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Due questioni di base…
Il ruolo dell’insegnamento del latino nel dibattito, non esente da punte accese e da strumentalizzazioni ideologiche, che ha accompagnato le varie riforme della scuola italiana o di suoi aspetti (l’esame di maturità) dimostra la centralità di questa materia nella nostra tradizione sia scolastica che, più largamente, culturale. D’altra parte, la domanda da parte di genitori e ragazzi è sempre la stessa: che senso ha investire tempo e fatica nello studio di una lingua che non serve a comunicare e, dunque, non serve a niente? Elitario, insensatamente difficile, inutile, il latino, e il liceo classico con lui, è finito alla lettera sul banco degli imputati (Cardinale/Sinigaglia 2016): da una parte in base ad accuse, retaggio degli anni Sessanta e del dibattito sulla sua presenza nelle medie inferiori, di essere uno strumento di discriminazione classista e di selezione della futura classe dirigente (e le pagine ‘militanti’ di grandi maestri quali Concetto Marchesi e Antonio La Penna seppure palesemente anacronistiche rimangono una lettura coinvolgente per altezza di pensiero e passione civile), dall’altra, ciò che appare oggi il nocciolo del problema, di essere uno strumento inadeguato, e addirittura di ostacolo, rispetto alle sempre nuove sfide della contemporaneità.… e due risposte possibili
La risposta alla prima obiezione è quasi ovvia: ammesso che sia ancora un mezzo di accesso al potere, lo studio liceale nella scuola pubblica è aperto a tutti e costituisce dunque una via di emancipazione che sarebbe un controsenso semplificare e alleggerire, con il risultato quasi automatico di squalificarla (chiara argomentazione e ricchissima documentazione sulla questione in Condello 2018, dall’eloquente titolo La scuola giusta). La risposta alla seconda si aggancia alla dimensione del tempo che ritorna non a caso, insieme al concetto di ‘utilità’, nei titoli di importanti volumi che prendono il toro per le corna (Disegnare il futuro con intelligenza antica, Canfora/Cardinale 2012; Il presente non basta, Dionigi 2016): tempo storico, di un presente che sempre di più sfugge al rapporto con il passato e dunque con il futuro, e tempo individuale, da dedicare a studio e assimilazione di una materia complessa, sottraendolo ad altre più attraenti occupazioni e in pieno contrasto con velocità e fluidità che caratterizzano il nuovo millennio. Se la prima dimensione è legata alla portata enorme che il latino riveste specificamente per la lingua e la cultura italiane ed europee, sulla seconda è illuminante l’aggancio delle materie umanistiche (intese nel senso molto ampio delle discipline curiosity driven) ai principi delle neuroscienze illustrato da Maffei 2014, nel suo splendido elogio del ‘pensiero lento’ basato sul fatto che “il cervello è una macchina lenta”. Rientra così dalla finestra quel carattere naturaliter formativo del latino che a un certo punto era apparso un mito sul viale del tramonto. L’assimilazione del latino, faticosa, progressiva e che richiede concentrazione, memoria e volontà, l’attività ragionata di traduzione, la riflessione sull’etimologia e sul lessico, se ben impostate, hanno ricadute positive non solo sul metodo di studio nella successiva fase universitaria (qualsiasi siano le scelte specifiche), ma sulla gestione della comunicazione, del controllo delle informazioni (oggi veloci e accessibili quanto prive di filtri), del trasferimento e dialogo fra culture. Insomma, se il latino non viene più riconosciuto quale via maestra di ascesa sociale, come negli anni Sessanta del secolo scorso, esso conduce, insieme ad altre materie ‘inutili’, all’affinamento e potenziamento di competenze quali capacità di analisi, selezione e verifica del linguaggio e del suo rapporto con la realtà: dunque a saper valutare, decidere e agire o reagire in modo più fondato e consapevole.Principi condivisi
“Io non stimo e non considero un bene gli studi che conducono a un guadagno: arti venali, utili se esercitano la mente, non se la occupano del tutto”. Non è una frase di Gramsci, che pure nei Quaderni dal carcere espresse un concetto simile (“… lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati”), o di Salvemini, dal quale fra l’altro viene la definizione virgolettata nel titolo, ma l’inizio della LXXXVIII Lettera a Lucilio di Seneca. In base a questo principio largamente condiviso si sono mossi i defensores del latino: l’ambizione della scuola dovrebbe essere formare un individuo critico e consapevole prima che un lavoratore specializzato in un numero limitato di mansioni. Da ciò la superiorità dei saperi teorici sulle materie tecnologiche, traducibili col bilancino in ‘crediti’ e immediatamente spendibili, come si dice oggi, sul mercato del lavoro. È chiaro a questo punto che la battaglia vera non si combatte fra latino e resto del mondo, né fra materie umanistiche e scientifiche, ma fra ‘sapere’ e ‘saper fare’: sono gli studi umanistici intesi in senso molto ampio a dover far fronte comune contro, per usare uno slogan di qualche anno fa, “le tre i”. È questa la provocazione di Maffei 2014 e improntata a questo principio è l’arringa con cui Umberto Eco conclude il Processo al liceo classico, auspicando al contempo un profondo rinnovamento dei metodi didattici: “Sto pensando alla nascita di un liceo umanistico-scientifico. Adriano Olivetti assumeva ingegneri e geni dell’informatica, ma assumeva anche chi avesse fatto una tesi su Machiavelli o Senofonte, perché riteneva che, se una educazione scientifica serviva per inventare lo hardware, per inventare del software era utile una mente educata sulle avventure della creatività.”Lingua contro cultura: l’alternativa impossibile
A partire da questi valori di base si sono sviluppate posizioni molto diverse fra loro, che hanno dato la preminenza nel contesto scolastico allo studio della lingua latina o in alternativa a quello di cultura e civiltà romane. L’attenzione alla cultura prima che alla lingua ha dalla sua l’articolo 9 della nostra Costituzione, che prescrive di “tutelare il patrimonio artistico e storico della nazione”, nel quale è enormemente presente il mondo antico come ‘memoria culturale’. E ha dalla sua la maggiore accessibilità di una proposta svincolata da strumenti didattici sentiti come invecchiati e punitivi (la versione). Contro questa linea, portata avanti specialmente da studiosi di antropologia del mondo antico fra i quali spicca Maurizio Bettini, si sono levate con decisione molte voci. Punti di forza di questa posizione sono il legame del latino con l’italiano e l’utilità di ordine logico e metodologico: argomenti sì tradizionali ma che, in quanto non dati più per scontati (grazie anche alla provocazione di marca antropologica), sono stati ripensati e quasi rifondati alla luce di riflessioni e necessità contemporanee. La centralità dello studio della lingua ne è uscita rinsaldata evidenziando al contempo il ruolo complesso del latino come espressione di cultura e civiltà, e ciò in relazione sia al mondo romano che al nostro rapporto con esso.In concreto: quid faciamus?
Il dibattito ora tracciato ha catalizzato e messo a sistema varie proposte e spunti che andavano emergendo del resto già da diversi anni e che si stanno rivelando molto utili per ripensare e arricchire la prassi didattica. Ne elenco tre.- L’attenzione al lessico e all’etimologia. Importante per ampliare il vocabolario italiano, rendersi conto del significato delle parole, riflettendo sulla differenza fra ‘falsi amici’ (crimen, fides, religio, reus, virtus) spesso legati ai cosidetti ‘valori ideali’ e sui reimporti dall’inglese (escort, fiction, media), su sfumature di significato (la differenza fra urbs e civitas), su sinonimi che l’italiano ha cancellato (oltre al famoso caso dei nomi di parentela, funziona molto in classe l’esempio di osculum vs. savium, se collegato al valore di prestigio sociale attribuito a Roma al bacio di saluto). Fra l’altro, semplici analisi semantiche e piccole ‘storie di parole’ possono essere introdotte fin dai rudimenti dell’apprendimento (Pieri 2005), suggerendo da subito il senso culturale dello studio del latino e rendendolo meno arido e meccanico.
- Una maggiore e più larga consapevolezza del senso del tra-durre come attività insieme logica e culturale strettamente legata al ‘mobilitare il cervello’ (espressione di Luciano Canfora che adotto volentieri in sostituzione dell’ormai onnipresente problem solving). Lo stesso uso del dizionario, da più parti messo in discussione, può trovare un ruolo positivo se presentato come un allenamento a selezionare gli elementi utili a partire da una grande quantità di materiali. La complessità e importanza sul piano cognitivo dell’esercizio traduttivo è del resto un tema di studio delle neuroscienze, dalle quali si attende nei prossimi anni un apporto sempre più consistente alle riflessioni sulla didattica e specialmente sulla didattica delle lingue.
- L’elaborazione di altre modalità di esercizio linguistico a fianco della classica versione, quest’ultima arricchita di note di contesto e quesiti di commento (la nuova seconda prova della maturità). Penso ad esempio alle tipologie messe a punto nell’ambito della Certificazione linguistica del latino, avviata fin dal 2012 e attiva ormai in numerose regioni (molti materiali sono reperibili online, ma ora si può vedere De Paolis 2021): esercizi da svolgere rigorosamente senza dizionario, a risposta chiusa, di comprensione, completamento, scelta a partire dal solo latino, e che presentano la comodità di potersi gestire interamente per via informatica.