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La crisi della filosofia come narrazione e autorappresentazione

Nel corso del Novecento, di fronte alla sempre maggiore complessità sociale e allo sgretolamento dei legami comunitari, le “grandi narrazioni” si dimostrano incapaci di dare un senso alla realtà. Nel contesto attuale non si può più ricorrere a una verità assoluta, ma esistono solo combinazioni pragmatiche tra i diversi linguaggi che percorrono la società postmoderna.
A partire dal XVIII secolo si affermano nel pensiero occidentale quelle che nel corso del Novecento saranno definite «grandi narrazioni». Illuminismo, idealismo, marxismo, positivismo sono cornici teoriche che, pur nella loro diversità, condividono alcuni tratti peculiari: l’ottimismo verso il futuro; la convinzione che la storia proceda in modo lineare e per progressivi miglioramenti in ambito culturale, sociale, scientifico; l’idea che esista per la società uno scopo a cui tendere. Sono tuttavia molteplici le questioni che i critici individuano: queste “narrazioni” sono descrizioni oggettive della realtà in cui l’uomo è immerso oppure diventano gabbie teoriche attraverso cui si intende fornire una spiegazione razionale alla complessità di una determinata epoca? Esiste davvero uno Zeitgeist (spirito del tempo) che caratterizza i singoli periodi storici in modo coerente e riconoscibile? Qual è il rapporto tra la realtà e le rappresentazioni che noi diamo di essa?  

I primi segnali della crisi. Le voci di Kierkegaard e Nietzsche

Se è vero che l’Ottocento è il secolo che forse più di tutti vede nascere e svilupparsi sistemi filosofici omnicomprensivi, alcuni dei quali eserciteranno una decisa influenza anche sul pensiero novecentesco, è in questo stesso periodo che si alzano le prime voci critiche. Il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) rivendica la centralità del singolo in aperto contrasto con l’impianto dialettico del pensiero hegeliano, incapace di tener conto dell’esistenza soggettiva e concreta degli uomini nel mondo. Annota Kierkegaard nel suo Diario: «Succede della maggioranza dei filosofi sistematici, riguardo ai loro sistemi, come di chi si costruisse un castello e poi se ne andasse a vivere in un fienile: per conto loro essi non vivono in quell'enorme costruzione sistematica». Per Kierkegaard, le narrazioni della realtà utilizzate da filosofi come Hegel non solo sono pure astrazioni separate dalla realtà stessa, ma all'interno di esse gli individui non giocano alcun ruolo e neppure hanno la libertà di scegliere per la propria esistenza. In questa contrapposizione, si scorgono due diverse modalità di concepire la disciplina filosofica stessa: da un lato, una scienza oggettiva, distaccata e disinteressata; dall'altro una riflessione soggettiva sulla vita umana.
Per un approfondimento sulla dialettica hegeliana, si rimanda a questa lezione del filosofo Remo Bodei
Un colpo ancora più netto e generalizzato alle narrazioni e (auto)rappresentazioni che il pensiero occidentale ha elaborato nel corso dei secoli viene inferto da Friedrich Nietzsche (1844-1900). Non è un caso che proprio il filosofo tedesco divenga un punto di riferimento per i critici del secondo Novecento. Sin dal suo primo e celebre scritto La nascita della tragedia (1872), Nietzsche intende scardinare l’interpretazione razionalista attraverso cui l’uomo europeo ha rappresentato sé stesso. Pur analizzando un ambito circoscritto come la tragedia, una delle forme d’arte più importanti della classicità, Nietzsche individua nell'affermazione del carattere “apollineo” nella Grecia antica l’inizio della decadenza della civiltà occidentale: l’ordine, la forma, il calcolo, la razionalità sono stati utilizzati per reprimere e imbrigliare l’essenza caotica e tragica della vita. Nella maturità, Nietzsche continuerà la sua battaglia contro i grandi racconti di cui l’uomo si è nutrito per meglio tollerare l’assurdità dell’esistenza, fino a giungere alla sferzante e provocatoria affermazione «Dio è morto», contenuta nel testo La gaia scienza (1882): si tratta di prendere atto del fatto che tutte le certezze assolute, non solo religiose ma anche filosofiche e metafisiche, sono venute meno, sono state smascherate e la realtà si mostra per quello che è: contraddittoria, disarmonica, senza alcuna direzione provvidenziale.  

Dal moderno al postmoderno. La definitiva disillusione del Novecento

Nel 1979, il filosofo francese Jean-François Lyotard (1924-1998) pubblica il saggio La condizione postmoderna. È a lui che si deve l’introduzione dell’espressione «grandi narrazioni», la cui fine diviene la cifra dell’epoca contemporanea. Lyotard prende le mosse da un’analisi che coinvolge in prima battuta l’ambito della scienza, ma che si allarga progressivamente alle sfere della filosofia, della politica e della morale. Rispetto al secolo precedente, il Novecento presenta alcune peculiarità: l’affermazione su larga scala del capitalismo in campo economico, il progressivo sfaldamento del comunismo, ultimo elemento ideologico del secondo dopoguerra, la trasformazione della società da un tutto omogeneo (o presunto tale) a una realtà plurale, frammentata, sempre più individualista. Nel momento in cui Lyotard scrive, le narrazioni che l’occidente ha costruito per rappresentare sé stesso, per raccontarsi e, quindi, per legittimarsi sono oramai al tramonto. Ed è proprio la questione della legittimazione che viene posta al centro dell’analisi di Lyotard: i sistemi filosofici della modernità, così come le ideologie novecentesche, hanno avuto sia l’obiettivo di “spiegare” il mondo sia di legittimare un certo modo di interpretare la realtà. Di fronte alla sempre maggiore complessità sociale, allo sgretolamento dei legami comunitari, i grandi sistemi e le grandi narrazioni “non funzionano più”, si sono dimostrati incapaci di dare un senso alla realtà. La modernità, ossessionata dall'unità, ha lasciato il posto al pluralismo radicale della postmodernità. Scrive Lyotard: «possiamo considerare postmoderna l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni […]. La funzione narrativa perde i suoi funtori, i grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli ed i grandi fini». Per il filosofo, questo «declino del narrativo» si è compiuto tanto a causa dello sviluppo tecnologico, che ha messo al centro il mezzo rispetto al fine, quanto a causa del capitalismo che ha valorizzato il godimento individuale dei beni e dei servizi. In questo modo, da un lato si è concretizzata la perdita di un orizzonte finale, dall'altro si è giunti a una frantumazione non solo sociale, ma anche identitaria. Lyotard non manca infatti di evidenziare come nel Novecento non solo va in crisi l’idea di una realtà esterna omogenea, ma anche la rappresentazione di un’“io” unitario e trasparente a sé stesso, una convinzione tipicamente moderna che affonda le proprie origini nel pensiero di Descartes. Alla luce della condizione postmoderna, la domanda cruciale per Lyotard diventa allora la seguente: «dove risiede la legittimità dopo la fine delle metanarrazioni?». Nel contesto attuale, non si può più ricorrere a una verità assoluta, ma possono esistere solo combinazioni pragmatiche tra i diversi linguaggi che percorrono la società postmoderna. Il sapere diviene così strumento essenziale per renderci sensibili alle differenze e fronteggiare la mancanza di un’unità di misura condivisa.
Per un ulteriore approfondimento della vicenda umana e filosofica di Lyotard, si rimanda a questa puntata del programma Zettel
  Crediti immagini Apertura: Data.Tron [8K Enhanced Version] di Ryoji Ikeda (Wikimedia Commons) Box: Jean-François Lyotard (Wikimedia Commons)

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