La veduta: coordinate teoriche
La veduta urbana si afferma in quanto genere pittorico autonomo solo nel Settecento, come “specializzazione” nell’ambito della pittura di paesaggio. Prima di quella data, il paesaggio urbano è un “frammento”, un parergon – para (contro) ergon (opera) – ovvero “ciò che all’opera si aggiunge e, nello stesso tempo, quel che le si contrappone”. Accessorio e, al contempo, al-di-là del quadro, spazio di natura contrapposto allo spazio di cultura delimitato dalla cornice, dal quale si contempla il mondo, il paesaggio urbano occupa l’ultimo piano della rappresentazione, alle spalle dei personaggi sacri o storici ritratti al centro della scena.
Hans Memling, Crocifissione con l’abate Jan Crabbe, 1470, Vicenza, Museo civico (pannello centrale del trittico)
La conversione del “frammento” in totalità autonoma ha una storia complessa e affascinante, fatta di salti in avanti e di ripensamenti, di sfida e di confronto tra le arti – pittura e fotografia in primis – che si può seguire, in vitro, in alcune delle sue tappe fondamentali, nella rappresentazione della città di Bologna.
La città dipinta
Le prime raffigurazioni di Bologna non sono in verità paesaggi, ma oggetti, modellini tridimensionali nelle mani del patrono. Nei dipinti di Lippo di Dalmasio (1380 ca.) e Pietro Lianori (1443), la città è descritta in modo sintetico, per figure salienti, e sebbene la rappresentazione non sia priva di verosimiglianza (sono riconoscibili le torri maggiori e la cattedrale di San Pietro), essa appare un semplice attributo di San Petronio, che da quella riceve, in assenza di altri tratti distintivi, o insieme ad essi, la propria identità iconografica. La città “vale” tanto quanto il libro di Sant’Ambrogio o il leone di San Girolamo, ed è descritta con pari cura. A differenza del libro e del leone, tuttavia, la città è innanzitutto uno spazio. Rappresentarla significa cioè ritagliare uno spazio specifico, chiuso e separato, entro quello più ampio e indeterminato – nicchia o fondo oro – del dipinto. L’operatore di questa separazione è la cinta delle mura. Al di là delle ragioni mimetiche (Bologna è cinta da mura), la cinta muraria introduce nello spazio convenzionale e ancora indifferenziato del dipinto un inserto di realtà che corrisponde allo spazio storico del paesaggio urbano. In epoca successiva, più rigorosamente prospettica, l’al-di-fuori del quadro, qui ancora al centro della rappresentazione, sarà coerentemente collocato a distanza, nell’ultimo piano del dipinto. Analoghe considerazioni valgano per quello che si considera il primo ritratto storico della città di Bologna. Lo dipinse Francesco Francia dopo il terremoto del 1505 fissando così, sui muri del Palazzo Comunale, un prototipo iconografico più volte ripreso nel secolo successivo. La veduta panoramica della città assume da qui in avanti un’importanza prima sconosciuta. A quella veduta, analitica e minuziosa, continua a guardare per esempio Guido Reni nella Pala del Mendicanti e nel Pallione della Peste. La città non è più attributo di un santo, tuttavia il suo status di “oggetto” accessorio e frammentario non cambia: l’approdo al primo piano conferma la sua appartenenza alla nutrita categoria dei marginalia (nature morte, fiori, vivande, oggetti in senso lato).
Guido Reni, Pietà dei Medicanti, 1615, Bologna, Pinacoteca Nazionale.
Così è nella Pala del Mendicanti, così è ancora nel Pallione della Peste, dove il fulcro della piccola scena urbana è in realtà il “fuori scena”, ma anch’esso in primo piano: la fuoriuscita delle barelle con i morti di peste, alla quale fanno da contrappunto i gesti di giubilo e di ringraziamento alla Vergine dei sopravvissuti. In tutti i casi citati, la città è committente delle opere, e in quanto tale rappresentata nel primo piano del dipinto, ai piedi dei Santi, come lo era il donatore nella pittura tre-quattrocentesca.
Il primo dipinto bolognese nel quale la città “perde il margine” – in termini di spazio e di valore – è la Strage degli innocenti di Giuseppe Maria Crespi (Bologna, Pinacoteca Nazionale). Non si tratta di un’opera di genere, al contrario. Qui è la quintessenza della grande pittura italiana ed europea: c’è una narrazione esemplare e attori umani con le loro emozioni. Ma della pittura di genere l’opera condivide almeno un presupposto teorico fondamentale: la subordinazione della narrazione storica alla descrizione esatta e non selettiva della realtà in tutti i suoi aspetti.
Giuseppe Maria Crespi, La strage degli innocenti, 1740 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale
La Strage è la narrazione di una carneficina. Il primo piano del dipinto è occupato da un groviglio di corpi in movimento, bambini strappati alle madri disperate, soldati furibondi. Ma questa istoria, questa narrazione, emerge dall’oscurità per piccole porzioni, per dettagli. La luce non uniforma la scena, la frammenta. Dietro la scena principale, e monumentale per dimensioni rispetto alla prima, è una veduta di una strada cittadina, dei suoi caseggiati, dei suoi caratteristici portici medievali. La luce vi si diffonde uniforme e lì si ferma, fioca ma unita. A Crespi interessa ritrarre la città, e lo fa mediante la scelta di uno scorcio riconoscibile che non è più una quinta o un’ambientazione per l’episodio “maggiore” della strage, ma il vero soggetto del dipinto.
Sia ben chiaro, Crespi non è un vedutista. E la sua maniera veloce e pastosa, ricca di violenti contrasti luministici non ha nulla della limpidezza razionale della pittura di Van Wittel e Canaletto, attivi più o meno negli stessi anni a Roma e a Venezia. Ma il punto che qui ci interessa è un altro: in seno alla tradizione della grande pittura italiana, pittura di figura e di storia, Crespi declina l’attenzione alla superficie del mondo descritto come “sacrificio”, miniaturizzazione della narrazione evangelica. Ad altre latitudini, per esempio in Olanda e nelle Fiandre, il sacrificio è totale e coincide con la nascita della pittura di genere nelle sue diverse forme, tra le quali la veduta urbana.
Dalla città dipinta alla città fotografata: la città nelle incisioni
La veduta nasce in Italia come genere di esportazione, destinato ad una ristretta cerchia di artisti ed intellettuali stranieri che richiedono immagini tratte dal vero delle città visitate durante il Grand Tour. La sua straordinaria diffusione, dalla metà del Settecento, si deve tuttavia all’incisione e alla stampa litografica. All’unicum pittorico si sostituisce l’immagine incisa, riproducibile in molte copie, più adatta a soddisfare una domanda che nel frattempo è cresciuta in modo esponenziale.
A Bologna tra il 1775 e il 1883 la riproduzione grafica di strade e vicoli, piazze, monumenti, facciate di palazzi storici, cortili e canali è capillare: le incisioni di Pio Panfili e dei Basoli, tratte dai dipinti del più celebre fratello Antonio, circolano in volumi a stampa, e stabiliscono per molti anni, anche dopo l’avvento della fotografia, l’immagine canonica della città. Un’immagine rigorosamente prospettica, esatta nella trascrizione delle forme e dei dettagli architettonici, che approda al vero per sottrazione, liberando la rappresentazione degli effetti atmosferici e luministici della pittura a olio. Da questa immagine sostanzialmente astratta della città hanno origine le prime vedute fotografiche.
La città fotografata
Pietro Poppi, il più importante fotografo bolognese della seconda metà dell’800, abbandonati i pennelli, continua in parte a replicare il modello incisorio. Ma di quel residuo pittoricismo di superficie che si configura come la ricerca della “bella immagine” animata di figurette che compendiano i costumi e i tipi cittadini (il banchiere a passeggio con signora, la bancarella, la ragazza al pozzo, ecc.) e che è ancora presente in Panfili e in Basoli, così come nella pittura verista di fine secolo, nelle foto di Poppi c’è solo lieve traccia. La città fotografata è un repertorio di monumenti e luoghi notevoli isolati, immersi in una luce diffusa che annulla il contrasto chiaroscurale a favore della perfetta leggibilità dell’immagine. E la pittura? Rilancia: al realismo fotografico oppone una sorta di iperrealismo che depura la scena urbana di ogni casualità e colloca il dipinto nel tempo assoluto delle forme e non più in quello relativo della vita.
Tiziano Pagan de Paganis, Veduta della Chiesa di San Giacomo dall'alto, 1885. Bologna, Galleria d'Arte Moderna
La sfida della documentazione oggettiva della realtà urbana è vinta, e la scienza nuova della fotografia, anche grazie alla rapidità del progresso delle tecniche, può affacciarsi al Novecento con l’ambizione di conciliare la vocazione intellettuale della fotografia artistica con l’aspirazione a una più concreta e immediata rappresentazione della città nell’attualità del proprio tempo: non solo edifici solitari, ma strade e crocicchi affollati di persone – presenze, non più ritratti o tipi – oppure gli abbattimenti e le ricostruzioni post Piano Regolatore del 1889, o ancora gli sventramenti e le distruzioni della Seconda guerra mondiale, i luoghi e le forme del lavoro industriale. Il fotografo non punta più l’obiettivo sull’identità architettonica della città storica, ma sulla trasformazione urbanistica e sociale della città contemporanea.
Anonimo, Via Rizzoli dall'alto, Bologna circa 1900
Clicca qui per leggere un approfondimento sulla fotografia cittadina bolognese (da cinetecadibologna.it)
Crediti immagini:
Apertura: Antonio Basoli, Veduta di Piazza Maggiore, 1829-1830, olio su tela.
Box: Anonimo, Veduta di Piazza Maggiore, inizio XVIII secolo, olio su tela.
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