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Storia di oggi

Schengen (aprile 2016)

Siglati nel 1985 e poi perfezionati ed estesi negli anni successivi, costituiscono una delle acquisizioni più significative del processo di integrazione europea. Oggi tuttavia, sotto la pressione di una crisi migratoria senza precedenti e di altri inquietanti fenomeni quali in primo luogo la minaccia del terrorismo jihadista
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Gli accordi di Schengen, siglati per la prima volta nel 1985 e poi perfezionati ed estesi negli anni successivi, costituiscono una delle acquisizioni più significative del processo di integrazione europea. Sia pure con alcuni limiti, essi hanno eliminato i controlli alle frontiere tra gli Stati membri dell’UE creando una vasta zona di libera circolazione delle persone che coincide – tolte alcune importanti eccezioni – con i confini stessi dell’Unione. Nel contempo hanno progressivamente definito una nuova e assai problematica «frontiera esterna» europea, che da qualche tempo è esposta a crescenti tensioni. Insieme all’introduzione dell’euro, la moneta unica europea, la costruzione del  cosiddetto «spazio Schengen» è stata senz’altro uno dei frutti più tangibili e concreti della spinta all’unificazione del vecchio Continente. Oggi tuttavia, sotto la pressione di una crisi migratoria senza precedenti e di altri inquietanti fenomeni quali in primo luogo la minaccia del terrorismo jihadista, quello «spazio» sta rischiando di frantumarsi in un vero e proprio ritorno alla difesa delle frontiere e degli egoismi nazionali.
I paesi europei in cui è attualmente in vigore l'accordo di Schengen: azzurro: paesi firmatari; blu: paesi con confini aperti (Monaco, San Marino, Vaticano); verde: paesi in procinto di entrare (Immagine: Wikimedia Commons)
 

La costruzione dello «spazio Schengen»

Lo «spazio Schengen» ha preso forma attraverso un processo di lunga durata, che si è andato svolgendo in stretta connessione con la nascita dell’Unione europea e con il successivo allargamento dei suoi confini, i quali comprendono oggi ben 28 Stati. Il primo atto di questo processo è stato l’Accordo di Schengen – una piccola cittadina situata nell’estremo sud del Lussemburgo – che fu firmato il 14 giugno 1985 da cinque paesi europei: Francia, Repubblica federale tedesca, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Limitatamente ai paesi firmatari, esso stabiliva in 33 articoli che venissero progressivamente aboliti i controlli alle rispettive frontiere, in vista della creazione di uno spazio comune di libera circolazione di merci e persone. Fu tuttavia soltanto con la Convenzione di Schengen, siglata il 19 giugno 1990 dagli stessi cinque paesi ed entrata poi in vigore nel 1995, che sono state fissate concretamente, in 142 articoli, le regole, le condizioni e le garanzie che disciplinano questa complessa materia. È stato questo – a ridosso della nascita dell’Ue – il secondo e fondamentale atto della costruzione dello «spazio Schengen», cui aderirono negli anni immediatamente successivi vecchi e nuovi Stati membri: l’Italia nel 1990, la Spagna e il Portogallo nel 1991, la Grecia nel 1992, l’Austria nel 1995, la Danimarca, la Finlandia e la Svezia nel 1996. L’Accordo e la Convenzione – questo il terzo atto – furono infine incorporati nel Trattato di Amsterdam, uno dei più importanti trattati dell’Ue dopo Maastricht, siglato nel 1997 ed entrato in vigore nel 1999. In tal modo, lo «spazio Schengen» venne strutturalmente integrato nell’architettura istituzionale e giuridica dell’Ue, come ribadito poi dai Trattati di Nizza (2001) e di Lisbona (2007). Da allora esso si è ulteriormente esteso in relazione al processo di allargamento dell’Unione. Con la sola eccezione di Cipro, infatti, sono entrati a farne parte nel 2007 tutti i paesi che nel 2004 hanno aderito all’Ue: Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. Per la Bulgaria e la Romania (Stati membri dal 2007) e per la Croazia (Stato membro dal 2013) l’accordo non è invece ancora entrato in vigore. Complessivamente, dunque, sono 22 su 28 i paesi Ue che oggi fanno parte dello «spazio Schengen». Accanto agli ultimi citati (Cipro, Bulgaria, Romania, Croazia), infatti, ne sono rimasti fuori l’Irlanda e il Regno Unito, Stati membri delle «Comunità europee» e poi dell’Unione sin dal 1973. Al tempo stesso, tuttavia, sono entrati a farne parte alcuni importanti paesi terzi (non Ue): l’Islanda e la Norvegia nel 1996, la Svizzera nel 2008 e da ultimo il Liechtenstein nel 2011.  

Stato membro

Adesione all’Ue

Schengen

Belgio 1958 1985
Francia 1958 1985
Germania 1958 1985
Italia 1958 1990
Lussemburgo 1958 1985
Paesi Bassi 1958 1985
Danimarca 1973 1996
Irlanda 1973
Regno Unito 1973
Grecia 1981 1992
Portogallo 1986 1991
Spagna 1986 1991
Austria 1995 1995
Finlandia 1995 1996
Svezia 1995 1996
Cipro 2004
Estonia 2004 2007
Lettonia 2004 2007
Lituania 2004 2007
Malta 2004 2007
Polonia 2004 2007
Repubblica Ceca 2004 2007
Slovacchia 2004 2007
Slovenia 2004 2007
Ungheria 2004 2007
Bulgaria 2007
Romania 2007
Croazia 2013
 
Paesi non Ue che hanno aderito a Schengen
Islanda 1996
Norvegia 1996
Svizzera 2008
Liechtenstein 2011
   

Le regole fondamentali dello «spazio Schengen»

La costruzione dello «spazio Schengen» ha posto e continua a porre problemi di grande rilievo, anche a prescindere dalle emergenze da cui quello spazio è oggi letteralmente «assediato». Essa ha indubbiamente favorito – ed era questo uno dei sui scopi principali – la libera circolazione delle persone in Europa: per un verso, indebolendo in misura assai significativa le frontiere degli Stati, presidio reale e simbolico delle tradizionali sovranità nazional-statali; per un altro verso, promuovendo la maturazione di una coscienza e di una «cittadinanza» comune europea. Questa «libertà di attraversamento delle frontiere interne» – come viene definita nel testo dell’Accordo del 1985 e che ovviamente non riguarda soltanto la mobilità dei cittadini dei paesi Schengen ma quella di tutti coloro che si trovano all’interno dei loro confini – ha tuttavia immediatamente sollevato, accanto a molte difficoltà di dettaglio, tre questioni cruciali: in primo luogo, la necessità di un maggiore coordinamento tra le forze giudiziarie e di polizia nella lotta a diverse forme di criminalità organizzata (tra cui il narcotraffico e il terrorismo), che si muovono effettivamente in una dimensione transnazionale; in secondo luogo, l’esigenza di una progressiva convergenza e armonizzazione delle legislazioni degli Stati Schengen in materia di immigrazione, visti, permessi di soggiorno e diritto d’asilo; in terzo luogo, il bisogno di una precisa definizione della «frontiera esterna» dello «spazio Schengen» e di norme chiare e condivise per il suo attraversamento. È su questi tre versanti – al netto del grande progresso rappresentato dalla sua entrata in vigore – che si è giocata e si gioca ancor oggi la scommessa di Schengen.
Il monumento dedicato agli accordi che si trova a Schengen (Immagine: Wikimedia Commons)
Nella sua architettura fondamentale, il cosiddetto acquis di Schengen prevede due regole molto semplici: l’abolizione di ogni controllo sulle persone alle frontiere «interne», vale a dire alle frontiere tra due Stati Schengen, e nello stesso tempo un sistema armonizzato, rafforzato e condiviso di controlli alle frontiere «esterne», vale a dire tra uno Stato Schengen e uno Stato non Schengen. Questo significa, per fare un esempio molto concreto, che in un paese come l’Austria, che condivide tutte le sue frontiere con paesi Schengen, possono liberamente entrare e circolare tutti quei cittadini dell’Ue e anche di paesi terzi che per varie ragioni si trovano nello «spazio Schengen». Significa, in altre parole, che l’Austria non ha più alcun controllo sulle proprie frontiere statali e che l’accesso al suo territorio – di cittadini Schengen, di cittadini europei non Schengen e soprattutto di cittadini non Ue – dipende dai controlli che vengono effettuati ai confini esterni dello «spazio Schengen», ad esempio in Italia, in Slovenia, in Slovacchia o in Ungheria. Il che implica, per fare un riferimento esplicito all’attuale crisi migratoria, che la sua frontiera sud non è più il Brennero ma Lampedusa. Per compensare gli effetti potenzialmente destabilizzanti di queste due regole fondamentali gli accordi di Schengen prevedono importanti disposizioni in due ambiti cruciali, la sicurezza e l’immigrazione. Nel campo della sicurezza – al di là dei controlli di polizia che possono essere normalmente effettuati anche alle «frontiere interne» ove vi siano precise informazioni sull’esistenza di concrete minacce criminali – sono stati rafforzati gli strumenti di cooperazione e coordinamento tra le forze giudiziarie e di polizia dei singoli paesi aderenti. È stata prevista la possibilità dell’«inseguimento» e della «sorveglianza» transfrontalieri. Sono stati istituiti appositi team intereuropei per la lotta al crimine organizzato ed è stato soprattutto implementato – tra mille prevedibili difficoltà – un sistema di scambio di informazioni in costante aggiornamento, il Sistema d’informazione Schengen (SIS). Il tutto grazie anche a consistenti stanziamenti specificamente destinati alla sicurezza «interna». Nel campo delle politiche sull’immigrazione sono state armonizzate le procedure di concessione dei visti, dei permessi di soggiorno e del diritto d’asilo, anche in questo caso con la creazione di un apposito sistema di informazioni condivise, il Sistema d’informazione visti (VIS). Una particolare attenzione, di fatto però ancora insufficiente, è stata riservata al problema della frontiera esterna dello «spazio Schengen», diventata decisiva con l’abbattimento delle frontiere interne tra gli Stati membri. In linea generale, tutti gli Stati Schengen sono responsabili del controllo di tale frontiera (oltre 40.000 km di frontiera marittima e poco più di 7.000 km di frontiera terrestre), in particolare per ciò che riguarda il controllo dell’immigrazione irregolare, che spesso ha importanti ricadute in tema di sicurezza. In questo campo, sono state istituite specifiche agenzie di cooperazione quali in primo luogo Frontex, l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (2004). Di fatto, tuttavia, alcuni Stati – ad esempio  l’Italia e la Grecia – si trovano nella difficile situazione di essere assai più esposti di altri nel governo di ampie sezioni di questa frontiera esterna, quanto meno in situazioni di crisi, e di doverne garantire la tenuta soltanto con le proprie forze, talora in parte o del tutto insufficienti allo scopo. Il che ha l’effetto di generare acute ma ben comprensibili tensioni tra i paesi Schengen. Visioni differenti dell’«accoglienza», soprattutto nel caso di gravi emergenze umanitarie generate da guerre, oppressione politica, miseria estrema, fanno il resto. In casi del tutto eccezionali e solo come «extrema ratio», a fronte di gravi minacce alla sicurezza interna o di significative carenze nel controllo della frontiera esterna, gli accordi di Schengen prevedono la possibilità di un ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere nazionali per un limitato numero di giorni prorogabili a certe condizioni o «per la durata prevedibile della minaccia grave», secondo criteri di adeguata proporzionalità e sotto il controllo delle istituzioni dell’Ue. La ragionevolezza di questa norma è fuori discussione. E tuttavia, sono proprio tali minacce, insieme a un generalizzato e sempre più frequente ricorso alla clausola del ripristino delle frontiere interne, a sfidare oggi la tenuta e il futuro dello «spazio Schengen» e più in generale dell’Unione europea.  

La crisi dello «spazio Schengen»

Nel corso della storia ormai più che ventennale dello «spazio Schengen», il ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere è stata una pratica tutt’altro che infrequente. Di regola, però, essa è stata adottata – in misura preventiva e davvero «temporanea» (vale a dire per pochi giorni o settimane) – in occasione di grandi eventi sportivi (campionati di calcio europei), di importanti vertici politici e di conferenze internazionali di forte richiamo, ad esempio sul cambiamento climatico. In certi casi, inoltre, alcuni Stati vi hanno fatto ricorso, sempre per periodi di tempo assai limitati, a seguito di atti criminali o terroristici di particolare rilievo, come gli attentati di Londra del 2005 o la strage di Utoya in Norvegia nel 2011 ad opera del neonazista Anders Breivik. Da ormai più di un anno a questa parte la situazione è drasticamente cambiata. La minaccia portata al cuore dell’Europa dal terrorismo di matrice islamista, in particolare con gli attentati di Parigi (gennaio e novembre 2015) e di Bruxelles (marzo 2016), e soprattutto la gravissima crisi migratoria suscitata dagli arrivi in massa di profughi in fuga dagli inferni dell’Iraq, della Siria, della Libia e più in generale dell’Africa hanno reso «strutturali» e al tempo stesso letteralmente sconvolgenti le pressioni sulla frontiera mediterranea e su quella balcanica dell’Unione europea. Il risultato è stato che tra il 2015 e il 2016 molti Stati europei – soprattutto (ma non solo) quelli del Nord Europa e quelli di più recente adesione – sia pure ancora nel quadro previsto dagli accordi di Schengen, hanno ripristinato i controlli alle proprie frontiere, in un clima di crescente sfiducia nei confronti dei paesi posti a presidio dei confini meridionali dell’Europa e più in generale della capacità dell’Ue di governare l’insieme di questi processi. Tutto ciò, molto spesso, è avvenuto in modo brutale, con la costruzione di veri e propri «muri» e barriere di filo spinato. E in una prospettiva tutt’altro che «temporanea», con la tentazione strisciante di un ritorno permanente o comunque di lunga durata al vecchio sistema delle frontiere nazionali. A queste spinte all’indietro – si deve aggiungere – si contrappongono con discreto successo strategie e progetti di segno molto diverso, come ad esempio la recentissima proposta di istituire una «guardia di confine europea» per dare maggiore sostanza al senso stesso dello «spazio Schengen». Ciò non toglie, tuttavia, che le politiche di chiusura in cui si sono distinte, sia pure in tempi e con modalità differenti, la Germania, la Francia, la Danimarca, la Svezia, la Norvegia, l’Austria, l’Ungheria, la Slovenia, la Slovacchia, la Repubblica ceca, la Polonia, etc. siano molto preoccupanti. Esse, infatti, non stanno soltanto rendendo estremamente acuta un’emergenza umanitaria già di per se stessa semplicemente catastrofica, ma cominciano a suscitare inquietanti interrogativi sulla tenuta stessa dell’intero processo di integrazione europea. Un processo già messo drammaticamente in difficoltà dai duri colpi della crisi economica mondiale iniziata nel 2007-2008 e oggi, con ogni evidenza, in serio affanno. Immagine in apertura e box: Schengen by Attila Németh via Flickr
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