La mostra Arts & Foods, curata da Germano Celant, è l’unico padiglione di EXPO Milano 2015 collocato in città, negli spazi della Triennale e si può visitare con lo stesso biglietto d’ingresso all’EXPO. È una vastissima mostra, circa 4000 oggetti, che ripercorre la storia dei rapporti tra arti e cibo dal 1851, data della prima grande esposizione universale a Londra, fino ad oggi. La prima parte (1851-1951) quasi toglie il fiato per l’accumulo di oggetti e opere d’arte e forse non a caso uno dei primissimi quadri esposti è Asfissia (1884) di Angelo Morbelli: i resti di una ricca cena, molto disordine sul tavolo tra bottiglie semivuote, bicchieri con vino e champagne, tazze del caffè, dolci, frutta, briciole e pezzi di pane. Per terra altre bottiglie sotto il tavolo rotondo e soprattutto fiori sparsi sul pavimento, spampanati e scomposti. Tutto abbandonato, senza traccia umana, la malinconia irredimibile di un bagordo. Nelle belle vetrine dell’allestimento di Italo Rota si susseguono senza posa servizi di posate, coltellini da picnic, portauova, brocche, bollitori, teiere, tabacchiere, caffettiere… ad esempio una caffettiera di manifattura inglese del 1880 con divisorio interno per contenere contemporaneamente caffè e latte, bella idea evidentemente di non grande fortuna. E una serie di giocattoli fantastici di fine Ottocento, cucine botteghe di alimentari servizi di piatti sale da pranzo, tutto in miniatura. E poi tutte queste cose, non in miniatura, sotto lo sguardo della regina Vittoria e del principe Alberto, in un grande dipinto che li ritrae mentre visitano la “Great Exhibition” del 1851. Fu proprio in seguito all’enorme successo di quella esposizione che nel 1852 fu fondato il Victoria & Albert Museum, dedicato al design e alle arti applicate. È a esso che si ispira questa sezione della mostra di Celant. Una magnifica stanza dedicata al cubismo ceco, con una sala da pranzo proveniente dal Museo delle arti decorative di Praga, progettata nel 1911-12 da Vlastislav Hofman, “il più cubista dei cubisti” e che sembra uscita da un incubo espressionista.
Alla fine di questa prima parte della mostra, la Maison des Jours Meilleurs di Jean Prouvè. Costruttore e architetto autodidatta, Prouvè nel 1954 rispose all’appello dell’Abbé Pierre, fondatore della comunità di Emmaus, che chiese aiuto per ospitare poveri e senza tetto colpiti dall’intensissima ondata di freddo dell’inverno di quell’anno. Progettò questa casa prefabbricata di 57 mq, montabile in 7 ore, pensata per famiglie di 4-6 persone e completamente attrezzata con mobili, cucina e bagno. All’inizio del 1956 viene presentato il primo prototipo e la speranza era quella di cominciarne la produzione industriale su larga scala per sopperire alle esigenze abitative dei più poveri. Nonostante l’accoglienza entusiastica, le autorità francesi chiesero delle modifiche che Prouvè si rifiutò di apportare e di questa utopica maison furono realizzati solo cinque esemplari. Per un caso spettacolare di eterogenesi dei fini, queste case di Prouvè, pensate per i più poveri, sono diventate oggetto di collezione, raggiungendo cifre astronomiche nel mercato dell’arte e del design contemporaneo.
La seconda parte della mostra è focalizzata sulla Pop Art, alla pareti dai colori vivissimi e acidi lavori celeberrimi di Warhol, Wesselmann, Oldenburg per arrivare fino a Koons e allo straordinario Big Big Mac di Tom Friedman del 2013. Moltissime fotografie sui protagonisti dell’epoca che contestualizzano i lavori esposti. Una delle sale più riuscite accompagna i lavori degli artisti con una serie di frigoriferi rosso-squillante della Coca-Cola, con l’effetto paradossale di far sembrare i quadri opere di copisti. C’è, negli oggetti e nelle opere d’arte di quegli anni, una felicità di fondo, una ironia dello sguardo e un’apertura sul futuro di cui è difficile non avere nostalgia. Si sale al primo piano per l’ultima parte della mostra, dall’Arte Povera a oggi e ci accoglie L’igloo del pane di Mario Merz (1989) dietro cui è collocato un Kounellis che occupa un’intera parete con un’opera di cui sentiamo da lontano l’aroma forte del caffè macinato. Continua parallelo il percorso del design e dell’architettura, in una sala si fronteggiano The GFT Fish di Frank O. Gehry (1985-1986), un gigantesco progetto per un’abitazione in forma di pesce e Progetto per le pareti di una sala da pranzo: piatto rotto con uova strapazzate e modello per progettazione della fontana a forma di ciotola caduta di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen (1987), sorta di allucinata scomposizione di uno spazio abitabile. Ci sono alcune opere dove il cibo diventa in senso letterale struttura delle cose, come in Chair Apollinaire di (1986-2010), una poltrona rivestita di fette di carne cruda dall’artista canadese Jana Sterbak oppure come in Bread House (2004-2006) di Urs Fischer, una casetta con pareti e tetto di pane a cassetta e dove le baguette disegnano un graticcio alsaziano commovente e profumato. Verso la fine, nell’ultima sala, una tipica signora milanese in carne e ossa, una sciura con borsetta e permanente, del tutto incongrua nel contesto e vestita con dignitosa povertà, è seduta con aria sfatta su un’opera-mobile-seduta dell’artista californiana Andrea Zittel, da lei giustamente scambiata per un luogo di conforto. Fa parte probabilmente di quel gruppo di persone che si trovano a tutte le vernici, del tutto e coerentemente disinteressate alle opere esposte, ma molto veloci nell’approfittare del buffet: un altro modo di coniugare arte e cibo. Bellissimo e molto utile il catalogo della mostra, dalle dimensioni di un ricettario corposo e pieno di sapori. I saggi spaziano su argomenti molto diversi, dalla storia dell’alimentazione a quella della cucina come luogo di vita, dalle origini del menu ai libri di cucina, dai caffè d’artista all’arte totale della cucina futurista, dalla vita in gavetta durante la prima guerra mondiale alle figure del cibo nel cinema italiano, fino alle intersezioni tra cibo e moda, teatro, fotografia e televisione (peccato che l’unica immagine su due pagine sia alla fine del catalogo quella dei giudici di un noto programma televisivo di cucina, si poteva evitare). Sfogliando il catalogo si imparano molte cose, una per tutte: Marie-Antoine Careme (1784-1833), genio della cucina classica francese, era celebre per le sue decorazioni da tavola e sosteneva non a caso che esistono cinque belle arti: pittura, scultura, poesia, musica e architettura, la cui branca principale è la pasticceria. Nel 1815 pubblicò un libro diventato leggendario, Le Patissier pittoresque, la cui lettura colpì così profondamente il giovane Andy Warhol da fargli realizzare nel 1959 un fantastico ricettario, Wild Raspberries. Warhol disegnò le illustrazioni, la sua amica Suzie Frankfurt fornì le ricette, trascritte manualmente dalla madre dell’artista. Il libro, tutto realizzato a mano, venne rilegato in 34 copie e restò sconosciuto fino a quando il figlio di Suzie Frankfurt, rinvenutolo tra le carte della madre, decise di pubblicarlo.
Come questa storia esemplare insegna, in principio era il cibo. Crediti immagini: Apertura: screenshot dall'home page del sito di Arts & Foods (http://www.expo2015.org/it/esplora/aree-tematiche/arts---foods) Box: Claes Oldenburg e Coosje Van Bruggen "Leaning Fork with Meatball and Spaghetti", 1994. Foto di Ellen Page Wilson tratta dal sito ufficiale di Arts & Foods Link