo e negativo, causa prima del male e del peccato. E qui ormai il serpente ha perso definitivamente “la sua mostruosa concretezza per diventare alla fine un simbolo spirituale”. Warburg si è rivolto dunque al rito per individuare il significato del serpente nelle rappresentazioni cosmologiche. “Il fatto che egli ponga al centro dell’attenzione la danza del serpente… si spiega con l’importanza che egli annetteva al suo valore simbolico … che gli permetteva di passare agevolmente a figure e Pathosformeln del mito e dell’arte classica” (S.Settis). I serpenti ‘indiani’ e quelli ‘greci’ rendono dunque Atene e Oraibi da sempre e per sempre cugini.In fine
L’ultima immagine della conferenza di Kreuzlingen è del tutto inattesa e spiazzante e Warburg la commenta così: “Per le vie di San Francisco sono riuscito a catturare in un’istantanea colui che ha trionfato sul culto del serpente e sulla paura del fulmine, l’erede degli indiani …: è lo Zio Sam in cappello a cilindro, mentre incede orgoglioso per la strada davanti all’imitazione di una rotonda classica. Sopra il suo cilindro corrono i fili elettrici. … L’americano moderno non teme più il serpente a sonagli, ad ogni modo non lo adora. Il destino del serpente è lo sterminio. Il fulmine imprigionato nel filo – l’elettricità catturata – ha prodotto una civiltà che fa piazza pulita del paganesimo. … In questo modo la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito aveva faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, poi trasformatosi in spazio per il pensiero”.
Bibliografia
Sulla figura di Aby Warburg:
Crediti immagini:
Apertura: serpente velenoso dell'India in un'immagine della Biodiversity Heritage Library, su flickr
Box: ritratto di Aby Warburg, su Wikipedia
- - utilissimo il saggio di Salvatore Settis, Aby Warburg, il demone della forma in http://www.engramma.it/eOS2/index.php?id_articolo=1139
- - molto importante l’Introduzione di Gertrud Bing al volumeWarburg. La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, 1966 (1999), pagg. IX-XXXI
- - Ernst H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, 2003
- - Aby Warburg, Il rituale del serpente, Adelphi, 1998, con l’illuminante postfazione di Ulrich Raulff
- - Sull’importanza del viaggio in America nel pensiero complessivo di Warburg è fondamentale il saggio di Salvatore Settis, Verso una storia naturale dell’arte: Aby Warburg davanti a un rinascimento indoamericano (1895) in Aby Warburg, GLI HOPI, La sopravvivenza dell’umanità primitiva nella cultura degli indiani dell’America del Nord, nino aragno editore, 2006
- - Rudolf Wittkower, L’aquila e il serpente, in Allegoria e migrazione dei simboli, Einaudi, 1987, pagg 13-83
- - Fritz Saxl, Continuità e variazione nel significato delle immagini, in La storia delle immagini, Laterza, 1990 (2005), pagg. 3-30
- - Carlo Ginzburg, Da A.Warburg a E.H.Gombrich. Note su un problema di metodo, in Miti emblemi spie, Einaudi, 1986 (2014), pagg. 29-106
- - Ron Chernow, I Warburg, Rizzoli, 1994
- - Ernst H.Gombrich, Il Warburg Institute. Un ricordo personale, in Dal mio tempo. Città, maestri, incontri, Einaudi, 1999, pagg. 117-127
- - il libro imprescindibile, dove sono presentate le tavole nella forma scientificamente più corretta, è: Aby Warburg, MNEMOSYNE. L’Atlante delle immagini, nino aragno editore, 2002.
- - Kurt W. Forster, Katia Mazzucco, Introduzione ad Aby Warburg e all’Atlante della memoria, Bruno Mondadori, 2002