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Il dono interessato. Le dediche in letteratura

Nella storia della letteratura la dedica è stata un vero e proprio genere letterario capace di tratteggiare lo status sociale del letterato e degli scrittori, fino all'avvento del letterato come professione
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Piccola storia dell’adulazione

«Sogliono, el più delle volte, coloro che desiderano acquistare grazia appresso uno Principe, farseli incontro con quelle cose che infra le loro abbino più care, o delle quali vegghino lui più delettarsi; donde si vede molte volte essere loro presentati cavalli, arme, drappi d’oro, prete preziose e simili ornamenti, degni della grandezza di quelli. Desiderando io adunque, offerirmi, alla vostra Magnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato intra la mia suppellettile cosa, quale io abbia più cara o tanto esístimi quanto la cognizione delle azioni delli uomini grandi, imparata con una lunga esperienzia delle cose moderne et una continua lezione delle antique».

È così che comincia una delle dediche più famose della letteratura italiana: quella che Niccolò Machiavelli fece, pubblicando nel 1513 Il principe, ad magnificum Laurentium Medicem, “al magnifico Lorenzo de’ Medici”. Molti, scrive Machiavelli, per entrare nelle grazie di un principe sono soliti fargli dei doni; egli però non possiede nulla fuorché la sua conoscenza della politica: per questo omaggia il principe di un libro, il suo, e questo dono va inteso come atto di umiltà e sottomissione e, anche, come auspicio di fortuna e grandezza per il regnante. La dedica si chiude con un’invocazione: se lei, principe, scrive Machiavelli, si volgerà dalla sua altezza e getterà uno sguardo sulla vita dello scrittore «conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna».
Clicca qui per leggere un articolo di approfondimento su Lorenzo De' Medici
Le dediche sono antiche quasi quanto la letteratura: già Virgilio, nel I sec. a.C., aveva donato le Georgiche a Mecenate, mentre negli stessi anni Catullo aveva rivolto a Cornelio Nepote una delle dediche più note dell’antichità: è in versi, e comincia con la famosa frase «Cui dono lepidum novum libellum», «A chi dono il bel libretto nuovo». Così si apre la raccolta dei carmi. Oltre millecinquecento anni più tardi, Ariosto aveva dedicato l’Orlando furioso a Ippolito d’Este, mentre la Gerusalemme liberata era stata scritta dal Tasso per Alfonso II d’Este, accostato per grandezza a Goffredo di Buglione, «capitano» della Prima crociata. La dedica, altrimenti detta epistola dedicatoria, è, o perlomeno è stato, un genere letterario: la stragrande maggioranza delle opere antiche e moderne ne aveva una. Ma perché? Quando la letteratura non era un mestiere Scrive il grande critico francese Gérard Genette, in un libro dedicato ai paratesti e intitolato Soglie, che, di fatto, l’arte della dedica si è sviluppata per questioni di denaro. È infatti solo in epoche relativamente recenti – grossomodo a partire dal XIX secolo – che la letteratura comincia ad essere, si può dire, considerata un mestiere: agli autori di opere letterarie viene insomma riconosciuto un compenso per il loro lavoro. I Dickens, i Dostoevskij, i Balzac scrivono i propri romanzi su commissione da parte di alcune riviste o in seguito alla firma di contratti con gli editori: essi vengono pagati per quello che pubblicano. A partire da un dato momento, insomma, gli scrittori guadagnano autonomamente e, se sono fortunati, possono raggiungere un’indipendenza economica che li affranca dal dover dipendere dalle borse di qualche principe o signore (e infatti, fu proprio Balzac, nel 1844, a cominciare la dedica a M.me Hanska contenuta nell’incompiuto Il prete cattolico con un «Signora, non è più il tempo delle dediche»). Ma, prima, era tempo eccome, e la dedica aveva la precisa funzione di omaggiare un ricco e potente signore che contribuiva al sostentamento dello scrittore permettendogli di lavorare ai propri testi. È celebre il caso dell’opera Genio del cristianesimo, che Chateaubriand dedicò a Luigi XVIII ricevendone in cambio trecento lire. Nella seconda edizione dell’opera, Chateaubriand inserì un’epistola dedicatoria al console Bonaparte («Col mio più profondo rispetto, il vostro umilissimo e obedientissimo servitore»), con il risultato di ottenere un impiego da quindicimila franchi l’anno. La dedica è insomma un omaggio remunerato – un finto dono o, se si vuole, un dono interessato: si intitola il libro a qualcuno da cui si vuole trarre beneficio. Generalmente, il dedicatario viene informato della dedica prima che questa venga pubblicata: è raro infatti trovarsi di fronte a dediche fatte a personaggi inconsapevoli. C’è però un caso di questo tipo: l’Henry Fielding di Tom Jones viene infatti indirizzato «All’onorevole George Littleton, Lord Commissario del Tesoro». La dedica di Fielding comincia così: «Sir, nonostante Lei si sia sempre rifiutato di permettermi di dedicarLe quest’opera…». Ma il Sir aveva dato più di un contributo a Fielding, e una dedica, anche se con preterizione, se la meritava.
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Dediche e responsabilità Ma non è solo economica la ragione per cui si dedica un libro a un potente: lo si fa anche per vincolarlo pubblicamente a se stessi e al proprio lavoro. Il dedicatario, infatti, diventa giocoforza una sorta di patrocinatore dell’opera che gli viene dedicata e delle idee che essa contiene: egli è, insieme all’autore, il responsabile etico, politico e intellettuale dello scritto – se ne fa garante e ispiratore. Il mecenate non è insomma soltanto colui che mantiene l’artista, ma è anche colui che lo sostiene artisticamente, lo protegge dalle critiche e, a volte, gli detta la strada da seguire: è il caso proprio di Mecenate, aristocratico alleato dell’imperatore Augusto il cui nome è entrato nel linguaggio comune, che protesse Virgilio e Orazio, Properzio e Vario Rufo, e influì a volte sul loro pensiero, esortandoli e stimolandoli a comporre. L’omaggio ai maestri: le dediche nel corso del Novecento Che la funzione delle dediche sia oggi completamente mutata è sotto gli occhi di tutti: basta aprire un libro contemporaneo per vedere come non siano più il mecenatismo e la protezione a muovere la penna dei dedicatori, ma ragioni semmai di vicinanza intellettuale e affettiva. È così per esempio nel poema La terra desolata di Thomas S. Eliot (1922), dedicato al maestro del poeta, l’americano Ezra Pound, definito da Eliot, dantescamente, «il miglior fabbro».
Clicca qui per leggere un articolo in pdf su Thomas Eliot e il modernismo
A un altro maestro, stavolta non letterario, dedica Paolo Volponi uno dei suoi ultimi libri, Le mosche del capitale, scritto nel 1989 e donato ad Adriano Olivetti, «maestro dell’industria mondiale»: per anni Volponi aveva lavorato proprio all’Olivetti e proprio questa esperienza, insieme alla grande ammirazione per l’industriale, ispirò molte delle opere dello scrittore. Cambiano anche le forme delle dediche: non più epistole, a volte un po’ retoriche, in cui si magnifica un mecenate, ma poche e secche frasi che pagano un tributo in esergo; non più captatio benevolentiae verso chi paga e protegge, bensì il ricordo, a volte malinconico, di qualcuno che ha accompagnato l’autore e lo ha educato. Dunque scompare l’adulazione, e anche l’idea dell’offerta a un potente e il dono, in fondo, appare meno interessato: le dediche nella letteratura contemporanea sono piuttosto il riconoscimento pubblico di un’appartenenza e una vicinanza culturale e amorosa. È ciò che succede al premio Nobel Isaac B. Singer, che dedicò il capolavoro di una vita, La famiglia Moskat, «alla memoria del mio defunto fratello, I.J. Singer, autore dei Fratelli Ashkenazi. Egli era per me non soltanto il fratello maggiore, ma anche un padre spirituale e veramente un maestro di vita». Ed ciò che, con ironia e strafottenza, accade anche al poeta russo Vladimir Majakovskij, che intitolò una sua poesia All’amato se stesso dedica queste righe l’autore.
Clicca qui per leggere un ritratto di Isaac Singer scritto da Roberto Saviano
Immagine di apertura: Stepan Bakalovich, "Il circolo di Mecenate". Dipinto, 1890. Galleria Tret'jakov, Mosca. Immagine del box: Pieter Paul Rubens, "Ritratto di Lorenzo De' Medici". Olio su tavola, 1612. Museo Plantin-Moretus, Anversa.
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