Aula di lettere

Aula di lettere

Percorsi nel mondo umanistico

Sezioni
Accad(d)e che
Come te lo spiego
Interventi d'autore
Il passato ci parla
Sentieri di parole
Nuovo Cinema Paini
Storia di oggi
Le figure retoriche
Gli antichi e noi
Idee didattiche digitali
Le parole dei media
Come si parla
Dall'archivio
Tutti i temi del mese
Materie
Italiano
Lettere classiche
Storia e Geografia
Filosofia
Storia dell'arte
Scienze umane
Podcast
Chi siamo
Cerca
Dall'archivio

Accadde domani

Approfondimenti e percorsi didattici sul futuro

Leucònoe e l’astrologia

Nella famosa ode del Carpe diem, Orazio invita l’innamorata a non consultare l’oroscopo per sapere che cosa abbia in serbo per loro il futuro: «Tu non chiedere, non è lecito saperlo, quale destino gli dèi abbiano fissato per me, quale per te, non interrogare i calcoli babilonesi (così chiamati perché l’astrologia era di origine caldea)» (carm. 1,11,1-3). La ragazza ha un nome parlante, Leuconoe (dal greco λευκός [leukòs], «bianco», e νοῦς [nus], «mente»), che la caratterizza per la sua candida ingenuità. Ma nella Roma antica predire il futuro era un affare molto più serio che soddisfare la curiosità di una giovane innamorata.
Le pratiche divinatorie erano parte integrante della religione romana, con almeno tre organismi statali dedicati: àuguri, arùspici e quindecemviri sacris faciundis.

Il collegio degli àuguri

Gli auguri erano riuniti in un collegio antichissimo, che si riteneva istuituito da Romolo, augure egli stesso (l’Urbe nasce infatti dalla contesa augurale tra i due fratelli, narrata già da Ennio in Ann. 72 Sk.): dai tre membri originari il collegio passò a nove con la lex Ogulnia che sancì la partecipazione dei plebei alla carica, e fu esteso fino a sedici membri nell’età di Cesare. Gli auguri avevano il compito di interpretare i segni ricavati dall’auspicium, l’atto religioso che consisteva, come dice il nome (dal tema au- di avis, «uccello», e dal verbo arcaico specio, «osservo»), nell’osservazione del volo degli uccelli a scopo divinatorio, ma il diritto di ordinare l’auspicium era riservato ai consoli (dopo Silla esteso anche ad altri magistrati) e veniva di norma esercitato prima di ogni atto politico importante come elezioni popolari, imprese militari, fondazioni di città. Sebbene sottoposti al controllo dei magistrati, gli auguri avevano la facoltà di sospendere i comizi o di dichiararne nulle le decisioni in base a presunti auspici sfavorevoli, con evidente violazione della volontà popolare.

Arùspici e interpreti dei Libri Sibillini 

I Romani derivarono l’aruspicina, l’osservazione delle viscere (exta, in particolare il fegato) degli animali sacrificati, dagli Etruschi, esperti in questa pratica divinatoria, ed etruschi erano ancora nella tarda Repubblica i sessanta membri dell’ordo haruspicum. Essi ricevevano dal Senato l’ordine di consultare i libri haruspicini, in cui era depositata la loro conoscenza, e al Senato dovevano riferire circa il rito di espiazione (procuratio) da decretare in caso di esito non favorevole.
Al Senato rispondevano anche i quindecemviri sacris faciundis, un collegio composto da quindici membri a partire dal 51 a.C., ma in origine formato solo da due esponenti della nobilitas, scelti da Tarquinio (è incerto se Prisco o Superbo) per la custodia e la consultazione dei tre libri che egli avrebbe ricevuto dalla Sibilla Cumana, i cosiddetti Libri Sibillini, contenenti non oracoli, ma prescrizioni sul modo di placare l’ira degli dèi; la designazione sacris faciundis (costrutto del dativo di fine con il gerundivo, «per la celebrazione dei culti sacri») corrisponde alle ulteriori mansioni assunte dal collegio, incaricato di presiedere al culto di Apollo e di altre divinità greche associate al pantheon romano.

La funzione politica della divinazione, secondo l’augure Cicerone

La religione romana cura il rapporto della comunità politica, dalla famiglia allo Stato, con la divinità, accompagnando ogni atto pubblico di una certa importanza con un rito religioso. La rigida, scrupolosa osservanza del culto mira ad assicurare e mantenere il favore degli dèi, legati alla città da un patto di alleanza, la pax deorum. La divinazione è parte di questo sistema legalistico, un formidabile strumento di potere impiegato dall’aristocrazia senatoria per conservare l’assetto sociale e politico di Roma. Del resto, le stesse cariche sacerdotali erano esercitate da laici e potevano rientrare nel cursus honorum al pari della questura o dell’edilità.
Nel De divinatione Cicerone, accusato di incoerenza dal fratello Quinto per aver polemizzato contro gli auspici, proprio lui che è augure dal 53 a.C., risponde lamentando la decadenza di una disciplina che forse Romolo credeva veridica, ma che ora è ridotta a puro formalismo, privo di alcun contenuto di verità: «credo che Romolo, il quale fondò la città prendendo gli auspicii, abbia creduto che esistesse una scienza augurale capace di prevedere il futuro (su molte cose gli antichi erravano)». La scienza augurale è mutata per l’impreparazione dottrinaria degli auguri o per l’avvento di nuove dottrine o semplicemente perché è diventata vecchia; tuttavia Cicerone sottolinea la necessità di conservare l’apparato istituzionale per l’efficacia della sua funzione politica: «si conservano però – per non urtare le credenze popolari (ad opinionem vulgi) e per il grande vantaggio che ne deriva allo Stato (ad magnas utilitates rei publicae) – le pratiche, l’osservanza dei riti, le regole, il diritto augurale e l’autorità del collegio» (div. 2,70; trad. S. Timpanaro).

L’argomento fallace degli Stoici

Nel De divinatione Cicerone procede alla sistematica demolizione della divinazione in tutte le sue forme, confutando punto per punto la difesa sostenuta da Quinto sulla base della teoria stoica. Gli Stoici fanno (pericolosamente) dipendere l’esistenza della divinazione dall’esistenza degli dèi: se è vero che il mondo è ordinato da un dio provvidente, amante dell’uomo, è vero anche che il dio manifesta all’uomo gli eventi futuri. Cicerone dimostra che l’argomentazione stoica è falsa perché basata su una premessa non universalmente condivisa. Infatti, nella sua forma breve:

•      se gli dèi esistono, esiste la divinazione; ma gli dèi esistono, quindi esiste la divinazione (= se p, q; ma p, quindi q)

è facilmente rovesciabile sia dagli epicurei, che non credono che gli dèi si interessino alla vita degli esseri umani, sia dagli accademici, che offrono una spigazione razionale, naturalistica, per i fenomeni interpretati come segni profetici, con il risultato in entrambi i casi di negare l’esistenza degli dèi:

•      epicurei: se gli dèi esistono, esiste la divinazione; ma gli dèi non esistono, quindi non esiste la divinazione (se p, q; ma non p, quindi non q);

•      accademici: se gli dèi esistono, esiste la divinazione; ma la divinazione non esiste, quindi non esistono gli dèi (se p, q; ma non q, quindi non p).

Abbattere la superstizione, Cicerone come Lucrezio

Ma Cicerone non vuole certo abbattere la religione. Come abbiamo visto, vuole conservare anche le istituzioni tradizionali relative alla divinazione (in cui non crede) per il loro valore di instrumentum regni. Lo scopo dichiarato del dialogo De divinatione, che insieme al De fato, completa la trattazione teologica del De natura deorum, è quello di liberare la religione fondata sulla conoscenza della natura dalla superstizione: «la bellezza dell’universo e la regolarità dei fenomeni celesti ci obbliga a riconoscere che vi è una possente ed eterna natura, e che il genere umano deve alzare a essa lo sguardo con venerazione» (div. 2,148). La battaglia contro la superstizione assume nel finale del dialogo accenti lucreziani, nel quadro dell’uomo assediato da presunti segni profetici, causa di vane preoccupazioni e paure: «bisogna svellere tutte le radici della superstizione. Essa incalza e preme e, dovunque ti volga, ti perseguita, sia che tu abbia dato ascolto a un indovino, sia a un detto casuale, sia che abbia compiuto un sacrificio o veduto un uccello o abbia appena scorto un caldeo, un aruspice, o abbia visto lampi e tuoni o un luogo sia stato colpito dal fulmine, o sia nato o si sia prodotto qualcosa di simile a un prodigio…. Può sembrare che lo scampo da tutti i travagli e le ansie sia il sonno. Ma anche da esso sorgono in gran copia affanni e timori (At ex eo ipso plurumae curae metusque nascuntur)» (div. 2, 149-150; trad. S. Timpanaro).

Tendenze razionalistiche dell’aristocrazia romana

Nel De divinatione Cicerone dà voce a un’istanza razionalistica affermatasi a Roma con il processo di ellenizzazione accelerato dall’età delle conquiste (le guerre puniche e la vittoria sull’Oriente greco). Le tirate contro gli indovini e la divinazione, frequenti nella tragedia euripidea, erano state riprese dai tragici arcaici romani Ennio e Pacuvio; e il disprezzo razionalistico per i superstitiosi vates impudentesque harioli, come li appellava Ennio nei versi del Telamo citati da Cicerone (div. 1,132), pronti a spacciare frottole pur di guadagnare pochi spiccioli, non erano in contrasto con la diffidenza dell’aristocrazia romana per le forme di divinazione non istituzionalizzate. Catone temeva evidentemente che gli indovini potessero esercitare sui contadini un influsso eversivo, quando raccomandava di «non consultare alcun aruspice, augure, indovino, astrologo caldeo» (agr. 5,4), pur essendo favorevole alle forme istituzionali di divinazione (Cic. div.1,28).

Conoscere il futuro è un male: il Carpe diem

Non solo la divinazione è un inutile inganno; nel finale del dialogo ciceroniano essa si rivela anche dannosa, perché turba la tranquillità dell’anima, rendendola ostaggio di ansie (curae) e paure (metus). Nell’ode 1,11, alla trepidazione di Leuconoe, che cerca di conoscere il futuro, Orazio contrappone la saggezza di chi accetta serenamente ciò che il futuro gli porterà: Ut melius quidquid erit pati! (un’opposizione marcata anche a livello sintattico dal contrasto tra la breve sentenza che chiude il v. 3 e le frasi precedenti che si inarcano negli enjambement dei vv. 1-2).
Il segreto è imparare a contenere le speranze a lungo termine entro uno spazio breve (spatio brevi/ spem longam reseces, con metafora tratta dalla potatura delle piante) e cercare la felicità nel presente, fidando il meno possibile nel domani, incerto e imprevedibile: carpe diem, «cogli l’attimo presente (come si spicca un frutto dall’albero, metafora agricola anche questa)». Una sapienza che risente certo dell’insegnamento epicureo.
Per Epicuro, infatti, «il futuro non è né del tutto nostro né del tutto non nostro, affinché né ci aspettiano che assolutamente si avveri, né disperiamo come se assolutamente non si avveri» (Epistola a Meneceo 127); ed epicurea è la polemica contro la divinazione: «se il destino regna sovrano sopra ogni altra cosa, ti affliggerai prima del tempo venendo a sapere che ti aspetta la sventura; d’altro canto, anche se ti è predetta la buona sorte il piacere sarà meno intenso» (fr. 395,16 ss. Usener). Ecco quindi l’invito a godere del piacere che offre l’ora presente, senza preoccuparsi del futuro.

La “potatura” delle speranze e la saggezza stoica

Ma anche gli stoici, che pur credono nella divinazione, classificano la spes tra i πάθη [pathe], le «malattie» dell’anima che impediscono l’esercizio della virtù: spes e metus sono sullo stesso piano di gaudium ed aegritudo, con la differenza che «speranza» e «paura» hanno come oggetto rispettivamente un bene e un male futuro, «gioia» e «dolore» un bene o un male presente. Negare la speranza, sinonimo di cupiditas (in greco ἐπιθυμία [epithymìa]), significa saper fare a meno del futuro. È l’ideale del saggio stoico che vive concentrato nel presente, per realizzare la perfezione morale: «Chi ogni giorno dà alla sua vita l’ultima mano, non ha bisogno del tempo; da questo bisogno nascono il timore e il desiderio del futuro che ci rode l’animo (cupiditas futuri exedens animum)… Come sfuggiremo a questa inquietudine? In un solo modo: se la nostra vita non si protenderà in avanti (non prominebit), se si raccoglie in sé stessa (in se colligitur); dipende infatti dal futuro chi non realizza il presente»; di qui l’esortazione «affrettati a vivere e considera ogni giorno una vita» (Sen., epist. 101,8-9).

Epicurei e Stoici, uniti di fronte all’inconoscibilità del futuro

Nell’ode 3,29 a Mecenate, Orazio riconosce paradossalmente la provvidenza divina proprio nell’aver negato all’uomo la possibilità di conoscere il futuro. L’imprevedibilità del futuro rende infatti necessario concentrarsi nel presente: «vivrà felice e padrone di sé chi giorno per giorno potrà dire “ho vissuto”: domani Giove coprirà il cielo di nere nubi o vi farà risplendere il sole; tuttavia non renderà vano ciò che è alle spalle, non stravolgerà, né renderà incompiuto ciò che l’attimo fuggente ha portato una volta per sempre (quod fugiens hora semel vexit)» (vv. 41-48).
L’ideale di sapientia propugnato dall’epicureismo trova un punto di convergenza con quello epicureo nell’affermare l’indipendenza del saggio dal futuro e la necessità di dare pienezza di valore al presente, sia che questo significhi godere a pieno, liberi da turbamenti, il piacere che l’oggi ci offre, come vuole Epicuro, sia che nel presente si cerchi di realizzare la perfezione della vita morale, secondo l’insegnamento degli Stoici. «Arroccato nell’oggi, il saggio stoico si difende dal tempo annullandolo. Proprio perché chiuso nella sua perfezione, sottratto al flusso delle cose esterne, l’oggi del saggio è atemporale» (A. Traina, Seneca. La brevità della vita, Milano 1993). Così Seneca ritrova Epicuro.

Per approfondire il rapporto tra Seneca e il tempo puoi seguire questa lezione di Ivano Dionigi: https://www.youtube.com/watch?v=EzDJZ7514K0

(Crediti immagine: Tarquinio Prisco e l'augure Attio Navio, Sebastiano Ricci, 1690, Wikimedia Commons)

Che cosa c’entra con il futuro un film come Habemus Papam, girato nel 2011 da Nanni Moretti? Non ci sono astronavi, alieni in arrivo da altri mondi, umanoidi o robot…

E invece c’entra, e anche molto, perché il regista romano è riuscito a creare un film in cui si adombra un evento che, di lì a poco, è diventato realtà: un Papa che non si sente all’altezza del compito che gli grava sulle spalle. Dunque, un autore particolarmente attento al suo tempo, può riuscire a diventare, in qualche modo, “profeta”. Fortuna? Coincidenza? Anche, ma così è capitato al grandissimo regista russo Andrej Tarkovskij, che in Stalker, del 1979, immagina una “Zona Proibita” estremamente simile a quella sorta attorno alla centrale di Cernobyl, in seguito al catastrofico incidente nucleare del 1986. Oppure ancora, e in questo caso alle origini stesse del cinematografo, il “mago” George Méliès che in Viaggio nella Luna si immagina (ovviamente con i mezzi e gli ingenui “trucchi” di allora) la conquista del nostro satellite da parte degli umani. Con la sua straordinaria capacità di dare corpo alle fantasie più varie, il cinema si è dunque sempre confrontato con questa dimensione del tempo che “non esiste”, se non nelle nostre pre-visioni. Un genere in particolare, la fantascienza, ne ha fatto ovviamente il suo terreno obbligato. Ma tracce di futuro si possono trovare in molte altre opere, le più varie, compresi  i disegni animati (basta ricordare WALL•E): il cinema non ha mai amato i limiti temporali, così come la fantasia dei suoi autori. E pensare che i fratelli Lumière, agli inizi della sua storia, lo avevano definito “un’invenzione senza futuro”: mai avrebbero potuto prevedere che persino i registi e gli sceneggiatori sarebbero stati messi in discussione dalla creatività (?) dell’Intelligenza Artificiale. Il futuro, a quanto pare, è già ora.

Accadde domani, di René Clair, Usa 1944

Partiamo dal cinema “di una volta”, quello in bianco e nero che tanto spaventa noi spettatori contemporanei. Fidatevi: non è affatto una fatica vedere i film del passato, soprattutto quando sono di valore come questo. Si tratta di una “favola surreale”, diretto dal maestro francese René Clair, espatriato in America durante la Seconda guerra mondiale. Lo spunto di partenza è geniale: il protagonista riceve incredibilmente e inspiegabilmente ogni sera il quotidiano del… giorno dopo! Si tratta di un vantaggio competitivo, come direbbero gli economisti, di straordinario valore rispetto a tutti gli altri. E infatti, di lì a poco, ritroviamo l’uomo ricco come un nababbo, invidiatissimo per la sua capacità di agganciare senza fallo gli affari più redditizi. Tutto va a gonfie file finché non appare la notizia della sua morte: che cosa potrà mai fare, dunque, per sfuggire al destino indicato dal giornale? Come nella migliore tradizione dei film girati a Hollywood, si può sperare in un lieto fine. Anzi, propongo un gioco: fermate la visione del film a questo punto, e ciascuno di voi cerchi di sostituirsi agli sceneggiatori. Come fareste finire, voi, la storia?

Il Giudizio Universale, di Vittorio De Sica, Italia 1961

Vittorio De Sica regista, Cesare Zavattini sceneggiatore: si riforma con questo film la “coppia d’oro” di quel fantastico periodo del cinema italiano che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni ‘60. Facilità e felicità di racconto, attenzione agli umili, alla piccola gente, realismo e surrealismo a braccetto, miseria sociale e favola liberatoria, tutto questo mostrato in capolavori come Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D, celebri in tutto il mondo. E tutto questo si ritrova, almeno in parte, anche nel Giudizio Universale, dove si immagina che a Napoli una misteriosa Voce proveniente dal cielo annunci, addirittura, la Fine del Mondo. Ma non in un imprecisato avvenire remoto: subito, al tramonto, entro poche ore. Futuro prossimo, dunque, e perciò ancora più pauroso. Come in un terrificante affresco medioevale, donne e uomini capiscono che stanno per essere portati al “Tribunale Supremo”, si rendono conto che si possono spalancare per loro le porte dell’Inferno. Diavolo d’un De Sica, diavolaccio di uno Zavattini! In un susseguirsi frenetico di brevissimi episodi, vediamo scorre un incredibile campionario di umanità: e purtroppo sono in molti a tirar fuori, in questo momento così straordinario, il peggio del loro carattere. Un esame di coscienza collettivo, un’impietosa visione dei vizi nascosti di nessuno: il futuro incombente come cartina al tornasole non solo per i personaggi del film, ma anche e soprattutto per chi lo vede.
Ps: il finale è a colori!

2001 Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick, Usa, Gran Bretagna 1968

Eccolo “il” film sul futuro. la pellicola che più ha segnato lo sviluppo della fantascienza. Kubrick si immagina che nel giro di soli tre decenni (il film è del 1968) l’umanità abbia già colonizzato la Luna e sia in grado di raggiungere gli altri pianeti del Sistema solare. Strumento indispensabile per queste esplorazioni è l’Intelligenza Artificiale: il supercomputer HAL 9000 guida infatti la missione dell’astronave al centro del racconto. Ma il film inizia con un misterioso prologo ambientato 4 milioni di anni fa, con alcuni ominidi impegnati nella terribile lotta quotidiana per la sopravvivenza. Uno di loro raccoglie un grande osso di animale, lo tiene fra le mani e poi… lo trasforma in un’arma, con la quale può difendersi e attaccare. Questo fatto epocale, questa frattura nella storia dell’avventura umana avviene alla presenza di un misterioso monolite nero. Qual è il suo significato? E perché lo rivedremo di nuovo, questa volta nel futuro? Avanti e indietro nel tempo e nello spazio, l’opera di Kubrick (accompagnata da una colonna sonora che ha fatto epoca) è un continuo, angosciante viaggio nel mistero stesso della vita. Soli su un granellino di materia nell’immensità dell’Universo, dotati di un’intelligenza che arriva a creare strumenti di una potenza incredibile. Meraviglia e sgomento, dall’osso animale brandito come arma alla bomba atomica. Qual è dunque il destino degli esseri umani? La loro intelligenza è inevitabilmente distruttiva? Kubrick pone le domande, a tutti noi, immersi nelle sue immagini altamente spettacolari, il tentativo di dare una risposta.

Jobs, di Joshua Michael Stern, Usa 2013 / The Social Network, di David Fincher, Usa 2010

Due geni che hanno inventato il futuro: Steve Jobs e David Zuckerberg. Partendo dal nulla, hanno trasformato il nostro modo di stare “nel” mondo. Se pensiamo alla società prima di loro, ci sembra di precipitare nella preistoria. In quel mondo in cui ancora si usavano le cabine telefoniche e i computer erano “mostri” dalla dimensioni impressionanti, Steve Jobs immagina e poi crea, nel garage (!) di famiglia, qualcosa di assolutamente rivoluzionario: una “macchinetta” elettronica dalle capacità straordinarie e dalle dimensioni ridottissime, capace di entrare in ogni casa. Da allora niente è stato più uguale, tutto si è evoluto a velocità sempre più elevate. Il film esplora la personalità complessa e  carismatica di questo visionario, spinto da una fede nel futuro quasi messianica. E di visione del futuro parla anche The Social Network, ovvero la storia della nascita di Facebook insieme al ritratto del suo inventore, altro uomo dalla personalità a dir poco “complicata”. Una ideuccia semplice semplice, mettere in contato i compagni di corso all’università attraverso il Web. All’inizio solo un gioco, destinato a esplodere in una compagnia multimiliardaria. Ritratti di persone che “hanno visto” oltre il presente, costruendo materialmente il futuro. Menti fuori dal comune, caratteri difficili: anche i geni, nel loro piccolo, sono esseri umani, nel bene e nel male.

The Creator, di Gareth Edwars, Usa 2023

Intelligenza Artificiale: un gravissimo pericolo o un’opportunità in grado di farci compiere un balzo in avanti mai visto prima? Come sempre, quando qualcosa di veramente nuovo entra nella vita di tutti noi, paura e speranza si intrecciano. In questo caso, davvero il futuro si fa presente. Tutti i sogni (e gli incubi) della fantascienza si sono materializzati nel mondo del 2055. Causata da un malfunzionamento dell’Intelligenza Artificiale, ormai presente in ogni campo della vita economica e sociale, Los Angeles è stata distrutta da un’esplosione atomica. Il governo degli Stati Uniti decide quindi di eliminare questo strumento diabolico dalla faccia della Terra, iniziando una guerra senza quartiere contro i Paesi della “Nuova Asia” che ancora ne fanno uso. La sceneggiatura del film non è perfetta, con diversi punti che restano oscuri. Tuttavia si avverte il timore fortissimo che il futuro possa portare solo guai all’umanità, sotto forma di nuove guerre e macchine che si ribellano. Un mondo popolato di “quasi esseri umani”, donne e uomini “replicanti” capaci di sentimenti e attaccati alla vita come noi, ma anche nostri simili nell’uso di una violenza barbarica. Una lotta all’ultimo sangue per la sopravvivenza, con una regressione alla barbarie della preistoria.

POST SCRIPTUM

…e, sempre in riferimento a persone geniali che hanno “visto” il futuro…
«Saremo in grado di comunicare tra di noi istantaneamente, indipendentemente dalla distanza. Non solo, ma attraverso la televisione e la telefonia potremo vederci e sentirci l’un l’altro perfettamente, come se fossimo faccia a faccia, nonostante le distanza intermedie di migliaia di miglia; e gli strumenti attraverso i quali saremo in grado di fare ciò saranno incredibilmente semplici rispetto al nostro telefono presente. Un uomo sarà in grado di portarne uno nel taschino del panciotto.»

Nikola Tesla, 1926


(Crediti immagine: Shutterstock)

La letteratura è in grado di prevedere il futuro? Può sembrare fantascienza, ma in un certo senso sì. I libri, e in particolare la letteratura, custodiscono valori e visioni che autrici e autori imprimono nelle storie. Studiando quindi la produzione letteraria di un paese in un determinato periodo di tempo è possibile quindi ricostruire valori e punti di vista di una cultura, ma non solo.

Il professor Jürgen Wertheimer, docente di letteratura comparata all’università di Tubinga, ha realizzato un progetto ambizioso, chiamato progetto “Cassandra”. Con il suo gruppo di ricerca ha applicato strumenti di intelligenza artificiale all'analisi della produzione letteraria di alcune aree del mondo, per prevedere in anticipo il futuro scoppio di conflitti armati. Il progetto è stato finanziato dal Ministero della Difesa tedesco.

Dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, il filone di ricerca giuridico “law and literature” ("diritto e letteratura") utilizza lo studio della letteratura in affiancamento ai testi di diritto e giurisprudenza per preparare i futuri magistrati a concentrarsi anche sui valori culturali, etici, filosofici e sociali di un popolo.

Francesca Faenza aveva già parlato di “law and literature” in questo “Intervento d’autore” sulle fake news del gennaio 2021. 

https://aulalettere.scuola.zanichelli.it/sezioni-lettere/interventi-d-autore/wp-da-omero-a-pirandello-le-fake-news-tra-diritto-e-letteratura

Analizzando i libri, secondo il filone “law and literature” è possibile capire quali bias e pregiudizi sono tipici di una popolazione, quindi anche dei futuri giudici e delle persone che dovranno decidere delle sorti degli imputati nelle aule dei tribunali. Questi studi vogliono garantire processi equi e non intaccati da stereotipi di qualsiasi tipo.

(Crediti immagine banner: Pixabay)

Ascesa e caduta di un profeta

Il 1° agosto 1489 dal pulpito di San Marco a Firenze un frate domenicano dalla voce stentorea e dallo sguardo acuminato inizia una predicazione destinata a rimanere nella storia: prendendo spunto dall’Apocalisse, il libro profetico che chiude il Nuovo Testamento, il religioso preannuncia la prossima caduta della Chiesa di Roma, indegna e corrotta, e un periodo di guerre e devastazioni da cui la cristianità riemergerà finalmente purificata.

Il frate è il ferrarese Girolamo Savonarola e la sua predicazione avrà conseguenze drammatiche: negli anni successivi, davanti a folle sempre più numerose e infiammate, egli lancerà i suoi strali contro la Chiesa e i ceti dirigenti della città. Dopo l’invasione francese, che nel 1494 segnerà lo scoppio delle guerre d’Italia e porterà alla cacciata dei Medici da Firenze, proprio frate Girolamo diventerà la personalità politica più influente della città, ma alla sua ascesa seguirà una repentina caduta: arrestato e processato, verrà condannato a morte e giustiziato il 23 maggio 1498.

La vertiginosa parabola di Savonarola non deve stupire. Nella Firenze di fine Quattrocento le profezie sono parte integrante del quotidiano dibattito politico, tanto che anche Niccolò Machiavelli in un passo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (I, 11) si interroga – forse con un’ironia abilmente dissimulata – sull’origine della fiducia dei fiorentini, popolo fiero della propria cultura e del proprio disincantato realismo, nel frate ferrarese e nella sua pretesa di farsi portavoce della parola di Dio.

Attese millenaristiche

Quando Savonarola inizia la sua predicazione, del resto, l’usanza di ricavare profezie dalle Sacre Scritture ha già una storia molto antica: fin dall’inizio dell’era cristiana, infatti, religiosi e laici hanno cercato nel testo biblico indicazioni sulla fine dei tempi. Negli ultimi secoli del medioevo, poi, questa ricerca si è fatta quasi ossessiva, anche a causa delle sollecitazioni offerte dalla realtà politica e sociale: guerre, pestilenze, carestie e lo scontro fra le massime autorità del mondo cristiano – il papa e l’imperatore – hanno rinforzato in profeti e visionari l’idea dell’approssimarsi dell’Apocalisse e del successivo avvento di un’era di felicità e purezza.

Questa idea matura nel segreto della coscienza individuale e talvolta fiorisce in ambienti protetti come i chiostri – è il caso delle mistiche e delle “sante vive” – ma spesso viaggia rapida di città in città grazie ai predicatori itineranti, che infiammano le piazze con le loro performance. Perché la profezia non è veicolata solo dalla parola: quella dei predicatori, veri professionisti dell’arte oratoria, è un’azione scenica che attraverso il tono della voce, gli sguardi e i gesti coinvolge tutti i sensi delle folle, commuovendole e spaventandole con immagini di distruzione e purificazione.

I testi, poi, viaggiano anche in forma di raccolte manoscritte e a stampa, opuscoli e fogli volanti venduti nelle strade e nei mercati per pochi soldi; anonimi oppure attribuiti a grandi veggenti del passato, fra i quali figura anche Merlino, spesso tali opuscoli sono accompagnati da spaventose raffigurazioni della fine del mondo o dei segni del suo approssimarsi. Alcune di queste immagini hanno avuto un successo straordinario e sono arrivate fino a noi, come quella che raffigura il famoso mostro di Ravenna: un bambino cornuto e alato, composto da membra di animali diversi, che secondo le voci del tempo sarebbe nato nel marzo 1512 dall’unione sacrilega di un prete e una suora. La sua nascita, descritta e discussa in una moltitudine di opuscoli, lettere, incisioni e disegni, venne letta da molti come il preannuncio della spaventosa battaglia che un mese più tardi, la domenica di Pasqua, avrebbe visto scendere in campo proprio nei pressi di Ravenna gli eserciti di Spagna, Francia e Stato della Chiesa.

Questa ondata straordinariamente intensa di visioni, iniziata negli ultimi anni del Quattrocento, avrà il suo culmine nel 1527: l’anno del sacco di Roma, che vede i lanzichenecchi – fanti mercenari dell’esercito imperiale, in gran parte di fede luterana – mettere a ferro e fuoco la capitale della cristianità. Questo evento epocale viene letto da molti come la punizione divina inferta alla Chiesa di Roma per i suoi peccati e già preannunciata da numerosi predicatori nei decenni precedenti.

Fra religione e politica

Ma la profezia del Rinascimento non è solamente una questione religiosa. Sospeso fra passato, presente e futuro, il testo profetico trae forza dalle scritture antiche per indagare l’avvenire, ma lo fa sempre in funzione di un presente su cui tenta di intervenire. È, dunque, anche e soprattutto comunicazione politica; anzi, vera e propria azione politica, in quanto cerca di rendere reali gli eventi che preannuncia.

Ma qual è il segno di questa azione politica? Un’interpretazione storiografica novecentesca che vedeva nella profezia una forma di opposizione al potere costituito ha trovato fondate obiezioni nelle ricerche recenti. Il rapporto fra profeti e politica, come ha affermato André Vauchez, va inteso piuttosto come una trama complessa: il potere che deriva dalla divinità interagisce con quello umano in molti modi, fra conflitti e alleanze.

Altri millenarismi

Con le scoperte geografiche di fine Quattrocento, poi, lo scenario si amplia. La conquista dell’America pone dubbi sui confini della cristianità e sul suo destino e lo stesso Cristoforo Colombo ritiene di poter leggere nella Bibbia il preannuncio di scoperte già scritte nel disegno divino. Inoltre, il nuovo mondo produce nuove visioni apocalittiche come quelle del domenicano Francisco de la Cruz, che nel 1578 viene condannato a morte per aver annunciato l’imminente fine del cristianesimo in Europa e l’avvento del regno di Cristo in Perù.

Ma il profetismo non è solo un fenomeno figlio dell’Europa cristiana. In anni recenti lo storico Sanjay Subrahmanyam ha rilevato nel Cinquecento l’esistenza di convergenti attese millenaristiche in Europa, nell’Impero ottomano, in Iran e nell’India Moghul, mentre Mercedes García-Arenal ha studiato convinzioni analoghe diffuse nel Maghreb.

Del resto, l’antichissima propensione dei gruppi umani a interrogarsi sul futuro e a sperare in una salvezza soprannaturale continuerà anche molto dopo il Rinascimento e molto lontano dall’Europa: ancora nel Novecento i fedeli dei cargo cults dell’Oceania attenderanno a lungo con un misto di ansia e speranza la fine del dominio coloniale e il ritorno a una mitica felicità delle origini.

Bibliografia
Internullo D. e Lodone M., La storiografia sul profetismo: riflessioni sugli ultimi decenni, in “Quaderni di storia religiosa medievale”, 22 (1/2019), pp. 183-209.
La profezia nel pensiero del Rinascimento e della prima età moderna, a cura di G. Frilli e M. Lodone, Pisa, Edizioni ETS 2022.
Niccoli O., Profeti e popolo nell’Italia del Rinascimento, Rom-Bari, Laterza 1987.
Prosperi A., America e Apocalisse. Note sulla “conquista spirituale” del Nuovo Mondo, in “Critica storica”, 13 (1976), ora in Id., America e Apocalisse e altri saggi, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali 1999, pp. 15-63.
Rusconi R., Profezia e profeti alla fine del Medioevo, Roma, Viella 2011.
Subrahmanyam S., Dal Tago al Gange: una congiuntura millenaristica del Cinquecento, in Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo (secoli XVI-XVIII), Roma, Carocci 2014, pp. 27-61.
Vauchez A., Santi, profeti e visionari. Il soprannaturale nel medioevo, Bologna, Il Mulino 2000.

(Crediti immagine: Savonarola predica contro la prodigalità, Ludwig von Langenmantel, 1879  Wikimedia Commons)

«Se nessuno mi chiede cos’è il tempo, lo so, ma se voglio spiegarlo a chi mi interroga, non lo so più». Così scrive Agostino, che al mistero del tempo ha dedicato pagine folgoranti nel libro XI delle Confessioni. Per Agostino il tempo è nel mondo e con il mondo: la sua essenza è psichica, dunque interamente soggettiva. Il tempo è mutamento e movimento e, in quanto distensio animi, esso può venir misurato solo all’interno della coscienza. Il passato è un non più, il futuro un non ancora, e il presente sembra assottigliarsi fino a coincidere con la linea divisoria che separa queste due forme di «non essere». Ma se il presente è solo nell’istante, esso risulterà inafferrabile, inesteso, senza durata. Dunque, perché lo percepiamo lento o veloce, con trepidazione o paura?

Se il tempo in sé è un enigma, ancora più inestricabile è per noi l’enigma del futuro.
Tre sono le espressioni con cui il mondo latino allude al futuro. La prima è futurum, derivato dal participio futuro del verbo «essere» per indicare «ciò che sta per accadere», «ciò che è destinato ad essere»; sorprendentemente il termine, che si origina dalla radice tematica fu- del tempo perfetto, sembra portare con sé la memoria del passato, quasi a ricordarci che ciò che sarà è legato, in un’inscindibile filiazione, a ciò che è stato. Le altre due perifrasi utilizzate per il futuro sono tempus reliquum (derivato dal verbo relinquo, «lasciare indietro», «restare»), cioè il «tempo che resta» (tempo che rimane da vivere, da immaginare, da amare), e, infine, tempus posterum, cioè il tempo che verrà «dopo» (post) ma che, letteralmente, sta «alle nostre spalle», secondo una metafora spaziale, per noi controintuitiva, che la lingua latina condivide con la greca.

Anche nel greco antico il futuro è espresso dalla sostantivazione del participio futuro del verbo «essere»: τἐσ(σ)όμενα corrisponde a «le cose che saranno», e si affianca, in forma sinonimica, alla perifrasi τμέλλοντα σεσθαι, «le cose che stanno per essere», o per accadere (espressione spesso sostituita dalla forma al singolare τὸ μέλλον). Τὰ ἐσσόμενα ricorre talvolta, in età arcaica, in congiunzione con il participio passato e presente del verbo «essere» per indicare l’estensione del tempo in tutto l’arco della sua durata. Così, per esempio, nel proemio della Teogonia Esiodo ci dice che le Muse conoscono e cantano «ciò che è, ciò che sarà e ciò che fu» (τά τ' ἐόντα τά τ' ἐσσόμενα πρό τ' ἐόντα, Th. 38), e un analogo potere, autoptico e ubiquo, è attribuito agli indovini (si pensi a Calcante, in Il. 1.70). L’indovino ha infatti ricevuto dagli dèi la capacità di vedere con gli occhi della mente, come nel caso del divino Teocliméno, che dice di sé di avere occhi, orecchi e mente salda (Od. 20.363-368), o nel caso del vecchio Tiresia, cieco nel corpo ma dotato della più acuta vista interiore. Il poeta, invece, che pure ha ricevuto dalle Muse il dono del canto e della memoria, è descritto da Esiodo come cantore delle «cose che saranno e di quelle che furono» (τά τ' ἐσσόμενα πρό τ' ἐόντα, Th. 32), cioè degli eventi del futuro e del passato. Scomparso è il riferimento al presente. Possiamo forse ipotizzare che nella pratica aedica sia possibile ricordare ciò che è accaduto, perpetuando la narrazione del passato, e anticipare il futuro, se gli dèi faranno dono di questa preveggenza, ma il presente non può essere l’oggetto del canto. Esso può essere solo vissuto con una piena adesione alla sua istantaneità. Il presente è una soglia impercettibile tra due dimensioni di durata e, come tale, viene consumato in un istante.

Gli eroi dell’epos sembrano bruciare nel fuoco dell’istante, soprattutto i guerrieri dell’Iliade, impegnati in quella scelta radicale dell’attimo presente a cui è destinato chi convive con la prossimità della morte. Primo fra tutti è Achille, eroe del presente impetuoso. Eppure, proprio Achille è associato da Omero alla caratteristica del tempo cantato dall’aedo, in cui viene esclusa l’allusione al presente. Contrapponendosi ad Agamennone, incapace di collegare in un nesso causale passato e futuro, Achille rivendica implicitamente a sé questa capacità razionale, descritta come la facoltà di usare il νόος in relazione a πρόσσω καὶ ὀπίσσω, ovvero agli eventi che stanno davanti e dietro e alla loro interconnessione (Il. 1.343). Si tratta di due avverbi spaziali che, come ci suggerisce Eustazio nel suo commento, introducono un riferimento temporale espresso in una forma apparentemente controintuitiva: il futuro è infatti indicato da ὀπίσσω («dietro, alle spalle»), il passato da πρόσσω («di fronte»). Achille mostra una caratteristica per lo più attribuita agli anziani (i riferimenti di Eustazio sono al vecchio Priamo, al saggio Polidamante, all’eroe Aliterse): ricorda cioè quegli animali che, capaci di ruotare il collo, possono guardare ciò che hanno davanti e, insieme, ciò che è alle loro spalle.

Il futuro – sembra allora di poter suggerire – non è alle spalle del soggetto, ma è (nascosto) dietro il passato. Passato e futuro sono tali in riferimento l’uno all’altro, sono cioè uno dietro l’altro o uno di fronte all’altro. Come scrive Pindaro in un verso di vertiginosa potenza, «il futuro giunge da lontano» (ἕκαθεν γὰρ ἐπελθὼν μέλλων χρόνος (Pindaro, Ol. X 7), portando con sé, dopo un lungo viaggio, la traccia incancellabile della sua storia. Se solo abbandoniamo il punto di vista soggettivo, interno al tempo, se proviamo a pensarci attraversati dal tempo e dal suo mistero, il futuro si mostrerà come l’incognita che non riusciamo ancora a scorgere, l’angolo in ombra che gli accadimenti del passato non hanno ancora portato in piena luce.

Achille rappresenta l’osservatore che, dall’esterno, abbraccia con lo sguardo tutte le dimensioni del reale. Libero dal vincolo del presente, può osservare il succedersi degli eventi nel loro percorso e nel loro ordine relativo. Non dimentichiamo che Odisseo, disceso nell’Ade, ricorda proprio questa peculiare collocazione di Achille anche da morto, una collocazione associabile a quella di nessun altro e descritta attraverso i medesimi avverbi spazio-temporali incontrati nell’Iliade. Nessuno è come te, gli dice Odisseo: «nessun eroe, né prima (προπάροιθε) né poi (ὀπίσσω), è più felice» (Od. 11.483). Sarà però subito smentito dall’ombra di Achille, per il quale la felicità è in un altro tempo: nel fugace e istantaneo balenio del presente, perduto per sempre.


(Crediti immagine: Minerva trattiene Achille dall'uccidere Agamennone, Giambattista Tiepolo, 1757 Wikimedia Commons)

Chi non conosce le opere dell’artista misterioso che si cela dietro al nome di Banksy? Chi non ha mai visto la bambina con il palloncino rosso a forma di cuore in mano o i suoi famosissimi topi che lasciano segni sui muri di moltissime città?
Banksy, l’artista invisibile, ha riempito i muri di tutto il mondo con le sue immagini ironiche e dissacranti, ha toccato temi tanto attuali quanto scottanti e ci ha fatto riflettere sui grandi problemi del presente, tanto da essere stato nominato nel 2010 fra le persone più influenti al mondo dal Time Magazine.
Le sue opere sono simbolo di lotta e di protesta contro una società, e soprattutto una politica, disattenta alla vita reale, distante dalla gente e alle volte anche ostile alle vere emergenze.
Quale futuro aspetta il nostro modo e le nuove generazioni se non lottiamo per cambiare le cose?

Nessuno è la risposta, nemmeno troppo celata, di Banksy che, nel 2010 su un muro di una casa privata, mette nelle mani di una bambina, certamente meno sognatrice di quella del palloncino a cuore, la “O” della frase scritta, probabilmente in precedenza, da qualche ragazzo che teme per il suo domani.
Ancora una volta la provocazione di Banksy mira a smuovere le coscienze per costruire un futuro per le nuove generazioni, diverso e magari migliore: per cambiare le cose.
Ecco allora alcuni dei temi che riguardano da vicino il futuro del nostro mondo che oggi si trova minacciato da guerre che potrebbero cambiare la geografia del pianeta, emissioni e inquinamento che ne stanno cambiando il clima e migrazioni di massa che ne modificheranno la distribuzione della popolazione. Ma è possibile un mondo senza conflitti, in cui le differenze siano un valore invece che una minaccia e nel quale si possa vivere in pace con l’ambiente senza esaurirne le risorse?
Banksy forse vuole dirci di si, ma perché si possa realizzare è ora di cambiare prospettiva e chi può ascoltarlo meglio sono i giovani, che in questo mondo devono viverci ancora per un po’.

Le guerre

Poteva Banksy non prendere posizione nella guerra fra Russia e Ucraina che da mesi occupa le pagine dei giornali di tutto il mondo?
Nella città di Borodjanka, nell’insediamento urbano dell’Oblast’ di Kiev, sono spuntati alla fine dall’anno scorso alcuni murales che, con l’ironia e il black humor di sempre, ci raccontano quello che sta succedendo e contemporaneamente come invece dovrebbero andare le cose.

Ecco quindi che un ragazzino in divisa da judoka rovescia a terra un uomo adulto, molto più grande di lui, nel quale non è difficile individuare la somiglianza con Vladimir Putin. La metafora fra i protagonisti dell’incontro e i paesi in guerra è presto letta, ricordando anche il fatto che il presidente russo è stato sospeso dal ruolo di presidente onorario della Federazione internazionale di Judo, come conseguenza della guerra in Ucraina.

Ancora, due bambini giocano all’altalena a cavalcioni di un “cavallo di frisia”, un ostacolo difensivo usato per impedire il transito dei veicoli, o una ballerina danza leggera sulle macerie di un palazzo. L’accademia del balletto ucraina, come anche quella russa, è famosa nel mondo ma l’arte non ha più posto nelle priorità del momento.

Dalla recente ripresa del conflitto fra Israele e Palestina, Banksy non pare sia ancora intervenuto ma, anni fa, aveva già detto la sua su questa infinita contesa. Dal 2005 è intervenuto con diversi murales nelle città della Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, tra queste il disegno di una ragazza che perquisisce un soldato israeliano, una colomba bianca con un giubbotto antiproiettile oltre al celeberrimo manifestante mascherato che lancia un mazzo di fiori.

Ma non si è accontentato di queste incursioni sui muri, nel 2017 ha progettato e decorato un vero albergo a Betlemme posizionato a pochi metri dal muro fatto costruito da Israele per separare la città palestinese dai territori di Gerusalemme Est.

La hall, il bar e le camere sono piene di sue opere, tutte dedicate al tema del conflitto fra i due popoli.

In questi giorni sulla home page del sito dell’albergo compare questa scritta:

I migranti

Un altro tema molto attuale e altrettanto scottante è quello che riguarda i migranti e le politiche di tutti i paesi del cosiddetto Primo mondo e specialmente dell’Europa a questo riguardo.
Nel 2019 sulla parete di un edificio veneziano, vicino a Campo San Pantalon sul Rio Novo, minacciato dall’acqua alta e dell’innalzamento del livello del mare, è comparso il disegno di un bambino evidentemente riconoscibile come un migrante grazie al giubbotto di salvataggio e alla fiaccola di emergenza.
Come i migranti che attraversano il mare sui barconi, e sono costantemente in balia delle maree e delle intemperie, così il bambino del disegno si trova a pelo d’acqua e rischia di essere sommerso da qualsiasi episodio di acqua alta. Il pericolo che minaccia il nostro piccolo migrante dipinto, ma anche l’opera in quanto tale, è parte integrante del lavoro che, come tutta la street art, nasce per essere di proprietà di tutti e consapevole di essere esposta alle intemperie e destinata a “vivere” per il tempo che l’ambiente le permette.
Il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi ha annunciato un restauro e messa in sicurezza di quest’opera, operazione discutibile dal punto di vista concettuale per i motivi appena illustrati, che non tarderà a fomentare riflessioni e polemiche nel mondo dell’arte.

Ma ancora prima del bambino veneziano, Banksy aveva disegnato sui muri della “giungla di Calais” diversi soggetti su questo stesso tema. Il quartiere in questione della città francese di Calais era il luogo in cui vivevano migliaia di migranti che cercavano di entrare nel Regno Unito.

Quest’opera è una citazione del dipinto La zattera di Medusa di Théodore Géricault che tra il 1818 e il 1819 scelse di rappresentare un fatto di cronaca del suo tempo. Nel 1816 la nave militare francese Medusa, diretta verso il Senegal naufragò al largo delle coste dell’Africa occidentale. Mentre gli ufficiali furono subito messi in salvo, l’equipaggio aspettò per tredici giorni, su una zattera, l’arrivo dei soccorsi e si verificarono episodi di grandissima violenza. Di centocinquanta uomini, se ne salvarono quindici.
È interessante notare come Banksy abbia scelto di utilizzare la raffigurazione di un quadro nel quale il viaggio del naufragio è dalla Francia al Senegal, per una missione di controllo militare e commerciale verso la colonia, e dove i naufraghi sono francesi, mentre i viaggi dei continui naufragi odierni sono nella direzione opposta, non verso un territorio soggiogato ma verso un paese nel quale trovare la libertà.

A proposito di libertà può essere qui interessante notare come questo quadro venga spesso dagli storici avvicinato, per composizione e simbologia, al dipinto La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix, ispirato ai moti rivoluzionari del 1830 e alle “tre gloriose giornate di Parigi”. La ricerca dei migranti della libertà dalle condizioni in cui vivono nei loro paesi di origine potrebbe essere uno spunto di riflessione anche per noi oggi parlando delle opere di Banksy.

L’ambiente

Infine, per concludere questa non esaustiva carrellata sui temi scottanti per il nostro futuro e per quello delle nuove generazioni, non si può non toccare quello dell’inquinamento del pianeta e del riscaldamento globale.
Per presentare l’argomento ecco la scritta che è comparsa a firma dell’artista, ormai più di 10 anni fa, sul Regent's canal a Camden, nel nord di Londra. E qui ogni commento o interpretazione è superfluo.

Ma per capire ancora meglio il suo impegno su questo tema e comprendere la preoccupazione dell’artista sulla possibilità di un futuro migliore, o un futuro in assoluto, per le nuove generazioni vediamo anche, fra gli altri, il disegno comparso nel 2019 poco prima di Natale a Port Talbot, in Galles, sul muro di un garage. Un bambino, con la sua slitta, gioca nella neve e a bocca aperta aspetta i bianchi fiocchi che cadono dal cielo per mangiarli. Il titolo dell’opera è Season’s greetings.

Basta girare l’angolo per accorgersi che non si tratta di neve bensì di cenere, che arriva da quello che appare un cassonetto in fiamme o la cima di una ciminiera. Come sempre il messaggio è così chiaro da non necessitare spiegazioni e, come sempre, la scelta dei muri non è casuale, infatti, secondo l’Oms, questa città, sede di una delle più grandi acciaierie d’Europa, è la più inquinata del Regno Unito.


(Crediti immagine: La zattera della medusa, Théodore Géricault, 1819 Wikimedia Commons)

JEAN_LOUIS_THÉODORE_GÉRICAULT_-_La_Balsa_de_la_Medusa_(Museo_del_Louvre,_1818-19).jpg
Eugène_Delacroix_-_Le_28_Juillet._La_Liberté_guidant_le_peuple.jpg

Black Mirror è una serie tv di fantascienza britannica, creata dallo sceneggiatore, produttore e autore televisivo Charlie Brooker. Si tratta di una serie antologica, i cui episodi hanno storie e personaggi autonomi, accomunati da una stessa tematica: le possibili derive nel rapporto tra esseri umani e tecnologie.

Le prime due stagioni sono andate in onda a partire dal 2011 nel Regno Unito, su Channel 4, mentre per le successive è subentrata come produttrice la piattaforma Netflix, che le ha incluse nella sua programmazione a livello globale. La stagione più recente, la sesta, è uscita nel 2023.
Black Mirror comprende anche un film interattivo, Bandersnatch (2018), che sperimenta una narrazione modellata sulla forma del libro-gioco, in cui chi guarda deve scegliere come far procedere la storia.

Con la sua longevità, la serie ha attraversato un decennio denso di cambiamenti nello scenario mediale, durante il quale il ruolo che i dispositivi tecnologici assumono nella nostra vita, e le esperienze che ci permettono di compiere, si sono trasformati in maniera profonda. Mutamenti che le diverse stagioni registrano e mettono in scena esplorandone il lato più minaccioso e inquietante.

Esseri umani e tecnologie

Lo “schermo nero” che dà il titolo alla serie ci restituisce la visione angosciosa di un futuro in cui gli esseri umani hanno delegato alle tecnologie la gran parte dei loro compiti quotidiani, e con essi anche le decisioni, i rischi e le responsabilità insiti nei rapporti interpersonali e nel confronto con la complessità dell’esistenza.

Al centro della riflessione non c’è l’evoluzione tecnologica in quanto tale, ma il modo in cui essa entra in relazione con abitudini, visioni del mondo, scelte, aspirazioni e valori individuali e sociali. Un intreccio di cui Black Mirror mette in scena eccessi e distorsioni, mostrando, come ogni distopia, il lato oscuro dei tentativi umani di migliorare la propria condizione, materiale ed esistenziale.

Nel corso della serie, i diversi episodi insistono su un nucleo di questioni ricorrenti, pur declinate in modo di volta in volta diverso. La perdita di equilibrio tra essere e apparire, pubblico e privato, è tra i temi che ricorrono con più insistenza. Emblematico è Caduta libera (stagione 3, episodio 1), che si interroga sull’autenticità delle relazioni in uno scenario in cui lo status sociale è determinato dal punteggio ottenuto sui social network. Odio universale (3x6) esplora invece le conseguenze delle nostre interazioni virtuali, immaginando che i discorsi d’odio online trovino una letale risposta nella vita reale.

In Torna da me (2x1) un’intelligenza artificiale crea il simulacro di un ragazzo morto partendo dalle informazioni che aveva diffuso online: quali tracce lasciamo di noi? Ciò che raccontiamo nello spazio pubblico virtuale corrisponde al nostro vero essere? Nell’ultima stagione, Joan è terribile (6x1) spinge all’estremo questo interrogativo: se qualcuno potesse rimettere in scena le nostre giornate a partire dai dati personali che inconsapevolmente disseminiamo in rete, saremmo davvero noi la persona rappresentata sullo schermo?

15 milioni di celebrità (2x1) e Rachel, Jack e Ashley Too (5x3) ruotano attorno alle dinamiche di popolarità, riflettendo su come i modelli proposti dai media modellino aspirazioni e identità individuali. 

 Un altro nucleo di episodi si concentra sul tema della delega ai dispositivi tecnologici. Ad esempio, che cosa accadrebbe se usassimo un chip per rivedere le nostre memorie come su uno schermo televisivo (Ricordi pericolosi, 1x3)? E se un programma ci desse la possibilità di proteggere i bambini dai contenuti che potrebbero turbarli (Arkangel, 4x2), o se lasciassimo a un’intelligenza artificiale il compito di selezionare per noi il/la partner ideale (Hang the DJ, 4x4)?

Ancora più oltre si spingono le riflessioni sul disallineamento tra esperienza reale e virtuale (come in Striking Vipers, 5x1, in cui due uomini si amano solo all’interno di un videogioco in VR), e sulla separazione tra mente e corpo. In San Junipero (3x4) la possibilità che la coscienza si sganci dalla caducità del corpo ha un risvolto liberatorio per le due protagoniste, che possono così vivere la loro storia d’amore. L’esito è opposto in Beyond the Sea (6x3): due astronauti in orbita per una missione si incarnano in una replica del loro corpo rimasta sulla terra, restando vicini ai propri cari, ma questa tecnologia così avanzata non impedisce di fare i conti con i lati più dolorosi e oscuri della loro umanità.  

Futuro o presente?

Alcuni degli scenari appena descritti non sembrano così distanti da quello in cui viviamo. È questo uno dei tratti caratteristici di Black Mirror e l’elemento che ne rende la fruizione a tratti così inquietante: la somiglianza tra il futuro messo in scena e il presente. Alcune delle tecnologie rappresentate fanno già parte della nostra vita, altre non sono così lontane dal diventare realtà.

Lo sviluppo narrativo di alcuni episodi enfatizza questa indistinguibilità, giocando con le aspettative degli spettatori. Sapendo che Black Mirror è una serie di fantascienza, ci si aspetterebbe di trovare nel mondo rappresentato delle caratteristiche che lo distanziano dal presente, per collocarlo in un futuro più o meno lontano. Eppure, in alcuni casi questo riconoscimento tarda ad arrivare: la dimensione in cui si muovono i personaggi mantiene a lungo dei connotati in tutto e per tutto sovrapponibili a quelli della nostra realtà. Non è raro, anche quando finalmente diventa evidente lo scarto tra i due universi, che rimanga comunque in chi guarda una fortissima sensazione di familiarità.

Ma in Black Mirror c’è anche un terzo polo temporale, che diventa man mano più importante: il passato. Come già nel film Bandersnatch, nella sesta stagione alcune delle storie sono ambientate nel passato. Diventano più rare le tecnologie avveniristiche e ritroviamo dispositivi che sono già “archeologici”: VHS, macchine fotografiche, televisori a tubo catodico. Nello stesso tempo, l’elemento fantascientifico si contamina con altri generi come il thriller e l’horror.

Con queste scelte apparentemente lontane da quelle delle stagioni precedenti, gli episodi più recenti sottolineano che non è necessariamente l’avanzamento tecnologico a corrompere i valori degli individui. Non serve per forza un chip sottopelle per trattenere e usare i ricordi come armi (come nel già citato Ricordi pericolosi): anche un VHS può essere depositario di memorie orrorifiche, che nel tornare a galla spingono a rileggere in modo diverso quanto credevamo di sapere (Loch Henry, 6x2). I supporti cambiano, le tecnologie invecchiano e si rinnovano, ma quello che resta è la coscienza degli esseri umani, l’etica che li guida (o meno) nelle loro decisioni.

Mettendo in corto circuito passato, presente e futuro, Black Mirror sottolinea che l’oggi è il frutto di scelte che abbiamo già compiuto, ma anche l’occasione per ripensarle in vista del domani. Ci suggerisce che gli errori si ripetono, ma che abbiamo la possibilità di evitarli. Forse. Le conclusioni dei vari episodi, in cui spesso anche uno scioglimento positivo porta con sé un’irriducibile ambiguità, non ci danno la certezza di un lieto fine.

Per approfondire
Un’intervista a Charlie Brooker: https://www.wired.it/article/black-mirror-stagione-6-charlie-brooker-intervista/
Tutti gli episodi di Black Mirror: https://www.netflix.com/it/title/70264888

Bibliografia
Alessandra Carenzio, Elisa Farinacci, Dentro Black Mirror. Media, società, educazione, Scholé, Brescia, 2023.

(Crediti immagine: Pixabay)

L’accelerazione degli sviluppi tecnologici negli ultimi decenni ci ha portati sempre più vicini a un futuro per secoli solo immaginato nella letteratura, nell’arte, nella filosofia. Nello stesso tempo, però, possiamo rilevare che scoperte e progressi non stanno, almeno per ora, rendendo il nostro mondo del tutto coincidente con certi scenari fantascientifici: i robot esistono e sono sempre più efficienti, ma non si sono sostituiti agli esseri umani; le nostre città non sono attraversate da futuristici mezzi di trasporto; non è ancora possibile per una persona dematerializzarsi in un luogo per ricomparire in un altro. È tuttavia indubbio che il futuro, soprattutto in ambito digitale e virtuale, è arrivato, anche sulla scia delle esigenze emerse da una pandemia capace di mettere in crisi un mondo interconnesso e globalizzato: tutto questo sta portando con sé questioni di carattere profondamente filosofico che, in alcuni casi, si configurano come la riproposizione in chiave contemporanea di problemi tradizionali; in altri, invece, ci pongono di fronte a nuove domande.

Identità, mondo reale e virtuale: tra nuove ontologie e nuove epistemologie

Ad affrontare alcuni dei temi più urgenti della cosiddetta “intelligenza artificiale” è il filosofo italiano Luciano Floridi (n. 1964), tra gli studiosi più eminenti in questo ambito a livello internazionale, che in diversi libri, interviste e articoli mette in evidenza non solo tutte le opportunità che la nuova tecnologia già ci offre e potrà offrirci, ma fa anche emergere alcuni punti di attenzione che dovremo avere nel prossimo futuro per controllare, come essere umani, il processo tecnologico e non correre il rischio di subirlo. 

Tra gli interventi disponibili di Luciano Floridi, si suggerisce in particolare il seguente, nell’ambito del programma #Maestri di Rai Cultura: https://www.raiscuola.rai.it/scienzesociali/articoli/2021/11/Luciano-Floridi-a-Maestri--436938d9-8d10-4761-9906-bdee19541920.html 

Lo sviluppo di mondi virtuali ci pone davanti a una prima fondamentale differenza rispetto al mondo “analogico” in cui eravamo immersi solo fino a qualche decennio fa: l’individuo può essere fisicamente in un punto dello spazio ben preciso, ma tramite la tecnologia digitale, trovarsi in più luoghi contemporaneamente. Gli spazi e gli ambienti virtuali, sempre più sofisticati e interconnessi tra loro, permettono di superare il tradizionale principio dell’unicità dell’io: ognuno di noi può “moltiplicarsi” con identità più o meno simili tra loro, ma che in qualche modo continuano a definirci. Cosa rende quindi un individuo sé stesso? Qual è lo scarto tra l’io originario e le sue innumerevoli proiezioni virtuali? Queste ultime mantengono lo stesso grado di realtà dell’io fisico? Tali domande già si pongono se pensiamo alle diverse piattaforme in cui è possibile creare nostri avatar e alter ego. Per il prossimo futuro, tuttavia, non è difficile immaginare un ulteriore salto di qualità con lo sviluppo del cosiddetto metaverso e la prospettiva di immergerci completamente in realtà aumentate in grado di farci non solo vedere su uno schermo il nostro avatar che agisce in un mondo parallelo, ma anche vivere sensazioni, percezioni, relazioni in modo totalmente immersivo, esperienza che per ora resta prerogativa del mondo fisico.

Per una riflessione critica sui possibili risvolti del metaverso, si suggerisce il seguente approfondimento: https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2022/12/Eugenio-Mazzarella-Contro-metaverso--d632dbb7-69f5-4914-88f6-8dbcb275aa40.html 

Non solo l’io, il nostro e quello degli altri e le reciproche relazioni tra di essi, ma gli ambienti virtuali riformulano anche il nostro rapporto con quello che esiste e quello che possiamo conoscere. Questa capacità umana, quasi demiurgica, di creare nuovi mondi aggiorna così il problema ontologico: quali oggetti ed entità esistono? Possiamo dire che quello che incontriamo nel mondo virtuale possiede lo stesso grado di realtà di quello che esperiamo nel mondo fisico? Alla questione ontologica sarà inevitabilmente legata quella epistemologica con tutte le domande relative a cosa potremo conoscere e come acquisiremo le nostre conoscenze in questi nuovi mondi.
Non è difficile pensare a questi molteplici piani di esistenza e di realtà come un’alternativa contemporanea al mito della caverna di Platone, scorgendo nel mondo virtuale una sorta di mondo fittizio che ci illude e ci allontana da quello reale. Sarebbe tuttavia troppo riduttivo, in una fase che è ancora di cambiamento, vedere solo questo. Gli sviluppi della tecnologia possono allargare l’ambito di azione umana e non semplicemente sostituirla qualitativamente.

L’agire intelligente vs. il pensiero intelligente

In una intervista rilasciata un paio di anni fa, Floridi si interroga sull’eccezionalità dell’essere umano messa in crisi, nel modo contemporaneo, proprio dagli sviluppi dell’intelligenza artificiale. Una crisi che non è inedita nella storia, ma che si manifesta in nuove modalità: «Copernico ci ha spostati dal centro dell’universo, Darwin ci ha detto che non siamo al centro del regno animale e Freud che non siamo al centro della nostra mente. Oggi avvertiamo la pressione perché non siamo più neanche al centro dell’infosfera, lo spazio dei dati, delle informazioni e della conoscenza».

Diventa quindi centrale la riflessione su ciò che distingue (e continuerà a distinguere) essere umano e macchine, anche nelle loro versioni più sofisticate. Esiste infatti una sorta di equivoco iniziale sul significato che attribuiamo a “intelligenza” che genera confusione allorquando parliamo anche di “intelligenza artificiale”. Una tradizione, che lo stesso Floridi fa risalire all’approccio hobbesiano, tende a identificare il pensiero con la capacità razionale e operativa di “fare di calcolo”. Tuttavia, pensare non si riduce semplicemente a questo, ma è una attività (tipicamente umana) molto più complessa, che chiama in causa la possibilità di fare errori, di trovare soluzioni anche creative a questi errori, di prevedere un adattamento qualora subentrino modifiche alle condizioni di contesto.

Intervistato a inizio 2023, Floridi prende come esempio una delle applicazioni che più ha fatto parlare di sé negli ultimi mesi, ChatGpt, considerata da molti una vera e propria porta d’accesso a un futuro in cui le macchine sostituiranno se non l’essere umano, tante delle sue funzioni e attività. Messo alla prova, ChatGpt appare a Floridi l’esempio perfetto della netta separazione tra “agire con successo”, che contraddistingue la tecnologia, e “agire in modo intelligente”, che caratterizza l’essere umano. Oggi, e verosimilmente in futuro sempre di più, le macchine e gli strumenti digitali sono già in grado di portare a termine processi, ma che non richiedono alcun reale ragionamento, solo una mera applicazione date una serie di informazioni iniziali, spesso con risultati ancora abbastanza banali. Questi risultati potranno sicuramente diventare sempre più raffinati, ma difficilmente simili dispositivi penseranno come un essere umano perché manca loro la capacità di fronteggiare l’errore e la sua risoluzione in modo creativo e con intenzionalità.

Nonostante i rischi che si possono intravedere nei processi tecnologici non consapevoli, Floridi non appartiene al gruppo di voci allarmiste ed evidenzia come l’intelligenza artificiale, che si basa sempre più su un calcolo statistico più che matematico, possa fornire strumenti importanti per affrontare alcune sfide cruciali, dal contrasto al cambiamento climatico alla possibilità di ridurre i consumi mantenendo un livello accettabile di benessere. In questo senso essa è strumento e mezzo, mentre occorre che l’uomo resti fine, potremmo dire in senso kantiano. In un presente che è in parte già futuro, il pensiero filosofico e critico recupera così un ruolo fondamentale.


(Crediti immagine: zinetron, 123rf.com)

La storia della letteratura è piena di incipit clamorosi. Eccone alcuni, scelti senza un particolare criterio se non quello della bellezza e della memorabilità:

«Chiamatemi Ismaele» - Moby Dick di Herman Melville (1851)

«Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» - Anna Karenina di Lev Tolstoj (1877)

«Stai per cominciare a leggere Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero» - Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1979)

«Tre forze hanno scolpito il paesaggio della mia vita. Due di esse hanno annientato mezzo mondo; la terza era molto piccola e debole, anzi, invisibile. Era un timido uccellino nascosto nel mio torace, qualche centimetro sopra lo stomaco. A volte, nei momenti più impensati, l’uccellino si svegliava, alzava la testa e agitava le ali con trasporto. Allora anch’io alzavo la testa: per quel breve istante, avevo la certezza che l’amore e la speranza fossero infinitamente più potenti dell’odio e della violenza, e che da qualche parte oltre la linea del mio orizzonte ci fosse la vita indistruttibile, sempre trionfante.
La prima forza era Adolf Hitler; la seconda, Iosif Vissarionovič Stalin. Loro due hanno reso la mia vita un microcosmo in cui si è condensata la storia di una piccola nazione nel cuore dell’Europa. L’uccellino, la terza forza, mi ha tenuta in vita per raccontare la mia vicenda» - Sotto una stella crudele di Heda Margolius Kovály (1986)

In passato, proprio qui su Aula di lettere, abbiamo ragionato su un certo modo di far cominciare le storie e il tema dell’incipit, in generale, è molto sentito sia dagli scrittori che dai lettori: cominciare bene una storia significa catturare subito l’attenzione di chi legge o ascolta, farlo nostro. L’importanza degli incipit è così grande che ci sono parecchi studi su come le storie cominciano, e qualche anno fa è perfino uscito un libro in cui una squadra di autori, capitanata da Giacomo Papi, ha selezionato i 2001 incipit più belli della storia della letteratura: https://www.skira.net/books/incipit/

Ma le storie devono finire, vale a dire che devono avere un finale.
Il grande scrittore inglese Edward Morgan Forster sosteneva che «Verso la fine, quasi tutti i romanzi diventano deboli. Ciò accade perché l’intreccio richiede di essere concluso». Le vite dei personaggi, o per lo meno quella parte della loro vita che il romanzo racconta, vanno portate fino in fondo, ma quasi sempre, dice Forster, le cose si fanno un po’ banali, e i finali raramente sono belli come gli incipit. Sentite ancora: «Se non ci fossero la morte e il matrimonio, non so come farebbe il romanziere medio a concludere. (...) Questo, fin dove ci è concesso generalizzare, è il difetto connaturato ai romanzi: terminano malamente. E di ciò sono due le spiegazioni possibili: prima, quel calo di energia da cui il romanziere è insidiato come qualsiasi altro operaio; seconda (...) i personaggi gli hanno preso la mano, preparando le fondamenta e poi rifiutandosi di costruirvi sopra, così che adesso tocca al romanziere darsi da fare perché il lavoro sia compiuto nel tempo prestabilito».

LA VITA E L’OPERA DI E.M. FORSTER: https://queerographies.com/2020/06/07/e-m-forster/

Ora, vi domanderete: che cosa c’entra tutto questo con il tema dell’Aula di lettere del mese, il futuro? C’entra eccome, perché i finali sono il punto verso cui tendono le storie, anzi, sono il punto oltre cui le storie perdono di senso. Ogni storia, se è ben concepita, racconta una vicenda conchiusa: se, per un eccesso di zelo, il suo autore aggiungesse un capitolo alla fine, vale a dire se raccontasse che cosa succede dopo che la vicenda si è conclusa e insomma ci venisse a dire un po’ del futuro dei protagonisti, state certi che si tratterebbe di un capitolo moscio, inutile e ridondante.

I personaggi, a differenza delle persone, vivono solo entro i limiti della storia che è stata costruita loro addosso. Non hanno vita oltre l’ultima pagina: per loro non c’è futuro.

Per verificare se tutto questo è vero, facciamo degli esempi, a cominciare dal libro da cui è nata la nostra letteratura moderna, I Promessi sposi. Ebbene, come si concludono? Con il matrimonio, vale a dire che Renzo e Lucia si sposano davvero; nell’ultima pagina, Manzoni ci dice che vivono serenamente, che hanno una bambina e poi altri figli. Ma Manzoni non racconta, si limita a riassumere in poche righe alcuni anni della vita dei suoi protagonisti. E sono anni ben poco interessanti, rispetto alle disavventure con don Rodrigo, agli episodi della peste, alle camminate a piedi fin nella bergamasca, all’incontro con l’Innominato – insomma rispetto al romanzo: Renzo e Lucia si sposano, sono felici, hanno dei figli. E allora? Perché non è interessante tutto questo? Perché in questo loro futuro, che è riassunto e non raccontato, gli Sposi hanno smesso di essere Promessi – con tutto quello che ciò ha significato per loro e per noi. Son finite le avventure, le preghiere, i patimenti: è finita la storia, che era appunto il racconto delle peripezie che due ragazzi di provincia che si amano devono passare per riuscire a coronare il loro sogno. Così, Manzoni taglia corto: dà qualche notizia sul loro idillio, trova una morale e chiude.

Nel 1962, il grande scrittore inglese Anthony Burgess pubblicò un libro con uno strano titolo: Arancia meccanica. Vi si racconta, con un linguaggio sperimentale che mescola l’inglese al russo al cockney (https://www.londraweb.com/cockney_accento_di_londra.htm) e inventa neologismi e fa certi esperimenti con la struttura delle frasi, la vita e l’opera di Alex, balordo londinese il cui scopo nella vita è praticare l’ultraviolenza – ossia rubare e pestare la gente solo per il gusto di divertirsi.

LE PRIME PAGINE DI ARANCIA MECCANICA, SUL SITO DELL’EDITORE ITALIANO: https://www.einaudi.it/content/uploads/2022/02/Pagine-da-INT_burgess_arancia.pdf

Alex finisce per commettere un omicidio e viene arrestato. Lo sottopongono alla Cura Ludovico, un metodo sperimentale (che non esiste davvero, o almeno spero), che prevede delle iniezioni di un farmaco che procura una nausea feroce ogni volta che il paziente assiste a scene di violenza. La Cura consiste in settimane di visioni coatte di atti violenti, in modo da stimolare in Alex la nausea e costringerlo alla pace. Al termine del trattamento, Alex ha ancora le sue pulsioni ma, ogni volta che gli vien voglia di delinquere, sta male e si ferma. Non ha più il libro arbitrio, insomma. Finché le cose cambiano, e Alex si risveglia, torna quello di prima – e, meraviglia della letteratura, noi parteggiamo per lui nonostante sia un essere sbagliato.

In una prima versione del libro (e nel film capolavoro che Stanley Kubrick ne trasse nel 1971) le cose finiscono qui, col risveglio. Ma poi Burgess, forse per via di certe polemiche che il romanzo suscitò e per evitare la censura in alcuni Paesi, aggiunse un ultimo capitolo, in cui Alex si mostra stanco dell’ultraviolenza, cerca una ragazza con cui sposarsi e costruire un nido, desidera un figlio... insomma si fa maturo e scrive cose edificanti. E il romanzo perde all’improvviso tutta la sua forza, la sua dirompenza: si annacqua. Che cosa importa se Alex si pente? La sua storia non è questa: è la storia di un pazzo che, per divertimento, arriva all’omicidio; gli viene tolta la libertà di scegliere, ma poi si riscatta, e il tutto è scritto con una lingua allucinata che rende il romanzo una grande e beffarda satira. L’imborghesimento improvviso del protagonista non ha nulla a che vedere con tutto questo, è posticcio. Quel capitolo è talmente brutto (ma attenzione: non è brutto in sé, è ben scritto; è brutto perché, per così dire, è fuori dal romanzo) che in molte edizioni è stato espunto.

Morte, matrimonio... ma non solo

Torniamo a Forster, e a quel passaggio in cui diceva che «Se non ci fossero la morte e il matrimonio, non so come farebbe il romanziere medio a concludere». Ecco, abbiamo visto due esempi di libri che si chiudono, con esiti diversi, col matrimonio: se ci pensate, è il principio classico della Commedia. Ma attenzione, il matrimonio va inteso in senso lato: può trattarsi di una riconciliazione, di due persone che iniziano un percorso assieme (per esempio, due fratelli che finalmente si ritrovano), di un ritorno a casa dopo un viaggio o una guerra. Insomma: il protagonista, alla fine del libro, non è più solo, ha trovato un nido, un posto dove stare bene.

L’altro caso, secondo Forster, è la morte, vale a dire che il romanzo si chiude quando finisce la vita del protagonista. Così funziona, da sempre, la Tragedia. È quello che accade in Anna Karenina, ma anche nel bellissimo Una vita di Italo Svevo e in moltissime opere del romanticismo (da I dolori del giovane Werther in giù). Anche in questo caso, la morte va intesa in senso lato: può accadere che il protagonista rimanga vivo, ma abbia subito una mutazione. È il caso, per esempio, di Delitto e castigo (1866) di Dostoevskij: nell’epilogo, il protagonista Raskol’nikov, condannato ai lavori forzati in Siberia in seguito a un duplice omicidio, comincia un percorso di rinascita attraverso la fede in Dio e all’amore.

Sentite come Dostoevskij chiude il romanzo: «Ma qui già comincia una nuova storia, la storia del graduale rinnovarsi di un uomo, la storia della sua graduale rigenerazione, del suo graduale passaggio da un mondo in un altro, dei suoi progressi nella conoscenza di una nuova realtà, fino allora completamente ignota. Questo potrebbe formare argomento di un nuovo racconto; ma il nostro racconto odierno è finito» (il corsivo è mio). Il vecchio Raskol’nikov, quello di cui abbiamo seguito la vicenda, i sogni storti e gli spasimi, non c’è più: non è morto, ma è come se lo fosse, perché la storia di quello che farà da qui in avanti è la storia di un personaggio nuovo, diverso, insomma di un altro.
Ma Forster non è stato generoso coi romanzieri: ci sono almeno altri due modi in cui le storie finiscono, oltre alla Commedia (matrimonio e affini) e alla Tragedia (morte e suoi derivati).

Il primo è la fuga, che a volte può essere confusa con la morte («Ma questa è un’altra storia...»): il protagonista, alla fine della sua avventura, se ne va. È il caso dei libri in serie, a cominciare da Harry Potter: grossomodo, alla fine di ogni volume della saga, Harry se ne va da Hogwarts – torna a casa (ma attenzione: la casa dei Dursley non è un nido per lui, anzi. Il vero nido è Hogwarts) e di fatto abbandona il luogo dove si è svolta l’avventura. Succede sempre tranne che nell’ultimo libro, che si chiude con un epilogo Diciannove anni dopo in cui vediamo uno Harry adulto, sposato con Ginny e padre di famiglia – insomma la saga di Harry Potter si chiude... con il matrimonio.

Finisce con la fuga, per fare un altro esempio, Tre millimetri al giorno, romanzo incredibile che Richard Matheson, l’autore di Io sono leggenda, scrisse nel 1956: racconta la storia di un uomo, Scott Carey, che ogni giorno rimpicciolisce di tre millimetri: a poco a poco rimane solo, finché sparisce, nel senso che diventa invisibile (e per sopravvivere lotta con insetti sempre più piccoli); ma il punto è che Matheson costruisce il personaggio, e il nostro orizzonte di attesa di lettori, sull’angoscia che il protagonista prova quando vede approssimarsi lo zero. Cosa succederà una volta che avrà raggiunto l’altezza di zero millimetri? Imploderà? Si distruggerà? Niente di tutto questo: semplicemente, Carey continua a rimpicciolire ed entra nel mondo subatomico dove, però, poiché non riesce a vederlo, Matheson non lo segue. Lo lascia letteralmente andare. Ecco come l’ultimo paragrafo del romanzo: «Il suo cervello pullulava di domande e di idee e – sì – di nuova speranza. Doveva trovare il cibo, l’acqua, i vestiti, un riparo. E soprattutto, la vita. Chissà. Poteva esserci, lì era possibile. Scott Carey corse in questo nuovo mondo, a caccia». Come siano andate le cose a Carey nel mondo subatomico, ossia nel futuro della sua storia, nessuno lo sa.

Infine ci sono le storie circolari, quelle che finiscono nello stesso modo in cui sono iniziate. Faccio solo un esempio, tra i tanti possibili: nel 2004, l’anno dopo la morte del suo autore, il cileno Roberto Bolaño  venne pubblicato 2666, un romanzo di quasi mille pagine, diviso in cinque parti indipendenti, la cui lettura è la cosa più vicina alla definizione di piacere che ci possa essere.

UN RITRATTO DI ROBERTO BOLAÑO: https://www.illibraio.it/news/dautore/libri-roberto-bolano-530580/)

Fidatevi. Racconta alcune storie attorno alla figura enigmatica, e inventata, di Benno von Arcimboldi, scrittore tedesco di culto che nessuno ha mai visto ma che tutti cercano. La prima delle cinque parti dell’opera, La parte dei critici, è ambientata, come altre tre, nella città immaginaria di Santa Teresa, in Messico, dove arrivano dei critici letterari che hanno sentito dire che Arcimboldi si trovi lì. Ovviamente non lo incontrano, ma questo loro arrivo fa partire centinaia di filoni narrativi: la vita di Oscar Amalfitano (parte 2: La parte di Amalfitano), oscuro professore di filosofia cileno, che però vive a Santa Teresa e ha una figlia; teme per la sua incolumità, perché a Santa Teresa vengono commessi centinaia di femminicidi il cui racconto, atroce e ipnotico, è la spina dorsale della quarta parte di 2666, La parte dei delitti. Per molti, Santa Teresa è una versione letteraria di Ciudad Juarez, “la città che uccide le donne”.

Tra La parte di Amalfitano e quella dei delitti c’è La parte di Fate, un giornalista americano che arriva a Santa Teresa per occuparsi di boxe. Infine, la quinta e ultima (?) parte, quella di Arcimboldi, in cui Bolaño torna indietro nel tempo e racconta la vita dello scrittore che tutti cercano, fino al momento in cui, nell’ultima pagina, Arcimboldi parte... per Santa Teresa: a questo punto, virtualmente, chi legge può ricominciare il romanzo daccapo, perché tutto è partito, se vi ricordate, dal fatto che i critici si erano recati a Santa Teresa perché qualcuno li aveva avvisati che lì era arrivato von Arcimboldi eccetera eccetera. Un congegno circolare, bellissimo, facile da leggere nonostante abbia decine di personaggi e livelli di lettura e soprattutto in cui sembra, davvero, che sia riuscito il miracolo di racchiudere in un pugno di pagine il mondo intero.

Capire sé stessi

La scuola è un’istituzione in costante cambiamento. Sensibile alla trasformazioni sociali ed economiche, stimolata dalle esigenze psicologiche degli studenti, obiettivo di progetti politici, la scuola è un'istituzione che scommette su un possibile futuro a cui preparare i nuovi cittadini. Ma come farlo? Quali aspetti privilegiare?

Selezionando tra le molte suggestioni proposte negli ultimi anni, si può provare a individuare come filo rosso l’attenzione verso le competenze non curricolari.

Un primo passo può essere la riflessione comune a molti psicologi a proposito di un cambiamento profondo a livello familiare. Lo psicologo Daniele Novara (I bambini sono gli ultimi, Rizzoli, Milano 2020) parla di una perdita del ruolo educativo degli adulti, spinti a immedesimarsi nei bambini invece di distinguersi da essi. L’effetto ovvio è che diventa difficile diventare adulti perché mancano i riferimenti necessari.

Questa riflessione, anche se non strettamente pedagogica, presenta però un’implicazione significativa: sebbene la scuola non nasca con un ruolo educativo strictu sensu, essa finisce per svolgerlo ed è implicitamente chiamata ad ampliare i propri compiti.

Tra questi nuovi compiti un altro psicologo, l’americano David Goleman (in D. Goleman – Peter Senge, A scuola di futuro, Rizzoli, Milano 2014), ne individua alcuni che hanno a che fare con l’emotività e la conoscenza di sé. Dato che le emozioni forti danneggiano la concentrazione e la capacità di apprendimento, rafforzare l’attenzione verso sé stessi e la capacità di inibire le emozioni più forti incrementa la qualità dell’istruzione. Goleman definisce la propria prospettiva una educazione sociale ed emotiva. Egli si concentra soprattutto su situazioni periferiche degli Stati Uniti dove i conflitti sociali sono una ragione di insuccesso scolastico. Tuttavia, in prospettiva, il suo invito può essere esteso ad altre situazioni, dove le emozioni più potenti come la rabbia o gli stati d’ansia sono frequenti.

Capire il contesto

Se c’è un aspetto che collega alcune delle prospettive più attuali della pedagogia, questo è in effetti l’invito a sviluppare una intelligenza emotiva e una capacità di relazionarsi con sé stessi e con gli altri. Al fondo di queste tendenze vi è l’assunto che un apprendimento efficace dipende dal contesto e dallo stato d’animo dello studente.

Tale assunto è ribadito e amplificato dalla prospettiva della pedagogia interculturale. Essa si fonda sulla constatazione dei profondi mutamenti demografici in corso nel nostro e in altri paesi e sulla necessità di porsi in relazione con la diversità culturale. Le proposte della pedagogia interculturale fanno della diversità e dell’accettazione dell’altro il proprio fulcro. Andando, però, oltre la semplice accettazione di studenti di origine straniera, questo orientamento insiste sulla virtù dell’ascolto empatico e del decentramento (la non assolutizzazione del proprio punto di vista). A questo proposito Agostino Portera (in Educazione e pedagogia interculturale, Il Mulino, Bologna 2022) parla di una vera e propria forma mentis interculturale, che deve stare alla base dell’atteggiamento degli insegnanti e che dovrebbe essere trasmessa agli studenti.

Capire cosa fare

Con qualche forzatura, possiamo ricondurre queste due prospettive (l’intelligenza emotiva e la capacità di esser empatici) alla valorizzazione di due intelligenze della celebre tassonomia di Howard Gardner, quella intrapersonale (la comprensione di sé) e quella interpersonale (la comprensione degli altri). Entrambe risultano fondamentali in una importante innovazione in fase nascente del nostro sistema scolastico, quella dell’orientamento.

Qui trovi utili riferimenti per capire l’itinerario intellettuale di Gardner http://montessori150.unimc.it/howard-gardner/

Approccio usato nel mondo del lavoro a supporto di chi fatica a strutturare una carriera coerente, questa prospettiva potrebbe mostrarsi utile anche a scuola per stimolare negli studenti la maturazione di una piena consapevolezza di sé e delle proprie capacità. Si tratta di un’idea che emerge dal confronto con vari modelli di orientamento (i più recenti dei quali ispirati alla corrente psicologica del costruzionismo). In questo senso l’orientamento è una pratica che tocca il nucleo profondo di una persona, la sua identità, le sue difficoltà ricorrenti, il modo in cui si percepisce negli ambienti di studio e di lavoro. 

Riflettendo su questo Guglielmi e Chiesa (autori di Orientamento scolastico e professionale, Il Mulino, Bologna 2021) mettono in rilievo il valore di un approccio narrativo, dove il soggetto è aiutato a ricostruire la propria vita per capire dove indirizzarla. Una strategia che pare attuabile anche nel contesto scolastico dove un ragazzo o una ragazza sono spinti a riflettere sul proprio percorso.
La scuola, in questa ottica di orientamento, sembra poter svolgere un ruolo a un doppio livello: innanzitutto, fornendo informazioni sulle opportunità di istruzione ai livelli secondario e terziario e in secondo luogo intensificando il potenziale di orientamento insito nei metodi e nei contenuti didattici per spingere gli studenti a capire se stessi. La chiave didattica di questa azione sarebbe un surplus di intenzionalità educativa, dice la pedagogista Antonia Cunti (In Aiutami a scegliere, Franco Angeli, Milano 2008).

In conclusione, quasi come contraltare alla diffusione delle tecnologie informatiche e dei saperi settoriali, le scienze dell’educazione ci ricordano che qualsiasi percorso formativo parte dei bisogni di una persona, che è influenzata dal contesto familiare e sociale, ma che è anche capace, in una certa misura, di modificare se stessa e il mondo. Esse ci ricordano inoltre che capire se stessi e gli altri è importante tanto quanto capire le normali materie di studio. 


(Crediti immagine: Monkey Business Images/Shutterstock)

La caratteristica davvero unica del nostro linguaggio è la capacità di trasmettere informazioni su cose che non esistono. Il “sentiero” dedicato al futuro, il secondo su Aula di Lettere dopo quello del 2016, parte da una citazione del saggio Sapiens. Da animali a dei di Yuval Noah Harari.

Il “sentiero” sul futuro del gennaio 2016 di cui si parla nei primi minuti del video è disponibile a questo link:

aulalettere.scuola.zanichelli.it/sezioni-lettere/sentieri-di-parole/futuro-passato-presente-essere-divenire

A ben vedere, il futuro è qualcosa che non esiste affatto: è un tempo – e uno spazio – che dobbiamo ancora vivere, che non c’è ancora stato, ma del quale possiamo parlare. Anzi, ne parliamo continuamente: a livello personale, pianificando la nostra giornata, la nostra settimana, le prossime vacanze, quello che non siamo e che vogliamo diventare. 

Ma questo succede anche a livello collettivo. Un esempio è il cambiamento climatico: come umanità, sappiamo che succederanno eventi tragici – stanno già succedendo - se non faremo nulla per diminuire drasticamente le attività che danneggiano l’ambiente.

Il linguaggio finisce quindi per plasmare il modo in cui vediamo e consideriamo il futuro, e con esso i rischi, le opportunità, i vantaggi e gli svantaggi. 

Un filone di ricerche dell’ecolinguistica, una branca degli studi del linguaggio molto promettente, sta indagando come le strutture linguistiche ci portino a vedere il mondo e, in particolare, come le culture e le lingue possono portarci a non capire eventi complessi e, appunto, futuri, come il cambiamento climatico. 

Parlare una lingua può quindi portarci a vedere e immaginare un futuro che non vedremmo se ne parlassimo un’altra: come possiamo fare, quindi, ad affrontare un’emergenza globale come il cambiamento climatico se non abbiamo gli stessi meccanismi concettuali e culturali per affrontarla? 


Crediti immagine: phydc – Pixabay

[...]

Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Solo una nota
ancor trema, si spegne.
risorge, trema, si spegne.
[...]

(Gabriele D’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1902)

Ve la ricordate l’anafora? Avevamo detto che è una figura dell’insistenza, perché mette sempre la stessa parola all’inizio di un verso o di una frase. Ecco, l’epifora (o epistrofe) è una figura che le è speculare, perché mette sempre la stessa parola alla fine di un verso o di una frase – come quel “si spegne” che, con insistenza, chiude quei tre versi di D’Annunzio.

Se andate a messa, ogni volta che seguite una litania e dite «Prega per noi» o, in un altro momento della funzione, ripetete «Kyrie eleison», state inconsapevolmente facendo un’epifora.

Esistono combinazioni di versi, o procedimenti retorici, che combinano anafore e epifore: in questo caso parliamo di simploche. A volte le simplochi sono perfette, nel senso che le parole con cui la frase inizia e finisce sono le stesse; a volte invece sono imperfette, perché contengono piccole variazioni o usano dei sinonimi. Per esempio, Tasso, nel terzo canto della Gerusalemme liberata, fa una simploche imperfetta:

ecco apparir Gierusalem si vede,
ecco additar Gierusalem si scorge.


(Crediti immagine: Pixabay)

condividi