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Le forme di governo

Approfondimenti e percorsi didattici sul potere politico

Lungo tutto il periodo della storia romana si può dire che, almeno dal punto di vista formale, la struttura istituzionale basata sulla centralità del Senato rimase invariata, in un quadro generale dove gli ampi poteri detenuti dall’élite patrizia trovavano bilanciamento nelle prerogative riconosciute ai rappresentanti dei ceti plebei al termine di dure lotte. È questa coesistenza tra oligarchia e democrazia, solidamente ancorata al sistema di valori tramandati dagli avi (coraggio, integrità, lealtà, devozione alla famiglia, alla patria e agli dei) che definisce l’identità romana, rafforza la coesione sociale e getta i presupposti della futura potenza.
Dopo avere guidato l’ascesa di Roma nel bacino del Mediterraneo, la supremazia del Senato rimase tuttavia seriamente indebolita dal lungo periodo di guerre civili (Mario contro Silla; Cesare contro Pompeo; Ottaviano contro Antonio) che avevano scosso la repubblica nel corso del I sec. a.C. La centralità dell’organo assembleare venne infine riaffermata con forza quando, nel 27 a.C., Ottaviano impose d’autorità la pace a Roma e nelle province. Con un gesto di grande effetto, il vincitore reintegrò il Senato in tutte le sue funzioni, presentandosi come garante della pace e della concordia ritrovate e a tal fine accettando i titoli di Augustus (detentore dell’Auctoritas principis, la suprema autorità morale attraverso la quale esercitare il potere di comando più alto, carismatico e sacro) e princeps senatus (primo tra i senatori) conferitigli dall’assemblea.
La restaurazione delle prerogative senatoriali costituì in realtà il frutto di un’abile operazione di facciata poiché, nell’esercitare la propria auctoritas, il princeps svuotò gradatamente dall’interno i poteri del Senato gettando le basi per il passaggio verso una forma di governo di tipo monarchico, anche se l’utilizzo del termine fu sempre accuratamente evitato. Tale simulazione venne conservata dai successori di Augusto, che rispettarono formalmente l’istituto del Senato, garantendone l’integrità di fronte alla minacciosa ascesa del potere dell’esercito.

Lex animata

Nel corso del III sec. d.C., in concomitanza con l’intensificarsi dell’emergenza militare ai confini dell’impero e l’acuirsi della crisi economica all’interno, l’equilibrio di potere tra Senato ed esercito si spostò decisamente a vantaggio di quest’ultimo. Al Senato non rimase che conferire veste legale alla proclamazione degli imperatori di fatto imposta dalle legioni, mentre la stessa autorità imperiale andava incontro a un processo di trasformazione, che avrebbe creato i presupposti per la definizione dell’idea di sovranità nel mondo medievale.
Se fino all’età di Traiano (98 – 117 d.C.) il princeps aveva conservato le caratteristiche dell’imperatore-cittadino, investito di poteri ampi ma nello stesso tempo definiti, con la fine della dinastia degli Antonini (96-192 d. C.) la figura dell’imperatore, già oggetto di culto e venerazione, abbandonò definitivamente i suoi connotati terreni per aprirsi a forme di sacralizzazione sempre più marcate, che si riflessero nell’accentuazione dei tratti assolutistici. La mutazione da “divino” a “dio” assunse forma definitiva partire dal regno di Diocleziano (284 – 305 d.C.) e trovò manifesta espressione nella complessità del protocollo che regolava le udienze alla corte imperiale; nella sostituzione del saluto romano con la prosternazione di fronte al sovrano, nella stessa rigidità rituale che caratterizzava le apparizioni dell’imperatore, sempre più simile a una statua che e un essere umano. Dismessi gli abiti terreni e ammantato di una veste celestiale, il princeps si trasformò così nel dominus, il padrone dello Stato, fonte diretta della legge (lex animata) e depositario di poteri pressoché assoluti.
Tale trasformazione affondava le sue radici nell’approfondirsi della crisi economica e nel moltiplicarsi delle minacce esterne che caratterizzarono il periodo del tardo impero (284 – 476 d.C.). La legittimazione istituzionale per acclamazione del popolo e investitura del Senato, sulla quale tradizionalmente poggiava l’autorità imperiale, apparve infatti insufficiente se non affiancata da una altrettanto forte legittimazione divina del potere, capace di conferire una giustificazione sovrannaturale all’autorità dell’imperatore impegnato nella difesa dell’ordine esistente. A sostegno di questa trasformazione contribuì in modo decisivo una dottrina religiosa rimasta a lungo in una posizione minoritaria e duramente osteggiata da molti imperatori.

Sulla figura dell’imperatore nel tardo impero
https://tribunus.it/2021/02/02/imperatore-nel-tardo-antico/

Sulla figura di Diocleziano
https://www.youtube.com/watch?v=68gYZDNvTpw

Sulla dimensione rituale e il simbolica del potere nel tardo impero
http://revistascientificas.filo.uba.ar/index.php/analesHAMM/article/view/7413/7079

In nome di Cristo

Dopo un lungo periodo persecuzioni, causate dal rifiuto di offrire sacrifici all’imperatore e agli dei romani, all’inizio del IV secolo i cristiani poterono uscire dalla clandestinità e beneficiare prima della tolleranza dell’imperatore Costantino (editto di Milano 313), poi del convinto appoggio dell’imperatore Teodosio I (379-395 d.C.), che elevò il cristianesimo a unica religione dell’impero, dispose la chiusura dei templi pagani e proibì la pratica delle altre fedi.
A tale successo contribuì in modo rilevante lo sviluppo del pensiero cristiano durante il tardo impero, che portò al superamento delle originarie rigidità dottrinarie a favore di una decisa apertura verso il processo di sacralizzazione del potere politico. Pur perseverando nel respingere l’identificazione tra Dio e imperatore, quest’ultimo iniziò a essere indicato dai teologi come il vicario di Cristo sulla terra, l’uomo al quale era affidato il compito di salvaguardare l’ordine nel mondo terreno, difendere il cristianesimo dai suoi nemici e garantirne il trionfo in quanto unica e vera fede. In tale quadro, a differenza del multiforme paganesimo con il suo proliferare di culti e di dei, il monoteismo cristiano si prestava assai più facilmente a soddisfare il parallelismo tra autorità divina e autorità imperiale, armonia celeste e armonia terrena, che trovava sbocco nell’innalzamento dell’imperatore a diretto esecutore della volontà di Dio.
In concomitanza con il moltiplicarsi dei segnali di cedimento strutturale, la Chiesa e lo Stato si sostennero a vicenda nello sforzo di puntellare l’impalcatura di un impero sempre più fragile e attraversato da profonde fratture. Quando dalle province orientali, culturalmente mai conquistate alla latinità, iniziarono a moltiplicarsi spinte centrifughe che minacciavano di rompere dall’interno l’unità dell’impero, l’antica colonia greca di Bisanzio viene affiancata a Roma come nuova capitale e sede della corte imperiale. Bisanzio rimarrà però nella sua essenza una città greca e la presenza dell’imperatore non basterà a frenare la deriva in corso tra le due parti dell’impero, che nel 395 d.C. culminerà nella formale separazione. Al momento in cui la pressione dei barbari diventerà incontenibile, Roma soccomberà, Bisanzio sopravvivrà e la polis si prenderà così la sua rivincita sull’urbe.
A seguito del dilagare delle invasioni barbariche nelle le province occidentali, l’autorità imperiale e la missione universale in difesa della cristianità vennero quindi ereditate dall’Impero romano d’Oriente. Gli imperatori seduti sul trono di Bisanzio rivendicavano la sovranità su tutti i romani, compresi quelli soggetti in Occidente alla dominazione barbarica. Questo slancio unitario parve trovare concreta realizzazione durante il regno di Giustiniano (527 – 565) e prese corpo sul piano giuridico nella pubblicazione di una vasta raccolta di diritto romano (il Corpus juris civilis), su quello religioso nel rafforzamento dell’integrazione tra Stato e Chiesa e su quello militare nella grande offensiva militare che portò tra il 533 e il 562 alla riconquista di un territorio esteso dalle coste dell’Africa, all’Italia, alla Spagna meridionale. Ravenna, ultima sede degli imperatori romani d’Occidente, venne confermata capitale e per la città ebbe inizio un nuovo periodo di splendore. Si trattò tuttavia solo di una parentesi. Nello spazio di pochi decenni le concomitanti invasioni condotte dagli arabi e longobardi avrebbero infranto per sempre le speranze di una rennovatio imperii, tesa a riunire la cristianità in un’unica realtà politica, spingendo definitivamente le due parti di quello che un tempo era stato l’Impero romano verso percorsi di sviluppo differenti.

Sulla continuità tra Roma e Bisanzio
https://www.youtube.com/watch?v=r3T-jhALIrE

Sulle radici della consacrazione del potere in età medievale
https://www.cerm-ts.org/scheda-01/

Crediti immagine: Sant’Ambrogio converte Teodosio, Pierre Subleyras, 1745 (Wikimedia Commons)

(Post)Comunismo

«Ho tre case: la Bielorussia, che è la terra dove è nato mio padre e dove ho vissuto tutta la mia vita; l’Ucraina, che è la terra dove è nata mia madre e dove sono nata; e la grande cultura della Russia, senza la quale non so immaginarmi». Sono parole che Svetlana Aleksievič pronunciò a Stoccolma, alla fine del discorso di accettazione del premio Nobel per la Letteratura del 2015, che l’Accademia di Svezia le aveva assegnato «per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo». Nata nel 1948, Aleksievič ha scritto in fondo pochi libri, ma ciascuno di essi è legato indissolubilmente a un fatto e un tema chiave della seconda metà del Novecento e alla storia del suo Paese e di quel pezzo di Europa che, fino al 1989, è stato “dall’altra parte del Muro” e ha rappresentato l’altra faccia della Guerra fredda – il mondo socialista, l’est europeo e in particolare la Russia; infine, ogni libro che Aleksievič ha scritto ha a che vedere con alcune categorie di persone meno rappresentate e tutelate (come le donne) e con un’idea radicale, umanista di ricerca della verità attraverso la letteratura: «Quando cammino per strada e capto parole, frasi ed esclamazioni, penso sempre a quanti siano i romanzi che vanno perduti senza lasciare traccia. Scompaiono nell’oscurità. Non siamo stati capaci di catturare in letteratura l’aspetto conversazionale della vita umana». È questo che prova a fare Aleksievič: crea “romanzi di voci”, come li chiama, architetture complesse e polifoniche in cui, di fatto, raccoglie voci vere di testimoni di grandi fatti della Storia, dà loro una forma e le assembla. Non c’è invenzione, nei suoi libri: ci sono storie di tutti i giorni, sentimenti, pensieri, desideri di persone che si sono trovate ad affrontare la guerra, o hanno vissuto sulla propria pelle il disastro nucleare di Černobyl’, e ora hanno l’occasione di raccontarlo all’autrice; lei, da parte sua, si impegna a trascrivere con fedeltà ciò che le viene confidato: storie a volte piccole, che raccontano una vita quotidiana vissuta al cospetto o malgrado grandi eventi tragici. L’idea è potente, e viene da Tolstoj: la Storia la fa la gente comune, ed è giusto che sia la gente comune a raccontarla.

La concezione della storia secondo Tolstoj: https://www.youtube.com/watch?v=Jp6dyQipD3o

Ma, se si limitasse a far questo, vale a dire a recarsi a casa dei testimoni con un registratore e una penna, Aleksevič non sarebbe la grande scrittrice che è, ma solo un’ottima reporter. Invece ciò che fa ha a che vedere con la letteratura, con un’idea forte di mondo. Qual è il suo contributo, dunque? Che cosa la rende una grande autrice? Molte cose, due delle quali fondamentali: anzitutto, l’idea che la letteratura debba e possa essere una forma di testimonianza e di ricerca della verità sulle cose del mondo, ma che queste testimonianze e questa indagine sulla verità non siano frutto di un lavoro d’archivio come fanno gli storici, ma di ricerche sul campo, di contatti umani cercati e perseguiti. A ciò si collega un’idea estetica semplice e potente, che dice che «bisogna restituire la realtà così come essa è», vale a dire senza abbellimenti: Aleksevič, per questo, nei suoi libri riproduce nel modo più fedele possibile il parlato, i modi di dire e di porsi delle persone a cui dà voce, nella convinzione che nelle scelte lessicali, nelle pause, perfino negli errori e nei ripensamenti risieda almeno una piccola parte di quella verità che va cercando con la letteratura.

Prima di scrivere ogni suo libro, Aleksevič si trova di fronte a uno sterminato archivio di registrazioni e appunti da cui emergono centinaia di voci, a volte in disaccordo tra loro, ma che devono tutte trovare spazio nella narrazione, perché solo così si può restituire ai lettori quel pezzo di mondo e di Storia che si vuole ricostruire. Allora, il lavoro “d’autore” sta nell’organizzazione di questi materiali, nel decidere quando e dove dare voce a un intervistato o a un altro, e quanto spazio lasciargli perché possa raccontare la sua storia con efficacia.

Uno dei suoi libri più importanti, e più recenti, si intitola Tempo di seconda mano ed è stato pubblicato nel 2013: è un enorme lavoro che racconta la vita quotidiana in Russia in seguito al crollo del comunismo. Raccoglie voci ascoltate e trascritte tra il 1991 – l’anno della fine dell’Unione sovietica – e il 2012: sono quasi vent’anni di ricerche, condensate in oltre 700 pagine di voci monologanti che Aleksevič ha pazientemente ricostruito suddividendole in due grandi parti: la prima, L’apocalisse come consolazione, racconta il decennio successivo al crollo, ossia gli anni Novanta; la seconda, Il fascino del vuoto, racconta gli anni Duemila. Il volume raccoglie «Voci di strada e conversazioni in cucina», che l’autrice ha captato, e che dicono storie piccole, a volte anonime, di “vita vissuta” al cospetto della fine del mondo socialista; poi, in entrambe le parti compaiono Dieci storie, stavolta grandi e articolate, firmate da testimoni, a volte vittime a volte carnefici, in ogni caso sempre protagonisti minori di quel grande sogno, poi mutatosi in dramma, che è stato l’Unione sovietica. Così, senza intervenire mai personalmente con la propria opinione, Aleksevič riesce comunque a comunicare a chi legge la grande portata del dolore e la fatica di vivere che chi ha vissuto a lungo sotto una dittatura si porta addosso; allo stesso tempo, riesce a gettare una luce sui tempi incerti e corrotti che hanno fatto seguito al crollo del comunismo, e sullo spaesamento di un popolo intero che, dall’oggi al domani, ha visto tutto ciò che conosceva venire meno e ha dovuto immaginare come reinventarsi.

La voce di Svetlana Aleksievič, in un’intervista che, partendo dall’invasione dell’ucraina, parla di russia, europa e democrazia: https://www.valigiablu.it/svetlana-aleksievic-guerra-ucraina-russia/

(Neo)Fascismo

È un libro del 1966, scritto dal grande scrittore greco Vasilīs Vasilikos: si chiama Z ma, nell’edizione italiana, ha un sottotitolo, L’orgia del potere, mutuato dal film che, nel 1969, il grande regista Costa-Gravas trasse da questo romanzo che sta a metà tra l’opera d’invenzione, il romanzo civile e l’atto d’accusa. Si racconta una storia tutto sommato semplice: nel maggio del 1963, il deputato di sinistra Grigoris Lambrakis, pacifista, viene ucciso a Salonicco da un militante fascista; le indagini rivelano che i mandanti dell’omicidio appartengono a movimenti di estrema destra, tra cui alcuni pezzi grossi della polizia e dell’esercito, appoggiati dal partito di destra al governo, l’ERE, che è democraticamente eletto ma che, grazie alla maggioranza assoluta dei seggi al Parlamento, agisce quasi senza contraddittorio e perseguita i rivali politici. Sono anni complessi per la Grecia, che sfoceranno nel 1967 nell’instaurazione della cosiddetta Dittatura dei colonnelli, un regime fascista che andrà avanti fino alla metà degli anni Settanta e che sarà colpevole di crimini perfino peggiori del delitto Lambrakis. La morte del deputato, però, è considerata quasi un atto di nascita della dittatura militare, e il suo caso è tuttora paragonabile, per l’impatto che ha avuto sull’immaginario collettivo, al delitto Matteotti, anche perché l’esecutore e i mandanti dell’omicidio, processati, subirono condanne lievi e, dopo il 1967, furono amnistiati.

Ebbene, Vasilikos, l’anno prima del colpo di Stato, in un clima politico che era ovviamente già più che favorevole alla dittatura, scrisse Z, che è di fatto una ricostruzione romanzata di questi fatti e di questo clima, scritta col piglio della spy story. Questo suo atto di coraggio lo costringerà all’esilio, che Vasilikos trascorrerà in gran parte in Italia. Nel 1969, come dicevamo, il regista greco Costa-Gravas (altro esiliato: in Francia stavolta) ne trasse un film, vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero e del Premio della giuria a Cannes, il cui lancio recita: «Ogni somiglianza con avvenimenti reali, persone morte o vive, non è casuale. È volontaria»È un thriller pieno di ritmo, di suspense, ma con un finale nero e disperato nonostante, in coda, ci sia una piccola nota di speranza: il Potere vince sempre, insabbia la verità, fa i propri interessi e se ne frega dei cittadini e dei diritti – questo è il messaggio; anche se, e qui sta la nota di speranza, prima o poi la verità salta fuori, anche grazie alle opere d’arte, come i libri o i film.

Democrazia

Nel 1946 l’Italia diventava finalmente una Repubblica e, dopo un anno, usciva quello che può essere definito il primo “romanzo parlamentare” della storia repubblicana. E il titolo è tutto un programma: I moribondi di Montecitorio, scritto da Vittorio Gorresio. È un’opera in verità piuttosto mediocre, presentata dall’editore Longanesi come «Il primo libro che tiri le somme dopo un anno di repubblica. (...) Un libro curioso e pettegolo» e che fin dal titolo riprende un vecchio romanzo del 1862, I moribondi di Palazzo Carignano – e qui c’è una coincidenza piuttosto curiosa. Il libro del 1862, pubblicato un anno dopo l’Unità d’Italia così come il libro di Gorresio è pubblicato un anno dopo la Repubblica, fu scritto dal giornalista Ferdinando Petruccelli della Gattina, deputato del Regno d’Italia nelle fila della Sinistra storica, che di fatto inventò il genere – non troppo frequentato – del “romanzo parlamentare”, vale a dire del romanzo ambientato tra gli scranni delle camere. Fin dal titolo, questo Moribondi di Palazzo Carignano era una satira, però sconsolata, dei comportamenti sciatti e irresponsabili dei parlamentari del Regno, tradizione seguita e rinverdita ottant’anni più tardi da Gorresio; la sciatteria, la brama di potere, i traffici sottobanco e l’ignoranza sono un filo conduttore del genere parlamentare: pensate a un altro libro giustamente dimenticato (è brutto), Le ostriche di Carlo del Balzo, esponente del naturalismo italiano e deputato del Regno a cavallo del 1900. Ebbene Le ostriche, pubblicato nel 1901, è uno dei primi romanzi sul clientelismo, e queste “ostriche” del titolo non sono nient’altro che gli onorevoli, attaccati come molluschi allo «scoglio di Montecitorio».

Ci sono, ovviamente, esempi più nobili. Nel Daniele Cortis (1881), Antonio Fogazzaro scrive il ritratto di un idealista cristiano, il Daniele del titolo, che mira a creare un movimento politico che porti in Parlamento delle figure moralmente rette e intellettualmente solide, in quella che è una sorta di utopia cattolica destinata al fallimento. Ma il sogno di Cortis non è democratico: è una monarchia illuminata. Anche L’imperio (1929), libro incompiuto di De Roberto, l’autore di I Viceré, è un romanzo parlamentare: racconta la vicenda di don Consalvo Uzeda di Francalanza, già protagonista, appunto, dei Viceré, che diventa deputato, si trasferisce a Roma, briga, disfa, rifà, corrompe e infine diventa perfino Ministro in quello che è un libro che, di nuovo, racconta la vita parlamentare come un groviglio di sotterfugi e personalismi. Romanzo sofferto di una vita, L’imperio è stato scritto, abbandonato, ripreso durante 25 anni in cui De Roberto, per provare a capire profondamente i meccanismi del potere, si trasferì perfino a Roma, dove fece ricerche che furono interrotte dalla sua morte, avvenuta nel 1927.

Infine Volponi e Stajano. Grandi scrittori eletti in Parlamento, che vollero scrivere della loro esperienza. Stajano lo fece nel 1997, ma non in un romanzo, in una sorta di diario pubblico che è il resoconto della sua esperienza in Senato negli anni 1994-1996: il libro si chiama Promemoria e racconta momenti e personaggi emblematici della Seconda repubblica – l’insediamento di Berlusconi e della sua corte, i grandi vecchi della politica (Andreotti, Spadolini), abili amministratori del potere, e una miriade di piccoli e grandi episodi di vita realmente vissuta da un uomo che si definisce «Uno straniero in patria tra Campo de’ Fiori e Palazzo Madama».

Paolo Volponi, invece, è uno dei più grandi scrittori della seconda metà del Novecento italiano. Fu senatore indipendente, ma vicino al PCI, tra il 1983 e il 1993. Progettò un romanzo epistolare, rimasto però allo stato di abbozzo, sul Senato: si chiama Il senatore segreto – una parodia incentrata, appunto, su certe misteriose apparizioni di un “senatore segreto” che, fin dai tempi della monarchia infesta come uno spettro i palazzi del potere romano, influenzando in modo occulto l’andamento della politica italiana e promuovendo sempre e inesorabilmente il trasformismo e la corruzione.

Paolo Volponi, il senatore segreto e la vita parlamentare, in un ritratto scritto da Corrado Stajano: https://www.corriere.it/cultura/11_dicembre_28/stajano-volponi_d06a933c-314f-11e1-b43c-7e9ccdb19a32.shtml

Crediti immagine: Svjatlana Aleksievič (Wikimedia Commons)

L’8 settembre, alla morte di Elisabetta II, tra i titoli di giornale che danno notizia dell’evento si legge quello del portale satirico “Lercio”, che recita: «ULTIM'ORA Spoilerato il finale di The Crown

La serie The Crown (Peter Morgan, 2016-) racconta la storia della Regina Elisabetta II e della famiglia reale dal 1947 ai primi anni 2000 (cui arriverà la stagione 6, attualmente in produzione). Sebbene The Crown sia una rielaborazione finzionale delle vicende dei reali britannici, la battuta di “Lercio” risulta molto efficace proprio perché si appunta sul suo legame con la realtà, portando al corto circuito la relazione tra dato storico e sua riscrittura narrativa.
È innegabile che The Crown mantenga una forte risonanza con la realtà, rafforzata da alcune delle sue caratteristiche salienti: la messa in scena di personaggi ancora presenti sulla scena pubblica; la precisione delle ricostruzioni scenografiche, che produce un forte realismo “di superficie”; il riferimento a fatti storici noti e tutt’ora vivi nella memoria di alcuni spettatori; l’impatto in termini di spettatori e la sua presenza ricorrente nei discorsi pubblici.
Non a caso, alla morte della regina la serie ha avuto un boom di visualizzazioni, proprio mentre le riprese si fermavano in segno di rispetto.
Tale relazione verità/finzione è stata, soprattutto nel Regno Unito, al centro di forti polemiche: la serie è stata accusata di resituire al pubblico una visione distorta della realtà storica, irrispettosa nei confronti della monarchia.
Proviamo allora a riflettere su questo aspetto centrale della ricezione di The Crown: che legame intrattiene la trama con i fatti realmente avvenuti? E come esso viene recepito nel discorso pubblico?

La serie

The Crown è stata ideata dallo sceneggiatore britannico Peter Morgan per la casa di produzione Left Bank Pictures. Morgan aveva già sceneggiato il film The Queen (2006), diretto da Stephen Frears e scritto lo spettacolo teatrale The Audience (2013), sugli incontri della regina con i Primi Ministri britannici. La regia era di Stephen Daldry, a sua volta coinvolto nella serie.
Sebbene inizialmente si pensasse a una co-produzione con la BBC, il servizio pubblico radiotelevisivo britannico, è stato poi il colosso della distribuzione online Netflix a finanziare quella che la cronaca ha subito registrato come la serie televisiva più costosa di sempre.
La narrazione di The Crown, incentrata sulla figura della regina, si avvia facendo proprie le convenzioni del racconto di formazione: Elisabetta si trova, molto giovane, a dover assumere su di sé l’importante ruolo istituzionale e le gravose responsabilità nei confronti della nazione, e deve imparare a farli convivere con la propria vita familiare.
Nel secondo episodio della serie, alla morte di re Giorgio VI, la Regina Madre ricorda a Elisabetta che deve mettere da parte la sua identità precedente, ora soppiantata da quella di regina. «Le due Elisabetta saranno spesso in conflitto tra di loro. Il punto è che la Corona deve vincere», scrive la Regina Madre alla nipote, dettando il conflitto drammatico di fondo delle prime stagioni (s01, e02).
The Crown intende dunque raccontare il privato di un personaggio che è per eccellenza pubblico, massimo esponente di uno tra i più potenti simboli dell’identità nazionale britannica, la monarchia. Per il pubblico del Regno Unito, la serie tocca quindi temi e personaggi che fanno parte di una storia e di un’appartenenza comune, per quanto possa essere controversa. Netflix invece è interessato meno a questioni identitarie che alla colonizzazione di un mercato globale: in quest’ottica la Corona rappresenta soprattutto un brand di successo, sicuro catalizzatore di interesse, non solo in patria.

La monarchia come racconto mediatico

Pubblico e privato, narrazione e realtà sono poli che fanno parte della percezione della monarchia ancora prima che essa venga raccontata nella serie. Ogni volta che ci si confronta con la famiglia reale, il confine tra realtà e rappresentazione appare confuso e instabile: che cosa si cela dietro gli elaborati cerimoniali? Cosa è vero di quello che i giornali raccontano? Quanto l’immagine pubblica della regina e della sua famiglia corrisponde alla loro autenticità di individui?
Forse, in parte, è proprio il mistero che circonda il vissuto di questi personaggi a rendere tanto avvincenti le narrazioni che li riguardano, pur nella consapevolezza della buona dose di invenzione narrativa che spesso le accompagna.
La famiglia reale stessa si presenta innanzitutto come un soggetto già messo in scena, codificato da protocolli e rituali che, nell’esporre i suoi membri allo sguardo pubblico, escludono per definizione l’accesso all’autenticità del loro mondo interiore. Semmai quest’ultimo ci arriva come narrazione mediatica, costruita dai tabloid, dalla televisione e dagli altri media che instancabilmente inseguono i reali per consegnare alla Gran Bretagna e al mondo intero l’inesauribile, e spesso fantasiosa, soap opera che li vede protagonisti.
The Crown dimostra la piena consapevolezza di questi meccanismi mettendo in scena la pervasività del discorso mediatico intorno alla Corona. La presenza di fotografi, giornalisti e reporter puntella la serie, insieme all’utilizzo di materiali di repertorio. La funzione di questi ultimi sembra meno quella di ancorare il racconto a un dato storico “oggettivo”, quanto piuttosto quella di descrivere la monarchia come un’istituzione la cui identità è costruita dalla stratificazione di discorsi e narrazioni molteplici, ufficiali o meno, e spesso tra loro conflittuali.
Del resto è il regno stesso di Elisabetta II ad aprirsi sotto il segno della mediatizzazione: la cerimonia della sua incoronazione è stata la prima a essere trasmessa in televisione, costruendo un vero e proprio evento mediatico. La serie sottolinea la crucialità di questo passaggio, alternando le immagini d’archivio in bianco e nero della BBC a quelle degli attori che recitano (s01, e05). A fare da spettatori diegetici delle prime sono gli ospiti del duca di Windsor, ex re Edoardo VIII, che ha abdicato in favore del padre della regina. Mentre il duca racconta ai suoi ospiti che allo spettatore televisivo non è possibile accedere con lo sguardo al momento più sacro della cerimonia, quello dell’unzione, le immagini ricostruite della serie lo mostrano in primo piano.
Questo passaggio svela il meccanismo alla base di The Crown: raccontare allo spettatore quanto normalmente non viene mostrato nei resoconti pubblici e mediatici, «unendo i puntini tra gli eventi conosciuti», come ha detto lo stesso Morgan, che non ha mai fatto mistero di aver usato le armi della finzione, pur appellandosi nelle dichiarazioni pubbliche a un senso di responsabilità nei confronti del soggetto messo in scena.
La narrazione si appunta innanzitutto su quanto è intimo, privato, dunque per definizione impossibile da sottoporre a prova, e la cui tenuta può essere verificata piuttosto alla luce della coerenza interna dei personaggi finzionali. La serie riproduce con minuzia maniacale (ed estremamente costosa) gli abiti, gli ambienti e i cerimoniali, ma non può che ipotizzare tutto quello che si è svolto lontano dai riflettori. The Crown propone una ricostruzione che ambisce a portare “dietro le quinte” dello sfarzoso spettacolo della monarchia, attenendosi a un principio di verosimiglianza ma non avendo la pretesa di narrare la verità dei fatti.
Nello stesso tempo, viene messa in scena la costruzione stessa dell’immagine della corona: il mito della corona è raccontato nel suo farsi, rivelando come la sua apparenza sia frutto di una serie precisa di strategie di posizionamento e narrazione di sé.

Le critiche di infedeltà ai fatti storici

Nonostante il successo di pubblico e il plauso della critica, The Crown è stato criticato per l’infedeltà ai fatti storici. Il tema è emerso come particolarmente sensibile dal momento che la narrazione non solo si appunta su uno dei simboli dell’identità nazionale, ma soprattutto ne rievoca fatti recenti e che riguardano persone ancora in vita al momento dell’uscita della serie. Inoltre, le polemiche si sono fatte più aspre all’uscita della quarta stagione: essa ha al centro il discusso periodo del governo di Margaret Thatcher, e soprattutto la relazione tra il Principe Carlo e Diana Spencer, che all’epoca ha minato a fondo l’immagine pubblica della Corona.
Proprio in occasione dell’uscita della quinta stagione, il Segretario di Stato per la Cultura del Regno Unito, Oliver Dowden, ha chiesto pubblicamente a Netflix di rendere esplicito, all’inizio di ogni episodio, che la serie è un’opera di finzione. Altrimenti, ha affermato l’esponente del Partito Conservatore, «ho paura che le generazioni di spettatori che non hanno vissuto all’epoca degli eventi possano confondere i fatti con la finzione».
Partendo da simili presupposti, giornalisti e storici, ma anche spettatori comuni, si sono affannati a trovare le differenze tra i fatti realmente accaduti e gli eventi narrati nella serie.
La preoccupazione per la possibilità che The Crown fornisca a chi la segue un ritratto troppo fantasioso della monarchia britannica si basa su una concezione della televisione come medium dalla forte vocazione educativa, che fa saldamente parte della tradizione del servizio pubblico britannico.
A questa visione, che affonda le radici nella storia dei media del Regno Unito, si somma tuttavia una concezione che poco ha a che fare con essa. «A causa delle lacune nell’insegnamento della storia in questo Paese, e della scarsità dell’insegnamento della storia britannica all’estero, in troppi guarderanno [lo show] confondendo la finzione con i fatti», ha scritto sul Daily Telegraph lo storico Simon Heffer.
Da considerazioni come questa emerge come il pubblico non sia tanto inteso come soggetto da educare, ma piuttosto come destinatario privo degli strumenti critici di base per distinguere la realtà dalla finzione. Gli spettatori sarebbero a rischio di credere vere delle invenzioni narrative e, ancor peggio, di farsi condizionare da una visione critica della monarchia di cui la serie sarebbe veicolo.

Comprendere i prodotti mediali

Eppure, questo tipo di lettura, che giudica l’efficacia della serie a partire dalla sua (mancata) aderenza alla realtà, sembra non cogliere il punto.
Consideriamo innanzitutto la richiesta di porre all’inizio di ciascun episodio un disclaimer che dichiara il prodotto finzionale. A ben vedere, esistono già consegne di lettura che collocano la serie nell’ambito della finzione. Nel trailer si legge che The Crown è «ispirata a fatti realmente accaduti» (https://www.youtube.com/watch?v=JM77OJDASxQ), segnalando dunque la presenza di un intervento immaginativo nella messa in scena. Gli episodi della serie sono inoltre collocati sotto la categoria “drama” di Netflix, e non è presente alcuna indicazione che possa collegarli a un intento documentaristico.
Inoltre The Crown si inscrive nelle convenzioni del period drama. Quest’ultimo ha conosciuto di recente una rinnovata fortuna con produzioni britanniche come Downton Abbey (Julian Fellowes, 2010-2015), nel cui solco si inscrive la serie di Peter Morgan, insieme a Bridgerton (Chris Van Dusen, 2020-) e molti altri show che sfruttano la popolarità del genere (ad esempio, a tema monarchico: Victoria, ideato da Daisy Goodwin e trasmesso tra il 2016 e il 2019, e Becoming Elizabeth, del 2022, creata da Anya Reiss e dedicata agli anni giovanili di Elisabetta I).
Il passaggio all’età adulta, i rapporti amorosi, la relazione genitori-figli e i conflitti che si generano tra la vita privata di un individuo e i suoi doveri istituzionali sono archetipi più ampi, che in The Crown si incarnano in quel gruppo di famiglia insieme normale (nelle passioni che vive) ed eccezionale (per il ruolo che ricopre nei confronti della nazione e del mondo) che è la casa reale.
Il mondo narrativo si sviluppa secondo una coerenza interna che in definitiva appare, per un prodotto di questo tipo, più importante che l’adesione a una verità storica che in alcuni casi rimane irrimediabilmente solo presunta.
Considerata dal punto di vista dell’educazione alla comprensione dei prodotti mediali, la questione può dunque essere impostata in questi termini: siamo in grado di decifrare le consegne di lettura che accompagnano i testi e ne orientano la ricezione?
La nostra interpretazione dei prodotti mediali tiene conto di fattori come il contesto in cui sono realizzati e di quello in cui circolano, gli aspetti produttivi, il genere, le indicazioni di lettura testuali e paratestuali (come il già citato trailer)?
Ad esempio, è sensato criticare una serie prodotta da Netflix, colosso dell’intrattenimento, perché disattende il compito educativo di fornire un resoconto veritiero della storia recente del Regno Unito? Attribuire a un’industria dei compiti cui è più vocato, come già accennato, il servizio pubblico, è un fraintendimento di fondo che mina la comprensione di ciò che si sta guardando.
Ciò non significa che la serie non possa essere il punto di partenza per una riflessione sulla storia, ma essa deve essere attentamente guidata. Si potranno allora indagare da un lato la realtà dei fatti storici, dall’altro le esigenze narrative che hanno portato a cambiarli (o inventarli), e si rifletterà sulle regole del racconto di finzione.
Nella comprensione dei prodotti di intrattenimento entrano in causa una ricca serie di competenze: conoscenza degli assetti del sistema mediale contemporaneo; riflessione critica sulle indicazioni di lettura che accompagnano i testi di cui fruiamo; abilità nell’interpretare le immagini e i significati che veicolano, oltre che le logiche che le sottendono; percezione del confine tra intrattenimento ed educazione, ma anche delle modalità in cui questi due poli si ibridano e si intrecciano. Si tratta di un insieme di questioni che vanno oltre The Crown e si rivelano centrali per orientarsi nello scenario contemporaneo, attraversandone la complessità in modo consapevole.

Per approfondire: la famiglia reale ha preso le distanze dalla serie, ma diversi membri hanno dichiarato, direttamente o indirettamente, di guardarla.

Comunicato della famiglia reale: https://www.theguardian.com/tv-and-radio/2019/sep/13/the-crown-on-netflix-has-no-royal-seal-of-approval

Un commento di Carlo d’Inghilterra: https://ukdaily.news/prince-charles-stuns-brits-by-revealing-how-he-really-feels-about-netflixs-the-crown-im-not-anywhere-near-what-they-make-me-out-to-be-48130.html

Apprezzamento del Principe Harry: https://www.youtube.com/watch?v=BeQo61cKc_A

Crediti immagine: Pixabay

Se le monarchie sono presenti sulla scena politica da quando esistono testimonianze storiche delle società umane, allora il loro rapporto con il potere è forse più fondamentale di quello di ogni altra forma di Stato. Su questo assunto si basa una delle più recenti e interessanti analisi del potere proposte dall’antropologia.

Il potere regale e il controllo delle risorse

Come formulare ipotesi sul passato degli esseri umani, quando mancano non solo fonti scritte, ma anche reperti sufficienti? Per rispondere a questi interrogativi gli antropologi scandagliano azioni e credenze delle società tradizionali, lontane dalla tecnologia industriale. L’assunto di partenza è che sia possibile comparare culture molto distanti tra loro nel tempo e nello spazio, assunto confortato da numerose evidenze (senza per questo immaginare uno sviluppo univoco e necessario delle società e delle culture).
Negli anni Settanta un antropologo attento alla dimensione economica, Marvin Harris, ha proposto un’ipotesi suggestiva nel volume Cannibali e re. Le origini delle culture (Feltrinelli, Milano 2013) . La nascita dello Stato sarebbe legata alla redistribuzione delle eccedenze alimentari e, insieme con lo Stato, sarebbero comparse le figure dei primi monarchi. In origine, non sarebbero state che figure dal potere limitato, la cui funzione era quella di controllare le eccedenze alimentari in dati periodi. La transizione da questo ruolo limitato a quello di re non è chiara, ma a provocarla potrebbero essere stati il bisogno di controllare attività di più villaggi, la necessità di difendersi da nemici, il coordinamento di attività agricole su ampie superfici. In questo modo, come ribadisce il sociologo Michael Rush in Politica e società. Introduzione alla sociologia politica (Il Mulino, Bologna 2007) , tra potere politico e territorio vi è un legame strettissimo.

In principio c’erano i metaumani

Questo aspetto “materiale” viene ora indagato in una prospettiva più culturale alla luce di una massa di indagine settoriali che si sono accumulate nel corso degli ultimi decenni. È la proposta avanzata da David Graeber e Marshall Sahlins nel corposo volume Il potere dei re. Tra cosmologia e politica (Raffaello Cortina, Milano 2019), dove sono raccolti alcuni saggi dei due autori su casi specifici, accompagnati da una introduzione (di entrambi) e una conclusione (del solo Graeber) dal taglio più generale. Lo scopo di questo lavoro, afferma Graeber, è proporre una “archeologia” della regalità, ossia una ricostruzione delle sue origini.
In questo senso, è emblematica l’affermazione: «Lo stato di natura ha la natura di uno Stato», con cui Graeber et Sahlins sovvertono la tradizione giusnaturalistica sei-settecentesca, che immagina la nascita dello Stato attraverso la frattura con una condizione naturale di assenza di potere politico. Le società “tradizionali”, persino se “acefale” (prive di una gerarchia politica) sono in realtà immerse in un mondo complesso, spiegano Graeber e Sahlins, nel quale degli esseri metaumani governano l’esistenza degli uomini. Questi esseri metaumani, che nel nostro linguaggio chiamiamo Dei o spiriti, sono i veri governanti di una comunità. Essi possiedono quella che chiamiamo sovranità, ossia secondo le parole di Graeber “un potere di comando”, capace di imporre regole e ordine, ma che ha in sé elementi di arbitrio.

Qui trovi una biografia di Sahlins https://www.treccani.it/enciclopedia/marshall-sahlins/
Qui trovi un articolo sul lavoro intellettuale e l’impegno di Graeber https://www.repubblica.it/esteri/2020/09/04/news/morto_a_59_david_graeber_l_antropologo_anarchico_statunitense_che_ispiro_occupy_wall_street-266188534/
I due autori sono recentemente scomparsi.

Sovranità a tempo

Qualcosa di questo potere si trasferisce negli uomini che svolgono alcune funzioni pubbliche, ma limitatamente a un dato periodo dell’anno e/o in certe cerimonie o attività. Si tratta in ogni caso di un potere che non è riconosciuto come proprio da figure come gli sciamani (intermediari tra dei e uomini), re della pioggia, poliziotti stagionali: si tratta di un potere la cui fonte è riconosciuta negli esseri metaumani e che viene esercitato per il benessere della comunità.
Le riflessioni di Graeber e Sahlins si soffermano su quelle forme di potere che si esercitano in società tradizionali, dove alcuni poteri sono esercitati solo in un dato periodo, come in alcune tribù delle pianure americane, o solo all’interno di uno spazio, come avviene presso altre: in entrambi i casi il potere è limitato, ma proprio per questo è sacro, separato dal resto della società. È tale separazione, per quanto foriera di un limite all’agire, a dare al potere un carattere speciale.
Quando si parla di metaumani, metapersons in inglese, si intendono delle entità che hanno poteri e capacità superiori a quelle umane.
La parola metaumano, in senso più corrivo ma non del tutto slegato al significato precedente, viene usato per indicare nella fantascienza i supereroi o altri personaggi dotati di poteri o caratteri sovraumani.

Le strade della sovranità

La teoria di Graeber e Sahlins compie un rovesciamento rispetto a tante tesi degli ultimi secoli. Contro tutte le teorie che hanno visto nella concezione del mondo spirituale o degli dei un riflesso della società umana, i due antropologi sostengono invece che la regalità si sia plasmata su un modello divino. Per questo i re delle origini possiedono dei caratteri estranei al popolo che governano: hanno compiuto atti riprovevoli, vengono da lontano come conquistatori, sono estranei alle norme che regolano i comportamenti degli uomini normali.
La regalità ha sempre qualcosa di religioso e di metaumano, ma anche su questo terreno si compie una sorta di sfida tra il sovrano che vuole estendere il suo potere e il popolo che lo limita. Sahlins parla allora di una regalità divina, quella del re che cerca di rendersi potente come un dio, e di regalità sacra, quella di un re che esercita il suo potere solo in determinati ambiti.
Si tratta di due “traiettorie” lungo le quali si svolge il complesso gioco tra il potere della sovranità, ossia di dare ordini stando al di fuori della legalità, coloro che per qualche ragione la incarnano e altre figure che intendono limitarla. La strada della divinità è quella percorsa dai re vittoriosi, che hanno imposto la loro supremazia su una popolazione. La seconda è quella della sacralità, nella quale il re si trova limitato da molteplici vincoli.

Una chiave di lettura per il presente?

Negli ultimi anni l’antropologia si è spesso allontanata da discorsi generali. La riflessione di Graeber e Sahlins invece ha proprio l'aspetto di una teoria di grande respiro sulla regalità, consapevole dei molti debiti verso altri antropologi, filosofi e giuristi.
Per quanto non sia in grado (ma neppure lo pretenda) di mostrarci i percorsi storici del passaggio da società prive di Stato a società statuali e monarchiche, ci fornisce numerosi spunti per leggere in termini antropologici anche la realtà contemporanea. Con la nascita della regalità i re hanno sottratto certe qualità agli esseri superiori. È per questo che i re non sono mai considerati degli uomini puri e semplici. Anche nelle monarchie di oggi, essi esercitano un potere che contiene un residuo di questa origine extra umana. Il successivo passaggio alla sovranità popolare non è allora che un secondo scippo di potere, quello che secondo Graeber rende i re simili a “divinità malconce e indignate”.


Crediti immagine: King, from a group of Donor Figures including a King, Queen, and Prince, Francia 1350 circa (Wikimedia Commons)

«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».
G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, 1958

È una delle frasi più celebri della letteratura italiana di ogni epoca, ed è un paradosso.
Il paradosso non è propriamente una figura retorica – nel senso che non tutti i manuali lo annoverano tra questo tipo di figure: ma è un processo retorico quello che ci porta a farne uso e, pertanto, ha pieno diritto di far parte di questa rubrica. Il principio su cui si fonda assomiglia, per certi versi, a quello dell’ossimoro: come l’ossimoro, infatti, e come si vede bene nella frase di Tomasi, il paradosso gioca con le contraddizioni, ma non crea un’immagine quanto un discorso contraddittorio, e gioca con la logica e con il senso.

Per capirci: a volte ci capita di vedere, che so, un film davvero brutto, ma di esserne attratti, e magari di volerlo rivedere. Se volessimo tradurre in un ossimoro questa nostra insana passione, potremmo dire che quel film è di un «brutto bello»; se volessimo, invece, esprimere questo concetto in termini più universali e, filosofeggiando un po’, costruire un paradosso, potremmo dire che quel film ci piace perché in fondo, secondo noi, «Il brutto è bello».

Infine, fate attenzione, i paradossi sono procedimenti molto potenti. A saperli usare, si può fare qualunque cosa, perfino uccidere un uomo morto: https://www.raiscuola.rai.it/storia/articoli/2021/02/Vile-tu-uccidi-un-uomo-morto-90d0d426-c880-465e-adaf-1eabbf29024b.html


(Crediti immagine: EliFrancis, Pixabay)

L’ordine ideale tra teoria e prassi

L’esercizio di classificare le forme di governo attraversa tutta la storia del pensiero occidentale, affondando le proprie radici nella filosofia greca. Si è soliti pensare all’Antica Grecia come la culla della democrazia, riferendosi in particolare all’Atene di Pericle del V secolo a.C. A uno sguardo più approfondito, ci si accorge però che non solo nel pensiero greco non esiste una vera e propria teorizzazione della forma “democrazia”, ma che questa tende persino ad assumere una connotazione negativa come sinonimo di disordine e anarchia. Nella Grecia delle origini, la filosofia è pratica aristocratica e sapienziale, riservata a un ristretto numero di persone che considera la migliore forma di governo quella guidata dai “migliori”, non certamente dal demos. Questa caratteristica è riscontrabile ne La Repubblica di Platone (428/427 a.C. - 348/347 a.C.), opera dedicata alla costruzione di uno Stato ideale, capace di evitare la crisi e garantire la Giustizia. Per Platone, la democrazia è infatti il governo irrazionale che ha condannato a morte il suo uomo migliore, ovvero Socrate. Il primo obiettivo di Platone è quindi immaginare un ordine sociale e politico che funzioni in modo armonico e al cui interno ognuno ricopra un ruolo ben preciso. Lo Stato ideale è ordinato e giusto ma, come i pensatori contemporanei hanno evidenziato, sacrifica la libertà degli individui. Per Platone, il rischio di degenerazione dell’ottimo stato è sempre presente e può realizzarsi in varie forme: la timocrazia, basata sull’onore e sull’ambizione di uomini che si appropriano di terre e beni; l’oligarchia, che corrisponde al governo dei ricchi; la democrazia, in cui gli uomini sono liberi e senza freni; la tirannide, intesa come degenerazione della democrazia stessa, in cui un uomo emerge e sottomette gli altri.

Con l’opera La società aperta e i suoi nemici (1945), Karl Popper (1902-1994) è tra i primi filosofi contemporanei a fare i conti con gli elementi che caratterizzano i regimi totalitari. All’interno del testo, è celebre la critica allo Stato ideale di Platone, considerato da Popper un esempio paradigmatico di totalitarismo. Per un approfondimento, si rimanda al seguente video: https://www.youtube.com/watch?v=Co0KvhwC2cs

Diversa è l’analisi di Aristotele (384/383 a.C. - 322 a.C.) che inaugura una linea di riflessione più volte ripresa nella modernità e nella contemporaneità. Ne La Politica, Aristotele utilizza due criteri per la propria classificazione: il numero di coloro che detengono il potere e la preminenza del tipo di interesse che viene difeso (pubblico o privato). Tenendo conto di questi aspetti, sono tre le forme di governo buone, in quanto orientate al bene comune, che si possono avere: il regno (monarchia), l’aristocrazia, la politia (democrazia). Quando gli interessi privati prendono il sopravvento, si danno altrettante degenerazioni: la tirannide, l’oligarchia, la demagogia. Per Aristotele, ogni forma retta di governo può mutarsi non solo in quella che le è più vicina, ma anche nel suo opposto. Sebbene la forma preferibile sia la politia, anche il potere di uno solo o di pochi può costituire un buon governo se orientato all’interesse pubblico. Ovviamente, la democrazia a cui si riferisce Aristotele resta molto distante dalla nostra idea contemporanea, in quanto solo gli uomini adulti, liberi e proprietari sono considerati cittadini. La democrazia greca esclude donne, schiavi e  stranieri. 

La Politica di Aristotele è importante anche perché in essa è possibile individuare l’origine del significato di dispotismo così come verrà ripreso nel corso dei secoli dai filosofi occidentali. Aristotele distingue infatti tra la monarchia (eroica) dei Greci e la monarchia dei “barbari” (asiatici), i quali accetterebbero senza difficoltà il potere dispotico in quanto naturalmente portati alla sottomissione. Proprio in questo aspetto il dispotismo si distingue per Aristotele dalla tirannide, la quale è sì una forma corrotta di governo, ma esercitata su popoli liberi; il dispotismo è invece una forma legittima, esercitato su popoli schiavi.

Contro l’assolutismo. Società plurale e divisione dei poteri

In epoca moderna è il filosofo francese Montesquieu (1689-1755) che ne Lo Spirito delle Leggi (1748), tra i capisaldi del pensiero politico europeo, si fa erede dell’analisi aristotelica sul dispotismo, calandola in un periodo storico caratterizzato dalle monarchie assolute di cui è convinto oppositore. Per Montesquieu, i sovrani assolutisti non hanno fatto altro che portare nel contesto europeo una forma di governo naturalizzata in Asia e, in quanto tale, non congeniale ai paesi occidentali. Viene tracciato un netto confine tra monarchia europea, concepita come esercizio di potere secondo le leggi, e dispotismo orientale, inteso come esercizio di potere secondo il capriccio che pervade non solo la vita pubblica delle persone ma anche quella privata. Il dispotismo continua così a essere considerato una forma autonoma di governo e non una sottospecie della monarchia.

Ideale di Montesquieu è una società pluralistica, suddivisa tra diverse classi sociali e che si fonda su una chiara separazione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Nel dispotismo orientale mancano per il filosofo francese entrambe queste caratteristiche: il sovrano concentra nelle proprie mani tutti gli interessi e si rapporta senza mediazioni con la massa dei sudditi che, di fatto, sono schiavi. È un potere statico, finalizzato a una tranquillità solo apparente, in quanto basata sulla  paura costante. Così come non esistono classi che mediano tra il sovrano e il popolo (come in Europa poteva essere la nobiltà), allo stesso modo non esiste alcuna separazione dei poteri. Persino il potere giudiziario, la cui autonomia e indipendenza è per Montesquieu il vero cardine di un governo moderato, viene gestito in modo diretto ed esclusivo dal sovrano che diventa giudice. Le stesse conseguenze del formalismo giuridico (come la lentezza e la complicazione dei procedimenti giudiziari) sono il prezzo che ciascun cittadino paga per la  propria libertà, mentre l’eccessiva semplificazione dei processi e delle leggi diventano l’anticamera del dispotismo.

Nazismo e comunismo. I volti novecenteschi dell’oppressione

Nel Novecento, all’indomani della Seconda guerra mondiale, i filosofi si interrogano sulla barbarie che ha attraversato l’Europa e sui regimi che l’hanno resa possibile. Non è la prima volta che il Continente ha vissuto guerra e violenza, ma si ha la consapevolezza di essere davanti a fenomeni politici inediti. In Le origini del totalitarismo (1951), la filosofa tedesca Hannah Arendt (1906-1975) riconosce l’assoluta peculiarità del regime totalitario, considerandolo una forma di potere del tutto a sé stante rispetto a dispotismo, tirannide e dittatura. Arendt si inserisce nel solco della tradizione di pensiero di Montesquieu, tenendo ben distinti i concetti di potere e di dominio. Lungi dall’assumere un significato negativo, il potere è concepito come relazione: fin quando esso è ripartito, una società è libera e plurale. È nella concentrazione dei poteri, nella loro implosione verso un unico centro, che si realizzano dominio e violenza, tipici dei regimi novecenteschi.

Per Arendt, il totalitarismo si contraddistingue dalle altre tipologie di governo perché capace di distruggere il presupposto di ogni libertà, ovvero lo spazio di movimento e azione di uomini e donne. È in particolare nell’ultimo celebre capitolo del volume, intitolato “Ideologia e terrore” e considerato quasi un saggio breve autonomo, che Arendt approfondisce questo aspetto, distinguendo tra isolamento ed estraniazione. Pur distruggendo la sfera politica degli uomini, isolandoli gli uni dagli altri nella loro possibilità di agire in uno spazio pubblico, la tirannide non arriva a sradicare le capacità creative, lasciando loro margine di movimento negli altri ambiti dell’esistenza. Il totalitarismo è invece radicale perché pervade tutti gli spazi di vita delle persone, estraniandole e creando intorno a esse un deserto di relazione e azione che permette un dominio totale su di loro. Se l’essenza della tirannide è per Arendt l’illegalità, l’essenza di un regime totalitario è il terrore, che si incarna nel ruolo della polizia segreta, strumento di controllo su tutte le figure e le funzioni del regime.

Per approfondire la teoria di Arendt sul totalitarismo e il suo aspetto pervasivo nella vita umana: https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2019/01/Anna-Arendt-e-la-teoria-del-totalitarismo-4ea82fcc-d08c-4833-b090-4db2cb4e8c68.html

Crediti immagine: Platone e Aristotele, particolare della formella del Campanile di Giotto di Luca della Robbia, 1437-1439, Firenze (Wikimedia Commons)

Il primo risultato che si ottiene da un motore di ricerca se si digita “Forme di governo” nella barra apposita è la pagina Wikipedia dedicata. Ciò che sorprende, una volta aperta la pagina, è la quantità di forme annoverate, alcune di utilizzo piuttosto raro, come per esempio “oclocrazia”, “futarchia” o “isocrazia”.

“Iperonimo”, “iponimo” e “coiponimo” sono termini semantici che l’insegnante può spiegare alla classe utilizzando la scansione gerarchica della pagina Wikipedia sulle forme di governo, in quanto queste ultime sono ben divise nell’elenco tra termini capofila degli insiemi e sottoinsiemi.

La lista di “Forme di governo”, per esempio, mostra “Autocrazia” (iperonimo) a sinistra in grassetto; e poi, sotto questo termine troviamo “dittatura”, un po’ più a destra. “Dittatura” è poi seguito, ancora più a destra da: “Dittatura militare”; “statocrazia”; “stratocrazia”; “dispotismo”, coiponimi di primo grado di “dittatura” e di secondo grado di “autocrazia”.
Gli espedienti grafici possono aiutare molto i discenti nella comprensione di queste differenze linguistiche.

C’è poi un secondo filone che si può prendere in considerazione per lo svolgimento di esercizi con la classe, ovvero individuare le forme simili per morfologia. Individuare i formanti più o meno simili come “-crazia” e “-archia” per esempio, agevolando anche l’apprendimento delle forme di governo non solo dal punto di vista linguistico, ma anche da quello storico e geografico.

Dragotto suggerisce anche un’ultima possibilità di utilizzo della pagina Wikipedia di “Forme di governo”, ovvero quella metalinguistica, individuando per esempio i “composti neoclassici”, un concetto esposto nel testo del 2004 di Maria Grossmann e Franz Rainer Niemeyer dal titolo La formazione delle parole in italiano.

Infine, viene introdotto il concetto di “lessico comune europeo”, dimostrazione che la lingua greca e quella latina non sono mai morte, ma continuano a vivere nella nostra contemporaneità.


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“A settembre sono accaduti due fatti storici. Il primo è la morte della regina Elisabetta II, che si è spenta dopo aver governato per ben 70 anni. Il secondo sono le elezioni politiche in Italia: dopo un anno e mezzo di governo tecnico, abbiamo di nuovo un premier eletto dagli italiani. Ora tocca ai cittadini americani, chiamati alle urne per le elezioni di metà mandato, e il mondo è con il fiato sospeso: il nuovo parlamento rinnoverà la fiducia al Presidente Biden e ai suoi ministri?”

Questo incipit contiene tre errori in cui è facile cadere se non si hanno le idee chiare sulle forme di governo. 

Primo: la regina Elisabetta ha regnato, ma non governato, per 70 anni.
Secondo: a settembre i cittadini italiani non hanno eletto un nuovo premier, né mai lo hanno fatto nella storia della Repubblica.
Terzo: non ha senso chiedersi se il Congresso americano rinnoverà la fiducia a Biden perché negli Usa, la fiducia, semplicemente non esiste! 

In questo video Francesca Faenza fornisce gli strumenti utili per conoscere le varie differenze tra i diversi tipi di monarchie e repubbliche.


Crediti immagine: Pixabay

Francesco Palermo è professore ordinario di Diritto pubblico comparato nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Verona e Direttore dell’Istituto di studi federali comparati di Eurac Research. Già Senior Legal Adviser dell’Alto Commissario OSCE, presidente del Comitato consultivo della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali del Consiglio d’Europa e Senatore della Repubblica. È Constitutional adviser del Congresso dei poteri regionali e locali del Consiglio d’Europa e membro del comitato scientifico dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea.

In questo Intervento d’Autore fornisce gli strumenti per distinguere tra le diverse forme di governo.

Per poter distinguere le varie forme di governo, di solito si guarda al rapporto tra potere legislativo (Parlamento) e il potere esecutivo (Governo). Se il potere esecutivo dipende dalla fiducia del Parlamento (come in Italia) siamo nell’ambito delle forme di governo parlamentari, altrimenti ci troveremo in una forma presidenziale.

La prima forma di governo analizzata nel video è la Monarchia costituzionale, dove il governo è sostanzialmente un organo ausiliario del Sovrano e il sistema funziona nell’accordo necessario tra il Parlamento e il Sovrano.

La forma di governo parlamentare è un’evoluzione della monarchia costituzionale: il governo non è più un organo ausiliario del sovrano ma è titolare del potere di indirizzo politico e dipende dalla fiducia del Parlamento, elemento che può provocare instabilità.

La forma di governo presidenziale vede invece la separazione tra Parlamento e Governo. Quest’ultimo non dipende dal rapporto di fiducia del Parlamento e il Presidente non ha il potere di scigoliere il Parlamento. Il Presidente viene eletto direttamente dal popolo, non è sfiduciabile dal Parlamento ed è titolare dell’indirizzo politico.

La “terza via”, ovvero il governo semipresidenziale ha una doppia legittimazione (presidente eletto, non sfiduciabile) ma c’è anche la presenza di un Governo, che ha bisogno della «doppia fiducia» di Parlamento e Presidente. 

Infine abbiamo il caso emblematico della Svizzera, che presenta un governo direttoriale, dove l’esecutivo è un Direttorio del Parlamento. Il Direttorio è sia governo che Capo dello Stato e non ci può essere la sfiducia.

Il video si conclude con l’analisi del caso italiano.


Crediti immagine: Pixabay

La riflessione filosofica e storiografica greca ha manifestato – praticamente fin da subito – grande interesse per le forme di governo: pensiamo alle considerazioni su monarchia, aristocrazia e democrazia di Erodoto (nel libro III delle Storie, ai capp. 80-82), alle riflessioni sparse di Tucidide sulla democrazia e sul suo funzionamento, alla teorizzazione dello stato ideale di Platone nella Repubblica, all’analisi dettagliata di Aristotele nella Politica (in ben otto libri), alla presentazione dei vari governanti/uomini di stato esemplari da parte di Senofonte (Agesilao, Ciropedia, Ierone), per arrivare all’anaciclòsi (= ritorno ciclico) di Polibio (la rassegna è largamente incompleta: serve, spero, a dare un’idea della consistenza e della persistenza dell’interesse greco al tema).
Quella di Polibio è certamente una delle teorizzazioni di maggior successo sulle forme di governo e sulle loro evoluzioni (ripresa emblematicamente da Niccolò Machiavelli nel Principe).
Nella ricostruzione di Polibio (che riprende concetti già espressi da Aristotele nella Politica, spec. nei libri III-VII) le forme di governo si susseguono obbligatoriamente a causa della loro degenerazione: la monarchia si trasforma in tirannide, e quindi induce il cambiamento. Alla monarchia/tirannide subentra l’aristocrazia (governo dei migliori), che a sua volta, con il tempo, degenera in oligarchia (governo di pochi, e non necessariamente i migliori), causando un nuovo cambiamento: la democrazia (il governo del popolo, la partecipazione attiva di tutti i cittadini alla vita pubblica); la democrazia degenera in oclocrazia (governo delle masse, sostanzialmente fuori controllo) che induce a un ennesimo cambiamento, con il quale si ritorna alla condizione di partenza, la monarchia. Il ciclo è completo. Il circuito è chiuso. E il ciclo, nell’ottica di Polibio, è destinato a ripetersi, secondo una visione sostanzialmente deterministica e meccanicistica della storia.
Fanno eccezione Sparta e lo stato romano, dove le tre forme di governo, combinate in sinergia, hanno garantito stabilità e non hanno prodotto desiderio di cambiamento. Rispettivamente a Sparta e a Roma, Polibio individua l’istituto monarchico nella diarchia e nel consolato, quello aristocratico nella gherusia e nel senato, quello democratico nell’apella e nel tribunato (e nei concili) della plebe.

Dal punto di vista storico, guardando al caso della Grecia, in forme variamente articolate e declinate troviamo ovunque forme di monarchia o di aristocrazia, tranne ad Atene nel V secolo a. C., perché Atene, nel V secolo a. C., inventa la democrazia, portandola alla sua più radicale espressione.
La democrazia, è bene ricordarlo, è un esperimento tutto ateniese, e alla democrazia ateniese si rifanno, almeno nel nome, i moderni ordinamenti democratici.
La democrazia ateniese poggiava su alcuni capisaldi ideologici fondamentali: parresia; isegoria e isonomia.

Questi principi, variamente adattati, sono alla base dei principi fondamentali della costituzione italiana: si considerino specialmente gli articoli 1 e 3 (https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/principi-fondamentali)
La parresia e l’isegoria possono esser fatte coincidere, con buona approssimazione, con i nostri moderni concetti di diritto di opinione e di espressione; l’isegoria, più nello specifico, implica che, nel caso di organi collegiali, il parere di un membro conta quanto quello degli altri membri (non c’è un’opinione che pesa di più secondo una norma stabilita, un privilegio o uno status acquisiti o simile).
L’isonomia, ovvero “leggi uguali per tutti”, sancisce l’uguaglianza del cittadino di fronte alla legge.
Da qui deriva, concretamente, il diritto/dovere di ciascun cittadino a prendere parte attiva alla vita della polis attraverso il voto. Lo slogan «one man, one vote» è particolarmente vero nell’Atene democratica.

L’anonimato e la lotta al culto della personalità

L’idea di un demos come insieme di cittadini uguali tra loro che governa la polis si è fatta strada progressivamente, e specialmente il senso di uguaglianza sembra aver faticato ad affermarsi (ammesso che si sia davvero affermato). Certamente alcuni settori della polis – si pensi specialmente ai ghene aristocratici – faticavano a riconoscersi come uguali e pari ai loro concittadini “semplici”.
La democratica Atene ha provato in più modi a ribadire e consolidare questo senso di uguaglianza, di partecipazione e condivisione (leggi, sistemi di voto, “propaganda democratica” attraverso i media del tempo: la comunicazione poetica, il teatro, l’iconografia ecc.).
Tra questi spicca, a livello ideologico, la esaltazione della collettività a discapito del singolo, dell’anonimato a discapito del culto della personalità.
In questa direzione vanno sia la procedura dell’ostracismo (= mandare in esilio chiunque fosse ritenuto potenzialmente pericoloso perché in grado di aspirare alla tirannide) sia la scelta di sopprimere tutti quelle forme di esaltazione e celebrazione individuale legate al nome: l’esaltazione della collettività relega il singolo nell’anonimato.

Il primo esempio di “anonimato” ideologico si può individuare in quanto riferisce Erodoto (5. 77. 4) a proposito della vittoria militare ateniese (già sulla via della democrazia) su Beoti e Calcidesi nel 506 a. C. Per celebrare e ricordare l’evento gli Ateniesi dedicarono sull’acropoli una quadriga in onore di Pallade Atena, eretta con le spoglie di guerra, alla cui base era posta la seguente iscrizione in distici elegiaci:
 

ἔθνεα Βοιωτῶν καὶ Χαλκιδέων δαμάσαντες
παῖδες Ἀθηναίων ἔργμασιν ἐν πολέμου
δεσμῷ ἐν ἀχνυόεντι σιδηρέῳ ἔσβεσαν ὕβριν·
τῶν ἵππους δεκάτην Παλλάδι τάσδ’ ἔθεσαν.

I popoli dei Beoti e dei Calcidesi avendo domato
i figli degli Ateniesi nelle imprese di guerra
in un tetro ceppo di ferro ne spensero la tracotanza
e come decima da essi posero queste cavalle a Pallade
(trad. G. Nenci)

Al tema dell’anonimato dedica ora uno studio approfondito (con ampia rassegna di testimonianze) Manuela Giordano: ΕΣΤΙ ΠΟΥ ΤΟ ΤΩΝ ΣΤΡΑΤΗΓΩΝ ΟΝΟΜΑ; ΟΥΔΑΜΟΥ. Note sull’anonimato ad Atene, che apparirà sul prossimo numero della rivista “Seminari Romani di Cultura Greca”.

Come artefici della vittoria non sono ricordati i comandanti, ma “i figli degli Ateniesi”: quella di Atene non è una vittoria individuale, ma una vittoria popolare.
Numerosi altri esempi si potrebbero ricordare in questa direzione. E tutti definiscono un identico quadro ideologico e politico: l’Atene democratica tenta di abbattere l’individualismo a favore della collettività, impone il sacrificio del nome e della fama del singolo perché quel che si fa lo si fa per la polis, non per sé stessi, per la propria gloria o il proprio vantaggio. L’ideologia ateniese tenta di imporre il senso dell’utile comune a discapito del guadagno personale (in qualunque termini lo si voglia intendere).
Il noi si impone sull’io: «Siamo tutti figli degli Ateniesi: noi siamo Atene». E in questo noi, i singoli nomi non hanno alcuna importanza: inutile dirli o ricordarli.

Che Atene abbia fallito, è un fatto. Che sia stata tra le poche a provarci, merita rispetto: lo spirito di servizio dei “figli degli Ateniesi” è un miraggio lontano.


Crediti immagine: View of the Acropolis from the Pnyx, Rudolf Müller (Wikimedia Commons)

La presa  del potere da parte di Luigi XIV, di Roberto Rossellini, Francia 1966

Verso il potere assoluto: così Luigi XIV, destinato a essere ricordato come il “Re Sole”, diventa l’incontrastato padrone dello Stato francese. Il potentissimo cardinale Mazzarino sta per morire: sulle sue spalle, per diversi anni, si è retta la politica transalpina, in attesa che Luigi arrivasse alla maggiore età. Ora quel momento è arrivato, e molti si domandano se il re sarà in grado di prendersi sulle spalle così pesanti responsabilità. Ben presto tutti, a partire dai nobili, si accorgeranno che la risposta è “sì”. Il re, ormai nel pieno delle sue funzioni, inizia subito ad accentrare tutto il potere, dà inizio alla costruzione della Reggia di Versailles, imbriglia la corte frustrandone le beghe e gli imbrogli. Insomma, dà il via al modello compiuto dell’Assolutismo, una forma di governo accentrata nelle mani di un uomo solo, responsabile in tutto e per tutto della scelta dei suoi collaboratori e delle decisioni dello Stato. Roberto Rossellini, con precisione stupefacente, ricostruisce l’ambiente di corte, il dettagliatissimo cerimoniale, lo sfarzo sfolgorante. Una vera e propria lezione di Storia attraverso le immagini.

The Queen – La regina, di Stephen Frears, Gran Bretagna 2006

Dalla monarchia assoluta a quella costituzionale, dalla Francia del Seicento alla Gran Bretagna dei nostri giorni. Ancora una volta al cinema interessa il dietro le quinte del potere, l’indagine sui meccanismi delicatissimi che sfuggono al primo sguardo, ma che condizionano il funzionamento, la stabilità, lo sviluppo dell’apparato statale. Là, a Versailles, l’accentramento assoluto nella figura di un Sovrano che tutto può e tutto decide; qui, a Buckingham Palace, la fragilità di una monarchia appesa da sempre al giudizio severo dei cittadini, “sudditi” di Sua Maestà solo verbalmente, ma in realtà ben decisi a esprimere il proprio giudizio sulla famiglia reale e sul funzionamento dell’istituto monarchico. Il film è ambientato nel 1997, all’epoca della tragica morte della principessa Diana. La regina Elisabetta in un primo momento ha una reazione sbagliata, che rischia di compromettere la profonda stima di cui ha sempre goduto presso i britannici. Le verrà in aiuto il giovane primo ministro laburista Tony Blair, in carica da pochi mesi. Il carisma di  Lady Diana, definita “Principessa del popolo”, viene riconosciuto (forse solo per convenienza politica…) anche da The Queen, la Regina Elisabetta, che così salva la sua immagine messa a quel momento fortemente in pericolo. Le vie del potere sono infinite, anche in una monarchia parlamentare (e secolare) come quella del Regno Unito.

Il signore delle mosche, di Peter Brook, Gran Bretagna 1963

Che cosa succederebbe se le persone fossero assolutamente libere di darsi la forma di governo che realmente desiderano? Come uscirebbero dallo “stato di natura”? Nascerebbe un mondo senza sopraffazioni, in cui i diritti di tutti sarebbero garantiti? Belle (e eterne) domande, alle quali cerca di rispondere questo film distopico, tratto dal romanzo omonimo (1954) dello scrittore britannico William Golding. Siamo nel 1984, ovvero nel futuro, se consideriamo gli anni del libro e del film. Alcuni ragazzi sono stati evacuati dalla città inglese in cui vivono perché è in corso un conflitto atomico. Il loro aereo cade su un’isola deserta, e i giovani sopravvissuti si trovano a dover lottare, senza l’aiuto di nessun adulto, per sopravvivere. Decidono quindi di dividersi in due gruppi, uno per organizzare le strutture in cui accamparsi e difendersi da eventuali pericoli, l’altro per procurarsi il cibo. Sembra senz’altro la soluzione migliore, ma ben presto iniziano i contrasti. Qualcuno ha scorto un animale mostruoso levarsi dal mare, che sarà mai? Una visione del ragazzo o un pericolo reale? E come organizzare la difesa? Presto si fanno strada le superstizioni, che spingono ad offrire sacrifici a un idolo inventato di sana pianta; poi emerge fortissima l’intolleranza, con i rapporti tra i ragazzi che inevitabilmente e irreparabilmente si guastano; e infine arriva la violenza. Il potere e i suoi meccanismi malvagi sembrano davvero invincibili. Siamo sicuri, oltre mezzo secolo dopo la scrittura del romanzo e la realizzazione del film, che scrittore e regista non avessero (malauguratamente) ragione?

La cuoca del presidente, di Christian Vincent, Francia 2012

Un altro “Re Sole”, questa volta democraticamente eletto, il presidente francese François Mitterrand, al potere dal 1981 al 1995. Quattordici anni non sono davvero pochi, soprattutto se si tiene conto dei poteri che la Costituzione francese attribuisce a Monsieur le Président, una sorta di vero e proprio “monarca repubblicano a tempo” (dal 2002 il suo mandato è stato tuttavia ridotto da sette a cinque anni). E dunque, approfittiamo di questo privilegiato “buco della serratura” per spiare, insieme alla sua cuoca di fiducia, il privato di un personaggio così importante. Mettiamo a confronto, dopo aver visto il film di Rossellini, la sfarzosa corte di Versailles con gli ambienti dell’Eliseo, i perfetti servitori di adesso con i lacché impettiti di allora, i ministri scelti per la loro competenza (o almeno si spera…) con la pletora di nobili che si combattevano strenuamente per assicurasi il “privilegio” di contribuire alla vestizione del Re. La pellicola di Vincent tratta solo in seconda battuta del potere. Il suo interesse principale è per l’umanità della cuoca, la sua passione sincera per la cucina, la bontà genuina dei suoi piatti, che ingolosiscono il Presidente e gli donano rari e ricercati momenti di serenità. Il potente ha un suo privato, la democrazia permette di fare un’incursione in questa dimensione senza rischiare il reato di lesa maestà. Tutto sommato è un bel progresso, non siete d’accordo?

Morto Stalin, se ne fa un altro, di Armando Iannucci, Gran Bretagna 2017

È morto Stalin, anzi no. Tutti i più alti funzionari dell’onnipotente Partito comunista dell’Unione Sovietica pensano a come conquistare il potere, ora che il sanguinario dittatore sembra finalmente aver tirato le cuoia. In realtà, però, il Capo Supremo non è ancora defunto: l’emorragia cerebrale che lo ha colpito il 28 febbraio 1953 lo ha reso incosciente, ma ancora i medici non disperano di salvarlo. La morte arriverà solo due giorni dopo, due giorni durante i quali la lotta per conquistare il potere diventa sempre più feroce, senza esclusione di colpi. Che agghiacciante tristezza, che malignità della Storia, vedere in quale tragico vicolo cieco è finita la rivoluzione bolscevica del 1917. Tutte le speranze sollevate allora sono naufragate in un meschino balletto di corrotti e avidissimi e crudelissimi funzionari, pronti a tutto pur di non finire nel meccanismo delle “purghe” perfezionato da Stalin, e di cui ognuno di loro è stato complice fino in fondo, condividendone ogni colpa. Lo straordinario film di Iannucci gioca su due piani: quello della storia, mettendo in scena personaggi realmente esistiti e seguendone le mosse compiute per restare in sella e, eventualmente, scalzare gli altri; e quello del grottesco, portandone in luce i gretti difetti e la fame del potere per il potere, mentre si fa credere al popolo sovietico e ai comunisti di tutto il mondo che si farà ogni cosa per rendere omaggio al “Padre dei lavoratori”, santificato dal culto della personalità.


(Crediti immagine: Pixabay)

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