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In difesa del Giorno della Memoria

Il Giorno della Memoria rischia di essere solo una vuota celebrazione? Lo storico Gianni Sofri ne riconosce limiti e imperfezioni, ma difende anche l'utilità e l'importanza di un momento di profonda riflessione e studio della storia della Shoah. Che, però, non deve ridursi a mero rituale

L’uscita dal silenzio sulla Shoah Nel luglio 2000, su iniziativa di cinque parlamentari, appartenenti a diverse forze politiche, venne votata una legge che istituiva il Giorno della Memoria. I suoi due primi articoli recitano:

Art. 1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Art. 2. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all'articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell'Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere. […].

Grazie anche all’istituzione di quel Giorno, e alla diffusione di varie iniziative nelle scuole (e non solo), oggi gli italiani sanno mediamente molto di più della più grande tragedia del secolo scorso. Da questo punto di vista, quell’iniziativa parlamentare ha contribuito fortemente all’accelerarsi di un processo che aveva avuto inizio alcuni anni prima, dopo un lungo silenzio. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, infatti, la conoscenza della Shoah, dello sterminio cui erano andati incontro, nei campi organizzati dai nazisti, dai cinque ai sei milioni di ebrei (ma anche di rom, omosessuali, oppositori e deportati politici) aveva assai stentato a farsi strada nell’opinione comune. Erano sì usciti alcuni libri subito dopo il ritorno dei sopravvissuti dai Lager. In Francia Robert Antelme aveva pubblicato nel 1947 La specie umana (tradotto da Einaudi nel 1969). In Italia, già nel 1946 l’editore Ramella di Torino aveva pubblicato un volume intitolato Donne contro il mostro, che comprendeva due scritti di due autrici diverse: Venti mesi a Oswiecim (il nome polacco di Auschwitz) di Pelagia Lewinska e Ricordi della casa dei morti di Luciana Nissim Momigliano. Primo Levi aveva scritto poco dopo il suo ritorno, fra il 1945 e il 1946, Se questo è un uomo, che vari editori, tra cui Einaudi, rifiutarono, e che venne pubblicato nel 1947 da un piccolo editore torinese, Francesco De Silva. Malgrado avesse ottenuto recensioni favorevoli (tra cui una di Italo Calvino), quello che sarebbe diventato il libro più famoso sulla Shoah vendette pochissime copie e cadde per alcuni anni nel dimenticatoio. Avrebbe conosciuto il successo con la pubblicazione da parte di Einaudi soltanto nel 1958. Come si vede anche da questi pochi esempi, alcuni dei sopravvissuti raccontarono subito gli orrori delle vicende che avevano vissuto, ma incontrando poca attenzione e avendo a disposizione solo piccoli editori. La maggior parte di essi, comunque, preferì per molto tempo il silenzio, anche se la responsabilità di quest’ultimo (come ha sostenuto la storica Anna Bravo in un suo importante scritto recente) fu più degli studiosi che dei testimoni diretti dello sterminio, cui venne delegata la responsabilità del racconto e della memoria. Le ragioni di questo silenzio furono comunque molte e diverse. Possiamo indicarne alcune. Innanzitutto, l’interesse per lo scontro tra fascismo e antifascismo prevalse su quello della persecuzione degli ebrei in quanto tali, e il genocidio apparve come uno degli aspetti (e non il più tragicamente rilevante) della seconda guerra mondiale e della deportazione. La voce degli ebrei venne confusa in un unico coro con quelle degli altri prigionieri e perseguitati. Poche furono le eccezioni: fra queste, Primo Levi. Il quale, scrivendo già poco dopo la fine della guerra, scelse di non privilegiare antifascismo e Resistenza sulla Shoah, minimizzando la sua esperienza partigiana per mettere in primo piano la sua appartenenza all’ebraismo. Un altro caso, molto frequente, fu quello di molti sopravvissuti che temevano di non essere creduti, tale era l’efferatezza dei fatti che avrebbero dovuto raccontare: i nazisti stessi, del resto, avevano detto loro che non sarebbero mai stati creduti al loro ritorno. Altri tacevano per proteggere i loro cari dal trauma che il conoscere quell’efferatezza avrebbe provocato. Altri ancora, traumatizzati da quanto avevano subito, dalle leggi razziste in poi, temevano nuove aggressioni, malgrado la riconquistata libertà. Faceva inoltre parte delle loro aspirazioni quella di essere ritenuti uguali a tutti i cittadini, compresi i deportati non ebrei: quasi in un trepidante desiderio di tornare alla situazione assimilatrice (ancorché per tanti versi illusoria) che aveva preceduto l’avvio delle persecuzioni razziste vere e proprie. Per finire questo provvisorio elenco, gli stessi ebrei, come ha osservato Elena Loewenthal, non avvertivano l’essere stati vittime dell’Olocausto come una menzione d’onore, e quasi si vergognavano della loro esperienza, simboleggiata dal numero tatuato sul braccio. Ancora nel 1960 - lo ricorda Anna Bravo - si tenne a Torino un frequentatissimo corso di lezioni su Trent’anni di Storia d’Italia, nel quale parlarono storici illustri e non meno illustri “testimoni” politici. Nessuna delle lezioni era dedicata alle deportazioni e allo sterminio (lo avrebbe fatto l’anno dopo, in un analogo ciclo milanese, Piero Caleffi). Il grande mutamento, rispetto a questo lungo e mortificante silenzio, fu provocato dal processo Eichmann del 1961, che fu seguito su radio e giornali in tutto il mondo e che provocò poi una vasta letteratura memorialistica e filosofica (Hannah Arendt ne fu l’esempio più significativo). Vale la pena notare che la Francia ha conosciuto, sia pure con variazioni, una storia molto simile. Ce lo ricorda uno dei migliori studiosi (e anche divulgatori, nel senso più positivo del termine) della Shoah, Georges Bensoussan in una raccolta di scritti su L’eredità di Auschwitz . La memoria organizzata: viaggi, visite, informazioni, ricerche Un’ulteriore spinta alla memoria dell’antisemitismo, della Shoah, di Auschwitz è venuta dall’istituzione del Giorno della Memoria, le cui iniziative e manifestazioni, soprattutto a livello delle scuole e delle istituzioni civili (Parlamento, Regioni, Comuni), ma anche di associazioni, si sono poco per volta moltiplicate (anche eccessivamente, secondo qualche parere). Possiamo ricordarne solo qualcuna. Innanzitutto i viaggi organizzati ad Auschwitz o in altri campi, per gli studenti delle scuole: preparati, nei casi migliori, da lezioni e testimonianze.

Cliccando qui puoi vedere un video di RaiNews24 sull'incontro fra studenti e alcuni sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti

Più in generale, visite ai luoghi ebraici: ex-ghetti, sinagoghe, ma anche musei (ce ne sono di importanti e anche didatticamente ben organizzati in diverse città). Ricordando sempre che comunità di rilievo si sono sviluppate in passato non solo nelle città maggiori, ma anche in paesi (come Pitigliano), che ne conservano tracce assai interessanti. E accanto ai musei, numerose mostre, sulla Shoah in generale, ma anche sulle leggi razziste, sull’ebraismo e sull’antisemitismo nel corso della storia. E per ricordare le vittime, cerimonie e discorsi ufficiali, omaggi alle lapidi che ricordano momenti drammaticamente significativi della persecuzione degli ebrei, ma anche dei rom, degli omosessuali, dei deportati militari e civili. Non sono mancati gli spettacoli teatrali o i film (da ricordare particolarmente Train de vie per la rara capacità di unire con levità serietà e umorismo nel raccontare una tragedia terribile). Ci sono poi le storie delle persone, da quella di Anne Frank, che ha praticamente segnato un’epoca ed è diventata un simbolo, a quella di Etty Hillesum, di scoperta più recente, fino a personaggi provenienti dagli ambienti e dalle vicende più diverse. Si pensi ad Arpad Weisz, allenatore di calcio ungherese, immigrato in Italia, dove vinse scudetti con il Bologna e con l’Ambrosiana-Internazionale di Milano per essere poi costretto dalle leggi razziste ad abbandonare il paese e rifugiarsi in Olanda: dove però lo avrebbero arrestato i nazisti per portarlo a morire ad Auschwitz con tutta la sua famiglia. Ma ci sono, soprattutto, i testimoni. In buona parte dei casi, il momento più significativo del Giorno della memoria è stato l’incontro, sempre emozionante, di un sopravvissuto ai Lager con gli studenti delle scuole medie, superiori e non solo. Incontri che hanno potuto dare il senso concreto di quella vicenda nei suoi aspetti generali, ma anche nel vissuto di chi ne è stato suo malgrado protagonista. Incontriamo qui una delle prime difficoltà, e delle più gravi: ed è l’anagrafe, con il passare del tempo, a provocarla e quasi ad imporla. Ragioni naturali assottigliano di anno in anno il numero delle persone in grado di esercitare questo ruolo e richiedono lo studio di nuove soluzioni. Non tutti sono d’accordo Tocchiamo qui per la prima volta il tema delle difficoltà e delle obiezioni al Giorno della Memoria, che nel corso degli anni sono state avanzate da più parti (per esempio dallo scrittore Alessandro Piperno), ma che hanno trovato una sistemazione e insieme una radicalizzazione in un pamphlet di Elena Loewenthal, Contro il Giorno della Memoria, pubblicato nel 2013. Le ragioni principali che Loewenthal espone sono due, fra loro collegate. La prima è che il Giorno della memoria si sarebbe trasformato, nel corso degli anni, in una sorta di duplicato del giorno dei morti, come un postumo atto di omaggio alle vittime. La seconda è costituita da una forte avversione dell’autrice all’accostamento fra Auschwitz e gli ebrei, nel senso che il ricordo del genocidio tende ad accompagnarsi a una curiosità per il mondo ebraico, a volte più imposta che sentita: come se si volesse pagare il conto di un rimorso, liberandosene. Così, il Giorno della Memoria diviene l’occasione per apprendere, in una sorta di sintesi, le tradizioni, la religione, gli usi e costumi dell’ebraismo. In realtà, questo accostamento turba profondamente Loewenthal, perché Auschwitz simboleggia la distruzione e la morte, e cioè proprio la negazione dell’identità ebraica. Inoltre, l’accostamento mette in primo piano l’essenza dell’ebraismo, e magari anche dell’antisemitismo, ma non le persone concrete, i nomi e cognomi, le vite vissute e troncate. E allo stesso tempo, facendo degli ebrei i protagonisti della giornata, eviterebbe alle coscienze dei non ebrei, italiani ed europei, di ripensare le proprie colpe, di capire che la Shoah è un problema “nostro”, non degli ebrei, di dimenticare, o fingere di farlo, che “il terreno su cui poggia la storia d’Europa e noi stessi è un cimitero”. Ma le obiezioni di Loewenthal non si fermano qui. La rinuncia a studiare la Shoah come un capitolo della propria storia si accompagna non solo alla volontà di risarcire le vittime dello sterminio pacificando la propria coscienza, ma anche a una sorta di postuma santificazione degli ebrei che serve solo (e qui Loewenthal riprende pensieri già espressi da Bensoussan e Piperno) a contrapporre un mondo ebraico divenuto impersonale e idealizzato, a una riconquistata aggressività e capacità di difendersi. In altre parole, lo stato di Israele finisce per rappresentare il tradimento delle “buone” vittime dello sterminio: fino a indurre l’ignobile equazione fra l’esercito israeliano (Tsahal) e i nazisti. L’autrice si sofferma perfino sul rischio che un eccesso dell’attenzione portata sul mondo ebraico e sulle sue persecuzioni possa finire col nutrire il rinascente antisemitismo europeo (e non solo: si pensi a una parte consistente del mondo musulmano). In definitiva, gli ebrei dovrebbero rinnegare la memoria e la celebrazione della Shoah, che non appartiene a loro, ma alla società e alla cultura europee, che l’hanno generata. E ancora, riprendendo il vecchio ma sempre attuale tema della “unicità” della Shoah, Loewenthal si oppone ad ogni tendenza a fare del concetto di genocidio un criterio interpretativo di molte realtà, da quella armena a quelle cambogiana e ruandese, ed altre ancora.

Un'opinione critica sul Giorno della Memoria è anche quella espressa dalla scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta alla Shoah, che potete trovare cliccando qui nella prima parte della videointervista che Bruck ha rilasciato all'Aula di Lettere

Una difesa problematica (ma che si spera costruttiva) Quanto e come possiamo tener conto di questi rilievi che così radicalmente si oppongono al Giorno della memoria? Possiamo solo tentare, quanto meno in questa sede, qualche risposta problematica. Una prima questione riguarda quanto gli ebrei sentano come proprio il Giorno della memoria e quanto invece, come scrive Loewenthal, vedano in esso una ferita che si riapre inutilmente, dal momento che la storia della Shoah è per loro una presenza continua, viva e luttuosa. È un problema aperto, cui è molto difficile dare una risposta. Tuttavia, non so quanti tra i membri della comunità ebraica italiana rinuncerebbero volentieri a questa giornata pur dolorosa e piena di contraddizioni. Va denunciata, ovviamente, ogni tentazione di vedere nel Giorno della memoria un risarcimento per le vittime e un alibi per se stessi; è tuttavia difficile rinunciare al ricordo delle vittime, a ridare loro almeno un nome, come del resto auspica anche Loewenthal. Lo Yad Vashem, o Museo dell’Olocausto, di Gerusalemme è il memoriale ufficiale delle vittime ebree della Shoah, fondato nel 1953 grazie a una legge del Parlamento israeliano. Esso comprende, fra l’altro, una “Sala dei nomi” nella quale sono ricordate con i loro nomi (e se possibile con altri dati biografici) tutte le vittime ebree della Shoah che un’accurata ricerca ha permesso di individuare. Loewenthal ha ragione: è importante che i non ebrei pensino e vivano la Shoah e l’antisemitismo in genere come un problema proprio, e non degli ebrei. Del resto, fin dall’inizio, il Giorno della Memoria fu pensato (più di ogni altro da Tullia Zevi) come un’occasione di meditare non solo sulla Shoah ma anche sulla storia d’Italia: di ricordare, da un lato, l’essenziale complicità del fascismo; dall’altro, anche i molti perseguitati non ebrei. Vanno, sì, celebrati e onorati i Giusti, ma non vanno dimenticati neppure i non pochi italiani che denunziarono ebrei, di fatto condannandoli alla più terribile delle pene, e quelli che esercitarono in prima persona la persecuzione, collaborando con i nazisti. Si esprime spesso, e giustamente, la preoccupazione che anche la memoria della Shoah, relegata in “giornate” ad essa dedicate, rischi di trasformarsi, come altre celebrazioni, in rituale stanco e abitudinario, privo di quella forza reale che dovrebbe farne un momento di meditazione e di pedagogia civile. Penso che sia giusto coltivare questa preoccupazione, ma senza cedere ad essa. Intanto, perché il ricordo è doveroso. Anche se i milioni di vittime, le grandi cifre, portando con sé qualcosa di arido e di orridamente contabile, sono di ostacolo alla commozione, mai va dimenticato che quella grande tragedia collettiva fu la somma di tante dolorose, terribili tragedie individuali, di vite anche giovani e giovanissime spezzate, spesso dopo tante inenarrabili sofferenze, violenze, torture. Quelle vite meritano quanto meno il pur pallido risarcimento del ricordo. E ancora, sarebbe forse fondata la preoccupazione di un rituale abitudinario se parlassimo solo di un capitolo di storia, drammatico sì, ma che si allontana nel tempo, e che il tempo fatalmente archivia, come fa con tutte le umane vicende. Parliamo invece di un problema vivo, di un cancro che è ancora fra noi, e che non solo ha gettato un’ombra indelebile sulla nostra civiltà, di noi europei, ma tuttora la minaccia. Lo testimoniano i successi crescenti di partiti neonazisti, antieuropei e simili in più paesi, dall’Ungheria alla Polonia ad alcuni paesi scandinavi (neppure noi, del resto, ne siamo immuni); le aggressioni sempre più frequenti anche in paesi come la Francia; i sondaggi che mostrano come la memoria del passato tenda a scomparire, soprattutto fra i giovani. Questa rinascita dell’antisemitismo si maschera spesso di antisionismo e si spinge fino ad auspicare, quando non a minacciare la stessa fine di Israele. È un fenomeno assai preoccupante, che occorre combattere su ogni terreno della cultura e della politica, ma che richiede soprattutto che non si rinunci a coltivare il ricordo del passato. La prudenza è e rimane una grande virtù. Tuttavia essa non può spingersi fino a rinunciare a memorie, riti e celebrazioni che hanno in sé un valore indiscutibile. Giustamente Loewenthal sostiene che la cognizione del male non è un vaccino. In altre parole, la conoscenza della storia non ci mette al riparo, da sé sola, dal ripetersi degli orrori. Nessuna sconfitta del Male può considerarsi più che temporanea. Ma questo non ci esime dal coltivare lo studio e il ricordo del passato nella speranza che questo ci aiuti a non riviverne gli aspetti peggiori. Analogamente, non riesco a vedere nulla di male, neppure dal punto di vista per tanti versi apprezzabile di Loewenthal, nel fatto che il Giorno della Memoria sia diventato occasione per la prima volta di una conoscenza della storia, della cultura, delle tradizioni del popolo ebraico, prendendo finalmente il posto che fu occupato per secoli dalla menzogna, dal disprezzo, dalla superstizione: nella migliore delle ipotesi dagli stereotipi. Studiare la storia del popolo ebraico, a partire dalle epoche più antiche per arrivare ai nostri giorni, inserendola nel contesto più ampio della storia generale, è anche una risposta alla giusta richiesta ai “gentili” di puntare l’obiettivo su se stessi, sia prendendo coscienza fino in fondo della propria storia e degli orrori di lei, sia entrando concretamente nell’esperienza tutta moderna e necessaria della comprensione dell’Altro. Da questo punto di vista, non si potrebbe mai sopravvalutare l’importanza delle tante opere che gli studiosi (e i testimoni) hanno prodotto, preziose per gli insegnanti e spesso per gli stessi studenti. I primi potranno trovare un grande aiuto nei 6 volumi finora usciti (tradotti e commentati proprio da Loewenthal) dell’opera monumentale di Louis Ginzberg sulle Leggende degli ebrei, mentre abbondano le sintesi, rivolte proprio ai ragazzi, sulla storia della Shoah (si possono ricordare, solo per fare un esempio, le chiare e dense 25 pagine di “Breve storia dello sterminio” del già citato Bensoussan nel suo libro su L’eredità di Auschwitz). Molte altre importanti opere sono dedicate al contributo dell’ebraismo alla nascita del mondo moderno e alla sua cultura. Né meno importante è la diffusione di autori di narrativa come i fratelli Singer o come gli scrittori ebrei americani e quelli israeliani: tutti e sempre creatori e testimoni insieme. La stessa cosa si potrebbe dire del mondo del cinema, per fare solo un altro esempio. Dopo il suo ritorno da Auschwitz, Primo Levi dedicò tutti gli anni che gli rimasero a ricostruire la vita nel Lager. Il suo problema principale era quello della verità, per la quale nutriva un vero e proprio culto. Questo lo portava ad esigere con grande decisione da tutti i testimoni, narratori, sopravvissuti dai Lager (a cominciare da se stesso) di non fidarsi (o non soltanto) della propria memoria, ma di cercare sempre riscontri nei documenti e nelle altrui testimonianze. Questo rigore, che faceva di Primo Levi non solo un narratore, ma anche un ricercatore e uno storico, gli permise, soprattutto in uno dei suoi ultimi libri, I sommersi e i salvati (che si può considerare il suo frutto più maturo), di descrivere la complessità sociologica della popolazione del Lager. Primo Levi era mosso dalla convinzione che uno degli aspetti più orrendi della vita nei luoghi dello sterminio fosse rappresentato dal tentativo di disumanizzazione delle stesse vittime. Tentativo che si fondava sul creare divisioni tra i prigionieri, sull’offrire privilegi ad alcuni di loro, sul creare cioè quella che Levi ha chiamato una “zona grigia”, nella quale si complicavano i rapporti tra persecutori e vittime. Levi rifiutava facili giudizi moralistici, soprattutto da parte di chi non avesse conosciuto l’esperienza del Lager. Non aveva però dubbi riguardo al fondo del problema: “[…] so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, […] e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità”. Senza timore di impopolarità e polemiche, Levi reagiva alle versioni semplificate e melodrammatiche della Shoah. Anche in un fenomeno estremo come la vita nel Lager, la verità occupava ai suoi occhi il ruolo più importante. Secca e nuda, senza orpelli retorici, la verità era capace più di ogni altra cosa di mostrare l’orrore. È abbastanza ovvio che il passo iniziale di un percorso di comprensione della Shoah a scuola debba avere, prima di ogni altro compito, quello di fornire le basi essenziali di un capitolo così tragico della storia dell’umanità. Ma questo non vuol dire precludere all’insegnamento scolastico valori storici e morali come quelli che derivano dalla grande e sofferta ricerca di Levi. Un altro problema molto importante è quello che va sotto il nome della “unicità” della Shoah. Nessuna voce che si rispetti potrebbe mai levarsi a contestare questa che è ormai una consolidata conquista (eccezion fatta soltanto per neonazisti, negazionisti e simili). E questo, non, come molti credono, per aspetti numerici (le dimensioni del genocidio), ma per quelle che sono le sue caratteristiche più rilevanti: dall’identificazione di un popolo in quanto tale come obiettivo, a prescindere da idee e conflitti politici, fino all’uso più sofisticato della modernità tecnologica. Ma dopo che si sia detto e ribadito questo, rimane il fatto che l’ultimo secolo e mezzo ci ha fatto assistere a una serie impressionante di massacri e genocidi di popolazioni in più parti del mondo. Lo sterminio degli armeni ha preceduto quello degli ebrei e ne è stato per qualche verso il modello (la stessa cosa si potrebbe dire per alcune almeno delle iniziative politico-militari di inglesi e tedeschi nell’Africa meridionale tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento). Mi ha colpito, di recente, leggere una breve frase di Anna Morpurgo pronunciata a Oxford, in occasione del Holocaust Memorial Day del 2005: “Potrebbe accadere ancora. In effetti, dopo di allora ci sono stati dei genocidi.”. Si discute ancora, come è noto, sui concetti di genocidio, massacro, pulizia etnica. Ciò non toglie che esista una vasta serie di libri intitolati Il secolo dei genocidi o simili, che partono dagli armeni per poi dedicarsi alla carestia ucraina del 1932-33, alla Cambogia dei Khmer, a Srebrenica, al Ruanda, al Congo (teatro, quest’ultimo, di un massacro pressoché ininterrotto dall’Ottocento ad oggi). Perché dovremmo trovare scandaloso, o vedere minacciata l’unicità della Shoah se si approfittasse nel Giorno della Memoria di una meditazione sulla storia, sulla nostra storia, come Loewenthal giustamente auspica, che sia capace di mettere in evidenza gli orrori di cui i nostri antenati, nemmeno tanto lontani, sono stati responsabili; e perché non ricordare anche altri orrori e altre responsabilità, non sempre riconducibili all’ “uomo bianco”? Intravvedo quindi molte ragioni per difendere il Giorno della Memoria. Così come ne intravvedo altrettante per criticare il modo in cui si svolge. La sua crescente, distratta ritualità. Il sonnolento succedersi di interventi ufficiali invariabilmente uguali, la rinuncia a farne occasione vera di studio e di discussione, perdendo così un’occasione straordinaria e soprattutto dando ai ragazzi (non sempre, ma in molte occasioni) il deplorevole esempio di un uso spregiudicato o addirittura cinico dei temi più sacri. Ci incontriamo qui con una responsabilità generale, che va dalla politica alla scuola. Si è letto tante volte che non dovrebbe esserci un Giorno della Memoria, ma che la memoria dovrebbe impregnare di sé tutti i giorni che Dio manda in terra. Ma se volessimo davvero trarre conseguenze efficaci dai temi che abbiamo qui elencato, non dovremmo parlarne solo, spesso in polemiche fittizie e di scarsa utilità pratica, nei giorni immediatamente precedenti il 27 gennaio. Per poi dimenticarcene fino all’anno dopo.  

Nota Non abbiamo voluto appesantire questo testo con delle note bibliografiche vere e proprie, ma solo fornire indicazioni su alcuni libri citati, laddove non fossero ricordati l’editore o il titolo completo. Abbiamo aggiunto qualche altro suggerimento (senza alcuna pretesa di completezza): le bibliografie sui temi qui trattati non mancano e sono facilmente reperibili dagli Insegnanti (anche consultando studiosi presenti nelle loro città). In qualche caso abbiamo sciolto in questa sede qualche allusione che poteva risultare poco chiara ad alcuni dei lettori del solo testo. Qualcuno potrebbe trovare un po’ disordinato questo insieme di note. In realtà, abbiamo voluto seguire l’ordine nel quale i vari nomi e temi appaiono nel testo.Il saggio di Anna Bravo più volte citato si intitola Raccontare per la storia, ed è pubblicato da Einaudi per il Centro internazionale di studi Primo Levi nel 2014. Il volume è presentato in forma bilingue (inglese e italiano) e completato da una appendice di scritti di Primo Levi e di altri autori. Lo stesso Centro che porta il nome di Primo Levi ha pubblicato all’inizio del 2015, sempre presso Einaudi, un prezioso volume a cura di Fabio Levi e Domenico Scarpa: Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986 (con Leonardo De Benedetti). Sono qui raccolti scritti anche inediti, relazioni, appunti e deposizioni a processi che sono poi almeno in parte confluiti nelle più note opere di Levi (da questo punto di vista, rappresentano una testimonianza straordinaria di un lavoro appassionato e dolente, pluridecennale, di Levi e del suo amico De Benedetti, anch’egli sopravvissuto ad Auschwitz). Le lezioni sulla storia d’Italia di Torino e Milano (1960, 1961) vennero pubblicate, rispettivamente, da Einaudi e da Feltrinelli. Hannah Arendt seguì personalmente il processo ad Eichmann, lo raccontò e ne discusse in un importante libro (che fu a sua volta oggetto di numerose discussioni), intitolato La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963, attualmente reperibile in italiano nelle edizioni Feltrinelli).Il libro di Georges Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?, pubblicato a Parigi nel 1998, è stato tradotto da Einaudi nel 2002. I libri di Etty Hillesum (Diario 1941-1942 e Lettere 1941-1943) sono stati pubblicati in edizione integrale in italiano da Adelphi, rispettivamente, nel 2012 e nel 2013. La storia dell’allenatore di calcio Arpad Weisz è stata raccontata da Matteo Marani in Dallo scudetto ad Auschwitz (Aliberti Editore, 2007). Contro il Giorno della Memoria di Elena Loewenthal è pubblicato da add editore nel 2014. Quanto a Piperno, ha parlato di questo tema nel “Corriere della Sera” del 21 gennaio 2006. Le Leggende degli ebrei di Louis Ginzberg, pubblicate fra il 1909 e il 1928, sono tradotte in italiano, a cura di Elena Loewenthal, da Adelphi (ne sono usciti finora 5 volumi sui 7 complessivi dell’opera). Di recente, alcuni storici come Carlo Ginzburg e Anna Bravo hanno ripreso la tematica della “zona grigia”, anche per opporsi all’affermarsi di questo concetto in molti settori del linguaggio comune, ma al prezzo della perdita della sua forza interpretativa e del suo trasformarsi in una specie di “liberi tutti” dalle responsabilità del passato. Oltre al saggio già citato di Bravo, si veda Carlo Ginzburg, Calvino, Manzoni e la zona grigia, pubblicato on line a cura del già ricordato Centro Primo Levi: (http://www.primolevi.it/@api/deki/files/1227/=MAUSC_000013.pdf). Il discorso di Anna Morpurgo (Holocaust memories from Italy, 2005) si trova anch’esso on line: (http://www.some.ox.ac.uk/cms/files/Professor%20Anna%20Morpurgo%20Davies_Holocaust%20Memorial%20Day%20address.pdf) Tullia Zevi (1919-2011), giornalista e scrittrice ebrea, antifascista, fu per molti anni, a partire dal 1983, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane. Sulla partecipazione di italiani alla persecuzione antiebraica e alla Shoah, si veda ora Simon Levis Sullam, I carnefici italiani (Feltrinelli). Ma non va dimenticato che ci furono anche molti italiani non ebrei che aiutarono degli ebrei a salvarsi, meritando così un albero che li ricorda nel “Giardino dei Giusti” di Gerusalemme. Si veda: Israel Gutman, Liliana Picciotto, Bracha Rivlin, I Giusti d'Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei. 1943-1945 (Mondadori). Più in generale, Gabriele Nissim, Il tribunale del bene. La storia di Moshe Bejski, l’uomo che creò il Giardino dei giusti, (Mondadori). Tra la vasta letteratura sui genocidi del Novecento ci limitiamo a ricordare: Samantha Power, Voci dall’inferno. L’America e l’era del genocidio (Baldini Castoldi Dalai Editore); Robert Gellately – Ben Kiernan, Il secolo del genocidio (Longanesi); Bernard Bruneteau, Il secolo dei genocidi (il Mulino). La letteratura del Novecento è ricca di scrittori ebrei, sia israeliani, sia nordamericani o di altri paesi. Tra i primi ricordiamo Sh. Y. Agnon, Amos Oz, David Grossman, Abraham Yehoshua; tra i nordamericani, B. Malamud, S. Bellow, Ph. Roth (in entrambi i casi, con moltissimi altri). Un caso molto particolare è rappresentato dal più noto dei fratelli Singer, Isaac Bashevis, il quale cominciò la sua carriera di scrittore nella natia Polonia descrivendo in una serie di romanzi e racconti l’ebraismo dello shtetl, cioè dei villaggi dell’Europa centro-settentrionale (Polonia, Lituania, Ucraina): la vasta regione nella quale si sviluppò la grande cultura degli ebrei Ashkenaziti, destinata a scomparire quasi del tutto con la Shoah. In seguito, emigrato negli Stati Uniti, continuò a scrivere soprattutto in yiddish, la sua lingua originaria, ma descrivendo ora il mondo dell’emigrazione ebraica in America. Considerazioni analoghe si possono fare per il cinema ebraico, che ha dato frutti importanti sia in Israele sia, soprattutto, negli Stati Uniti. Di Hollywood, in particolare, si può dire che sia stata in buona parte una creazione di produttori e registi ebrei, in buona parte rifugiatisi negli Stati Uniti dall’Europa. Tra i registi ebrei (e in alcuni casi anche attori) si possono ricordare, tra i più lontani nel tempo, i fratelli Marx e il grande Ernst Lubitsch; più tardi Billy Wilder, Steven Spielberg, Stanley Kubrick, i fratelli Cohen e Woody Allen.

Immagine di apertura: "se questo è un uomo", di fedewild (via flickr – CC BY-SA 2.0) Immagine per il box: "Indoor view of view of barracks #2 - Auschwitz-Birkenau - Per non dimenticare..." di Simone Onofri (via flickr -CC BY 2.0)

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