Fake news, teorie del complotto, convinzioni stravaganti ma senza fondamenta che ampi gruppi di persone difendono ricorrendo anche alla violenza. Fenomeni sempre più diffusi, ma che sarebbe fuorviante ritenere peculiari dell’epoca contemporanea. La manipolazione del reale ha origini antiche ed è spesso frutto di motivazioni opportunistiche in precisi contesti storico-politici. A caratterizzare la nostra epoca è piuttosto la rapidità, se non simultaneità, dei processi comunicativi, la molteplicità dei soggetti coinvolti, la quantità di materiali a disposizione e una tecnologia che trasforma chiunque in generatore diretto di informazione e in cassa di risonanza.
“Mercenari di parole”. Persuasione e verità nella Grecia antica
Agli albori della democrazia occidentale, nell’Atene di Pericle del V secolo a.C. nasce e si afferma la tradizione sofistica. È un’epoca di profondi cambiamenti culturali, di novità e di incertezze, di cui i Sofisti si fanno perfetti interpreti: le leggi della città non sono più considerate emanazione di una volontà superiore, ma sono i cittadini a definirle attraverso la discussione e il confronto. L’arte dell’uso del linguaggio diventa essenziale. Le nuove “armi” sono la logica e la retorica, strumenti con cui persuadere la controparte, a prescindere dal contenuto delle proprie idee: forma e sostanza del linguaggio si separano. Campioni della «tecnica del parlare» (rhetoriké téchne) sono oratori come Protagora, Gorgia e Trasimaco, protagonisti di molti Dialoghi platonici, che in tono dispregiativo vengono anche chiamati “eristici” (da eristiké téchne, «tecnica del disputare»), ovvero “mercenari di parole”: divenuti talmente abili nell’arte della controversia, dimostrano infatti come qualsiasi posizione, se ben argomentata, possa infine affermarsi. È indicativo che parole derivate da questa tradizione mantengano tuttora un’accezione negativa che rimandano a un’idea di falsità, imbroglio, insidia. Si pensi, ad esempio, al termine “sofisma” con cui indichiamo un ragionamento capzioso, valido solo in apparenza e utilizzato per ingannare; o, ancora, all’aggettivo “sofisticato” con cui ci riferiamo a persone non spontanee e a oggetti alterati e contraffatti.
Fake news di regime. Hannah Arendt e la propaganda nel Novecento
Nel Novecento i regimi dittatoriali si sono serviti della creazione e manipolazione delle informazioni per creare consenso e rafforzare il proprio controllo sulle masse. La propaganda consiste in un insieme di fake news istituzionalizzate, costruite come verità assolute, che dal centro del potere politico sono sapientemente dirette verso la periferia. Uno tra gli esempi più eclatanti è un noto falso, ovvero il documento conosciuto come “Protocolli dei Savi di Sion”, impiegato nella propaganda antisemita già nella prima metà del secolo e ampiamente ripreso dal regime nazista.
Ne Le origini del totalitarismo (1951), la filosofa tedesca Hannah Arendt (1906-1975) propone una lucida analisi, cogliendo specificità del comportamento delle masse che non pare lontano dalla nostra attualità: «[Le masse moderne] non credono nella realtà del mondo visibile, della propria esperienza; non si fidano dei loro occhi e orecchi, ma soltanto della loro immaginazione, che può essere colpita da ciò che è apparentemente universale e in sé coerente. Si lasciano convincere, non dai fatti, neppure dai fatti inventati, ma soltanto dalla compattezza del sistema che promette di abbracciarle come una sua parte. […] Quel che le masse si rifiutano di riconoscere è la casualità che pervade tutta la realtà. […]. La propaganda totalitaria prospera su questa fuga dalla realtà nella finzione, dalla coincidenza nella coerenza».
Dal pluralismo alla post-verità. I cortocircuiti della democrazia contemporanea
Le indagini dei filosofi del linguaggio e dei filosofi politici si intrecciano anche in epoca contemporanea. Le teorie della verità trovano spazio all’interno delle riflessioni sul confronto democratico e si assiste all’affermarsi di prospettive che alleggeriscono, talvolta addirittura annullano, il legame tra linguaggio e realtà. A questo riguardo, sono emblematiche le posizioni dei filosofi statunitensi Nelson Goodman (1906-1998) e Richard Rorty (1931-2007). Per Goodman, la natura dell’uomo non risiede tanto nella razionalità quanto nell’attitudine a elaborare sistemi simbolici: gli uomini sono continuamente impegnati nella costruzione e ricostruzione di molteplici versioni e rappresentazioni del mondo, contestualizzate e storicizzate. La posizione di Goodman è radicale e viene definita irrealismo: non solo non sarebbe possibile stabilire quale versione sia oggettivamente più “vera” di un’altra, ma non esisterebbe un mondo reale in sé, soltanto una pluralità di mondi costruiti, tutti ugualmente reali (Ways of Makingworld 1978, trad. ita. Vedere e costruire il mondo 1988). La prospettiva di Goodman si rivela così anti-empirista e anti-riduzionista, rinnegando ogni tipo di aderenza tra realtà ed esistenza. Il filosofo non rinuncia alla possibilità di ricorrere a criteri di valutazione che ci possano guidare tra le diverse versioni del mondo, ma il criterio vero/falso diventa solo una delle possibilità e si affianca ad altri di non minore importanza come i criteri di efficacia e di semplicità. Anche Rorty percorre una strada simile, ritenendo che non esista una corrispondenza tra il linguaggio che utilizziamo per parlare della realtà e la realtà stessa: in quanto immersi in contesti specifici, l’unica “verità” risiede nell’accordo tra i membri della comunità di appartenenza che condividono uno stesso sostrato di valori e paradigmi. Richiamandosi in modo esplicito al prospettivismo di Friedrich Nietzsche (1844-1900) e appoggiando un criterio pragmatista, Rorty rifiuta l’idea di una verità intesa in senso assoluto, considerandola piuttosto un costrutto storico, frutto di un accordo intersoggettivo (La filosofia dopo la filosofia, 1989; Scienza e solidarietà, Verità e progresso). Non esiste un vocabolario privilegiato con cui riferirsi alla realtà, ma ogni vocabolario è solo uno strumento in vista di uno scopo. Riprendendo le parole del filosofo pragmatista William James (1842-1910), costante punto di riferimento per Rorty: «Il vero è il nome di tutto ciò che è bene credere, e bene per ragioni definite e specificabili, e si dimostra tale». Posizioni pluraliste e relativiste come quelle di Goodman e Rorty non devono sorprendere, quasi costituiscano la reazione a ideologie e visioni del mondo assolutiste che hanno costituito le basi teoriche dei tragici avvenimenti del Novecento. È indicativo che il concetto di post-verità, tanto ricorrente negli ultimi anni, sia stato sì coniato nell’ultimo decennio del secolo scorso ma sia entrato con prepotenza nel discorso pubblico solo nel 2016, anno chiave per due eventi di portata internazionale: la campagna elettorale di Donald Trump negli Stati Uniti e il referendum per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. In queste due occasioni, argomentazioni basate su mere credenze, tanto diffuse quanto mai verificate, sono state accettate come vere, influenzando concretamente entrambi gli esiti.
L’epoca della post-verità in cui siamo immersi mostra quanto sia sottile il confine tra pluralismo democratico e abbandono di ogni criterio di legittimazione. A questo si aggiunge la natura critica del concetto di “verità”: da un lato, nozione necessaria per supportare la validità delle nostre posizioni contro false notizie e impostori, ma dall’altro sempre pronta a trasformarsi nel fondamento indiscutibile di pericolosi integralismi.