In occasione del cinquantesimo anniversario del 1968, sono molti i progetti proposti quest’anno. Per la trasversalità delle questioni trattate (letterarie, musicali, politiche) utili a ricostruire il complesso contesto storico e culturale dell’epoca, si segnalano in particolare le trasmissioni radiofoniche che Radio3 ha dedicato al tema nella settimana dal 12 al 18 marzo 2018 e a cui si può accedere dal seguente link: http://www.raiplayradio.it/articoli/2018/03/Radio-3-sul-Sessantotto-home-c6ec4515-697d-4739-95f8-5315c81d47e3.html?wt_mc=2.social.fb.radio3_radio3.&wt
Le istituzioni come strutture reazionarie. I contributi di Sartre e Marcuse
Nel 1960, il filosofo francese Jean-Paul Sartre (1905-1980) pubblica Critica della ragione dialettica. È in questo testo che Sartre introduce la definizione di «gruppo in fusione», riferendosi a quegli insiemi i cui membri sono legati da un patto reciproco finalizzato a una lotta comune. Si tratta di un rapporto non strutturato, capace tuttavia di spezzare, in quanto presa di coscienza di sé, la ripetitività («serialità») e l’uniformità in cui uomini e donne si trovano a operare nei contesti del quotidiano. Nove anni più tardi, Sartre riprende, in una intervista di più agile lettura, la sua tesi interpretandola alla luce delle manifestazioni che nel maggio 1968 avevano sconvolto la Francia. In particolare, il filosofo contrappone l’identità dei movimenti giovanili e quella del Partito comunista francese (Pcf), quest’ultimo descritto come «un sistema chiuso» e «appesantito» che, per resistere all’urto della massa in fusione dei giovani è costretto a negarla o a tentare di assorbirla al proprio interno. Sartre registra così che nel momento in cui un gruppo si istituzionalizza ovvero, come nel caso del Pcf, si fornisce di una rigida organizzazione per incidere socialmente e politicamente tende a perdere il carattere propulsivo, magari persino rivoluzionario, delle sue fasi iniziali; il risultato è quello di trasformarsi in uno strumento di difesa dello status quo incapace di dialogare in modo aperto e costruttivo con le istanze di cambiamento di nuovi protagonisti. La sfida diventa perciò non quella di fare a meno dell’organizzazione, ma di rendere l’organizzazione «perpetuamente in grado di lottare contro la propria istituzionalità» (cfr. R. Rossanda, Quando si pensava in grande, pp. 45-70). La natura reazionaria delle istituzioni e i meccanismi utilizzati per salvaguardarne potere e autorità sono questioni centrali anche per il filosofo tedesco Herbert Marcuse (1898-1979), vicino alla Scuola di Francoforte e pensatore di riferimento per i giovani degli anni Sessanta. Se l’opera più conosciuta di Marcuse è L’uomo a una dimensione (1964), di notevole interesse è un breve saggio apparso nel 1965, La tolleranza repressiva, non a caso dedicato dall’autore ai suoi studenti. In questo testo, Marcuse si interroga sul significato attuale di tolleranza, denunciandone lo spostamento del «luogo politico»: trasformata in «comportamento obbligatorio nei confronti delle politiche istituite», essa avrebbe perso quel carattere universale per il quale tutti i soggetti politici e sociali sono chiamati a praticarla. In nome della tolleranza, ma in un contesto di esercizio asimmetrico della stessa, i governati arrivano ad accettare l’ordine costituito, anche quando questo si rivela inaccettabile, e a giustificare il ricorso a prassi discriminatorie da parte delle istituzioni. Non sorprende che per Marcuse sia divenuto necessario recuperare un’idea sovversiva e liberatrice di tolleranza, da alcuni criticata. Egli affermava, ad esempio: «credo che ci sia un “diritto naturale” della resistenza per le minoranze oppresse e dominate di usare mezzi extralegali se quelli legali hanno mostrato di essere inadeguati. La legge e l’ordine sono sempre e dovunque la legge e l’ordine che proteggono la gerarchia stabilita. […] Se [quelle minoranze] usano violenza, non danno inizio a una catena di violenze ma cercano di spezzare quella stabilita».Dalla scuola all’università. La democratizzazione delle istituzioni educative
I giovani degli anni Sessanta incontrano classismo, gerarchia e autoritarismo in primo luogo all’interno delle istituzioni che vivono nel loro quotidiano: scuola e università. Nel 1967, in Italia fa scalpore l’uscita del libro Lettera a una professoressa, scritto dai ragazzi della scuola di Barbiana sotto la guida di don Lorenzo Milani (1923-1967). Meno di un anno più tardi, Guido Viale, studente dell’Università di Torino, luogo-simbolo delle contestazioni giovanili, pubblica sui Quaderni Piacentini l’articolo Contro l’università, un vero e proprio manifesto di critica del mondo dell’istruzione. Gli autori di questi testi non sono filosofi, ma il contenuto delle loro analisi, pur nella diversità dei linguaggi e delle prospettive, pone questioni che si inseriscono perfettamente nel dibattito politico-filosofico internazionale di quegli anni. Due sono i livelli di lettura che si possono individuare. Il primo riguarda l’esigenza sempre più pressante di un cambiamento radicale nelle metodologie educative, da orientare verso una maggiore inclusione e partecipazione, fino al coinvolgimento attivo degli studenti in una dimensione orizzontale. L’esperienza di Barbiana, che promuove una dinamica di collaborazione tra gli studenti capace di integrare attività curricolari e di carattere più informale, va in questa direzione. Il secondo livello di lettura è marcatamente politico, volto a evidenziare come le istituzioni scolastiche e universitarie costituiscano di fatto un rigido criterio di selezione sociale, impedendo una reale emancipazione economica e culturale di ragazzi e ragazze svantaggiati. «All’Università entrano in molti ed escono in pochi», scrive Viale, «Escono innanzitutto coloro per i quali la collocazione professionale in una posizione dirigenziale è già garantita dalla situazione sociale della famiglia di provenienza». Tutte questioni che in Italia non si esauriranno nel 1968, ma che alimenteranno quel fenomeno specificamente nazionale che sarà il Movimento del ’77, come venne definita la galassia della contestazione giovanile che sottopose a critica serrata la società italiana. Ma sul finire degli anni Settanta le utopie del decennio precedente resteranno sullo sfondo, lasciando il posto a disillusione, rabbia e amara ironia.
I Quaderni Piacentini sono una rivista bimestrale fondata a Piacenza nel 1962 dal critico letterario e scrittore Piergiorgio Bellocchio. I Quaderni hanno rappresentato per diversi anni un significativo punto di riferimento politico e culturale della sinistra giovanile. I numeri della rivista e gli articoli sono ora consultabili online, dal 1962 al 1984, ultimo anno della loro pubblicazione: http://bibliotecaginobianco.it/?e=flip&id=37&t=elenco-flipping-Quaderni+Piacentini
Crediti immagini
Apertura: L'ingresso del Palazzo della Triennale a Milano nel maggio del 1968 (Wikimedia Commons)
Box: Herbert Marcuse nel 1955 (Wikimedia Commons)

