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La città di là dal vetro: fotografi italiani a confronto

La città secondo quattro grandi fotografi italiani. Gianni Berengo Gardin e Gabriele Basilico hanno scelto il bianco e nero per immortalare il paesaggio cittadino, mentre Franco Fontana e Luigi Ghirri hanno preferito concentrarsi sulle combinazioni dei colori nel tessuto urbano

Era il 1826 quando Joseph Niépce produsse la prima immagine fotografica permanente. Il soggetto di quel primo esperimento era la sua città vista dalla finestra del suo laboratorio. I tetti di Saint Loup de Varennes segnarono così l’inizio di un nuovo modo di guardare alle cose, di investigare la vita dell’uomo, le sue relazioni e il suo ambiente.

Vista dalla finestra a Le Gras, la più antica delle foto sopravvissute di Joseph Niépce (Wikipedia)

Sono naturalmente numerosissimi i fotografi che si sono, almeno una volta, confrontati con la città; ma ce ne sono alcuni che hanno scelto quella come soggetto principale della loro ricerca e l’hanno indagata a fondo, sia nel suo significato di area urbana fatta di architetture, strade, piazze e palazzi, sia nel più nascosto senso antropologico di insediamento umano. Fra questi ci sono quattro fotografi italiani, appartenenti a due diverse generazioni, che è necessario osservare più da vicino, per vedere come lo stesso oggetto possa essere guardato, e mostrato, in modi tanto diversi. C’è chi si sofferma sulle forme della città, chi sui suoi abitanti, chi ne osserva gli elementi architettonici e chi la guarda come teatro del passaggio della vita.  

Due generazioni a confronto

Gianni Berengo Gardin e Franco Fontana appartengono alla generazione degli anni ‘30, mentre Gabriele Basilico e Luigi Ghirri a quella della metà degli anni ‘40. E’ interessante e curioso notare come in entrambi i gruppi, così cronologicamente formati, uno dei due autori prediliga l’uso del bianco e nero e l’altro quello del colore, in modo così netto da farne una caratteristica di stile che li rende sempre riconoscibili. Ancora, si può notare come i due autori che scelgono il bianco e nero usino la macchina per regalarci racconti di vita, di uomini e di passioni, mentre i due che preferiscono il colore ci restituiscano immediatamente forme e visioni personalissime. Infine, non si può fare a meno di osservare una casuale coincidenza che vuole i due fotografi più anziani ancora in vita e i più giovani raccontati solo dalle loro immagini. Tutti e quattro questi autori, in ogni caso, sono in grado, come nessun altro, di dare vita a immagini potenti e attraenti, capaci di portarci ben oltre i confini geografici della città fotografata, alla ricerca di storie ed emozioni.  

Un racconto in bianco e nero

Il maestro italiano del reportage, Gianni Berengo Gardin (1930), è forse il più noto tra i nostri fotografi ancora in attività. Nelle sue immagini la città appare sempre e si presta come luogo e teatro delle storie di vita quotidiana che ci racconta. Il suo sguardo ricerca, documenta, immortala e tramanda spaccati di società, strade, piazze, gente qualunque, tanto che la sua si potrebbe definire una fotografia antropologica. Le immagini sono sempre reali, mai astratte, apparentemente frutto del caso ma in realtà profondamente pensate. Berengo Gardin fotografa solo in bianco e nero perché secondo lui “il colore distrae accentua particolari secondari”. Ama la lentezza, per sua stessa ammissione, si ferma a osservare, esaminare e riflettere prima di scattare, anche se qualche volta un po’ di fortuna non guasta, come quella che ebbe in uno dei suoi scatti più famosi, “Venezia in vaporetto” conservato al Moma di New York.

Clicca qui per vedere una bella intervista al fotografo nella quel spiega l’origine di alcune immagini immortali.

Una generazione più giovane, ma non per questo meno meritevole di attenzione, è quella di Gabriele Basilico (1944 – 2013), attento indagatore del paesaggio urbano, delle sue linee e dei suoi silenzi. Come Berengo Gardin, Basilico sceglie come arma privilegiata la fotografia in bianco e nero che utilizza per raccontare la vita di luoghi ai margini della città, dove non c’è traccia di passaggio umano ma che sono, comunque, densi e pieni delle storie di coloro che li attraversano. Basilico si avvicina al soggetto dell’immagine lentamente, con un’attenzione che gli permette di cogliere i minimi particolari e propone all’osservatore una contemplazione del paesaggio, delle forme degli edifici, delle linee e degli angoli, che dà modo di guardare la realtà da un punto di vista privilegiato. “Riflettendo a posteriori su tutti i miei viaggi – scrive nel libro Nelle altre città, del 1997 – mi sembra che una condizione costante sia stata l'attesa di ritrovare corrispondenze e analogie. Questo non significa che tutte le città debbano forzatamente assomigliarsi, ma significa che in tutte le città ci sono presenze, più o meno visibili, che si manifestano per chi le vuole vedere, presenze famigliari che consentono di affrontare lo smarrimento di fronte al nuovo”. Basilico vede nello spazio urbano, una vera e propria metafora della società, un luogo ricchissimo di indizi sulla vita contemporanea che merita di essere osservato con grande attenzione.  

In principio era il colore

Grande esploratore del paesaggio e attento indagatore dei limiti e delle possibilità del linguaggio fotografico, Franco Fontana (1933) è attratto dal tessuto urbano, dai suoi componenti architettonici, dalle stratificazioni della storia, dalla luce, dalle forme, dalle geometrie e dal colore. All’inizio degli anni sessanta comincia a fotografare da amatore e, fedelissimo alla fotografia a colori, si dedica da subito alla ricerca dalle geometrie, della composizione e delle campiture cromatiche che diventano, così, il suo marchio di fabbrica. “Il colore per me rappresenta la vita – ha detto Fontana in un'intervista a Nikon School – il pensiero, il cuore, la gioia. La fotografia è un atto di conoscenza, è possedere quello che senti. Usi l’esterno, usi il mondo, per significare quello che sei, che rappresenti”. La forma, per Fontana, è la chiave dell’esistenza e lui cerca di esprimerla fotografando lo spazio, in correlazione con le cose coinvolte in esso. Lo spazio non è ciò che contiene la cosa ma ciò che emerge in relazione alla cosa. Se Fontana si avvicina all’elemento che fotografa tanto da farci “entrare” nei particolari della città, Ghirri si allontana a volo d’uccello ma arriva a posare la sua, e la nostra, attenzione sui più piccoli dettagli: “Fotografare, per me, è come osservare il mondo in uno stato adolescenziale rinnova quotidianamente lo stupore; è una pratica che ribalta il motto dell'Ecclesiaste 'niente di nuovo sotto il sole'. La fotografia sembra ricordarci che 'non c'è niente di antico sotto il sole'”. Le immagini di Ghirri (1943-1992) hanno un che di magico, sono visioni conosciute e al tempo stesso stranianti, perturbanti, come direbbe Freud per spiegare quella strana sensazione che ci prende davanti a queste fotografie. Il suo sguardo, e il punto di vista che ci propone, sono assolutamente innovativi e anche l’uso che fa del colore è personale e stupefacente. Al contrario delle immagini nette e dalle tinte forti di Fontana, quelle di Ghirri hanno colori tenui e rarefatti, ma sono altrettanto in grado di mettere in evidenza particolari nascosti. Il suo è un uso sapiente delle possibilità della fotografia che ci aiuta a vedere l’invisibile. Qui di seguito ecco un video che racconta una grande mostra dedicata alla fotografia di Ghirri al MAXXI di Roma (dal canale You Tube del Museo MAXXI).

Potete trovare immagini dei quattro fotografi ai seguenti indirizzi: Berengo Gardin Agenzia Contrasto www.contrasto.it Fontana Fondazione fotografia www.fondazionefotografia.org Basilico Fondazione fotografia www.fondazionefotografia.org Studio la città www.studiolacitta.it Museo della fotografia contemporaneawww.mufoco.org/collezioni/fondo-gabriele-basilico Ghirri Fondazione fotografia www.fondazionefotografia.org Archivio Ghirri www.archivioluigighirri.it Galleria Matthew Markswww.matthewmarks.com

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