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Lettere sulla tolleranza

Normare l’intolleranza. Le bolle antiebraiche del Cinquecento

Dall’editto del 1492 in cui i “re cattolici” Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia decretano l’espulsione di tutti gli ebrei dal regno, inizia una migrazione di massa che porta le comunità sefardite a lasciare Spagna e Portogallo. Carlo Baja Guarienti approfondisce la tolleranza nel confronti del popolo ebraico in Europa nel Cinquecento.

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Un’ondata d’intolleranza

Nella seconda metà del Quattrocento la storia del plurisecolare rapporto fra cristiani ed ebrei in Europa – una storia complessa di coesistenza, talvolta amicizia, spesso intolleranza o vera e propria persecuzione – si avvia a una drammatica svolta.
In Spagna nel 1478 la creazione del tribunale dell’Inquisizione, occhio indagatore della monarchia fissato sui marrani accusati di avere aderito solo formalmente alla religione cristiana, prelude a un evento di portata epocale: l’editto con cui, il 31 marzo 1492, i “re cattolici” Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia decretano l’espulsione di tutti gli ebrei dal regno. È l’inizio di una migrazione di massa che porta le comunità sefardite (da Sefarad, nome ebraico della penisola iberica nel medioevo) a lasciare Spagna e Portogallo per stabilirsi negli altri Stati europei, in Nord Africa o nell’Impero ottomano.
Nei decenni successivi l’ondata d’intolleranza investe gradualmente altre parti dell’Europa.
La frattura apertasi all’interno del cristianesimo con la predicazione di Lutero induce la Chiesa di Roma a reprimere con forza ogni forma di dissenso o di semplice difformità all’interno della società cristiana; fra queste forme, la prima per consistenza e identificabilità è quella degli ebrei, che da secoli vivono fianco a fianco con i “gentili” condividendo spazi urbani, commerciando, istituendo scambi culturali e talvolta legami affettivi o persino vincoli matrimoniali. Questa convivenza viene vista da un lato come un pericolo per la compattezza del gregge cristiano, dall’altra come l’occasione per mostrare al mondo la volontà e il potere della Chiesa.

Una convivenza “assurda”

Roma, però, sceglie inizialmente una via diversa da quella spagnola: non l’espulsione, ma la segregazione. Questa strategia permette da un lato alla società di continuare a godere dei vantaggi economici derivanti dalla presenza di famiglie e intere comunità spesso ben inserite nel tessuto produttivo, commerciale e finanziario delle città, dall’altro di mantenere gli ebrei nel loro scomodo ruolo di testimoni viventi del martirio di Cristo e destinatari delle prediche per la conversione.
Le tappe di attuazione di questa strategia si susseguono in un crescendo drammatico.
Papa Paolo III Farnese (1534-1549) decreta la fondazione a Roma della Casa dei catecumeni, che accoglie e indirizza le persone – principalmente ebrei, in misura minore anche musulmani – convertite spontaneamente o meno al cristianesimo; il suo successore Giulio III del Monte (1550-1555) alterna chiusure e aperture, ma nel 1553 è fautore del grande rogo del Talmud, autodafé culturale che priva le comunità ebraiche italiane di un testo fondamentale.
Ma una repentina, drammatica accelerazione avviene, dopo il brevissimo papato di Marcello II Cervini (1555), con l’elevazione al soglio pontificio di Paolo IV Carafa (1555-1559), prefetto dell’Inquisizione ed esponente della fazione più intransigente della Chiesa. A soli due mesi di distanza dall’elezione, il nuovo papa emana la bolla Cum nimis absurdum (14 luglio 1555), che fin dall’incipit individua come bersaglio la “assurda” pretesa degli ebrei di vivere mescolati fra i gentili, possedere beni immobili, avere persino al proprio servizio personale di religione cristiana: gli ebrei, “condannati da Dio alla schiavitù eterna”, dovranno d’ora in poi portare segni distintivi (un berretto per gli uomini, uno scialle o un velo per le donne), non potranno possedere immobili e avere servitori cristiani. Inoltre, non potranno esercitare il grande commercio né le professioni, ma dovranno accontentarsi di occupazioni umili come quella di straccivendolo. E, soprattutto, dovranno vivere in appositi quartieri – i ghetti – dotati di mura e cancelli.
La Cum nimis absurdum è la prima delle bolle che lo storico Attilio Milano ha definito “infami”, una serie di provvedimenti tesi a piegare le comunità ebraiche dello Stato della Chiesa riducendole a una condizione di subalternità e segregazione.
Nasce così il ghetto di Roma, che non è il primo (a Venezia ne esiste uno già dal 1516) ma sarà l’ultimo a essere abolito in Italia, solo nel 1870. Le famiglie ebree di Roma, circa 2.000 persone tradizionalmente stanziate soprattutto a Trastevere e nel rione di Sant’Angelo, vengono costrette a trasferirsi in un gomitolo di strade; attorno a queste case viene eretto un muro dotato all’inizio di due sole porte che di notte vengono chiuse da guardiani stipendiati a spese degli stessi ebrei. Oggi, come ha mostrato efficacemente Marina Caffiero, sappiamo che nonostante la segregazione i rapporti fra il ghetto e la città – scambi commerciali, culturali, affettivi – sono destinati a sopravvivere, ma la bolla di Paolo IV costituisce ugualmente una frattura epocale.

Fughe e boicottaggi

Il trasferimento nel ghetto, naturalmente, non è l’unica scelta possibile: ci sono famiglie che scelgono la conversione, altre che lasciano lo Stato della Chiesa per trasferirsi nell’Impero ottomano o negli altri Stati italiani. Alcuni principati della penisola, infatti, costituiscono almeno provvisoriamente un rifugio sicuro. Il ducato di Ferrara, in particolare, conta una numerosa e fiorente comunità ebraica la cui presenza è favorita dall’atteggiamento degli Este, che fin dal 1492 per volontà di Ercole I (1471-1505) hanno accolto i marrani fuggiti dalla penisola iberica. Dopo la promulgazione della Cum nimis absurdum il duca Ercole II (1534-1559) invita a Ferrara gli ebrei fuggiti dallo Stato della Chiesa e si oppone alle richieste di Paolo IV, che chiede l’applicazione della bolla anche nel ducato: nonostante alcune concessioni all’ondata di intolleranza che attraversa l’Europa nel corso del secolo, come l’obbligo di portare un segno distintivo decretato da Alfonso I (1505-1534) o il rogo del Talmud nel 1553, Ferrara resterà fino alla devoluzione alla Chiesa (1598) un porto sicuro per gli ebrei di ogni provenienza.
Altrove, anche dall’interno dello Stato della Chiesa si tenta di mettere in atto contromisure volte a contrastare l’azione di Paolo IV. Ad Ancona vive una nutrita comunità sefardita formata da ebrei convertiti portoghesi, che hanno ricevuto da Paolo III e Giulio III un trattamento favorevole arrivando persino a ritornare apertamente alla religione degli antenati: Paolo IV revoca le concessioni fatte dai predecessori e fa imprigionare in massa i marrani ritornati alle tradizioni giudaiche. Una parte di costoro riesce a corrompere il commissario pontificio, che promette di intercedere presso il pontefice ma poi fugge con il denaro ricevuto; una parte è forzata a riconvertirsi al cristianesimo e viene poi imbarcata sulle galere pontificie; venticinque persone, infine, vengono condannate a morte per apostasia e giustiziate nella primavera del 1556. Per tutta risposta, i grandi mercanti ebrei trovano un accordo con il duca di Urbino Guidubaldo II della Rovere (1538-74) e, con il consenso dell’Impero ottomano, organizzano un’operazione di sabotaggio ai danni del porto di Ancona deviando il traffico commerciale su quello di Pesaro. Il tentativo, però, è destinato a fallire: dopo una breve resistenza alle pressioni romane il duca di Urbino si uniforma alla volontà papale ed espelle a sua volta i marrani dallo Stato.

Fra tolleranza e intolleranza

Alla morte di Paolo IV, il nuovo pontefice Pio IV Medici (1559-1565) mitiga in parte i provvedimenti del predecessore: con il breve dell’8 agosto 1561 e con la bolla del 27 febbraio 1562, diretta agli ebrei di Roma, abolisce l’obbligo di portare i segni distintivi durante i viaggi e il divieto di esercitare il commercio, di possedere immobili (ma fino a un valore di 1.500 scudi d’oro) e di prestare denaro.
Questa parentesi ha però breve durata: Pio V Ghislieri (1566-1572) ripristina subito le misure decretate da Paolo IV riportando in auge i segni distintivi, il divieto di possedere immobili e di prestare denaro. E si spinge oltre, decretando con la bolla Hebraeroum gens (26 febbraio 1569) l’espulsione degli ebrei dallo Stato della Chiesa con l’eccezione di Roma e Ancona. Gli effetti del provvedimento sono comprensibilmente drammatici: migliaia di famiglie devono lasciare nuovamente le città del patrimonio di Pietro e intere comunità vengono cancellate, in alcuni casi per sempre.
Il pontificato di Gregorio XIII Boncompagni (1572-1585) è caratterizzato da una politica ambigua: da un lato il nuovo pontefice allenta la pressione sugli ebrei romani, dall’altro vieta loro di esercitare la professione medica sui cristiani, li costringe ad assistere periodicamente alle prediche indirizzate alla loro conversione e dà mandato all’Inquisizione di indagare sulla condotta degli abitanti del ghetto di Roma alla ricerca di false conversioni e presunte offese alla religione cristiana.
Con Sisto V Peretti (1585-1590) si assiste a un radicale cambio di direzione: il pontefice, impegnato a sostenere le finanze dello Stato della Chiesa, incoraggia l’imprenditoria anche ebraica e mette persino a capo della Dataria apostolica un ebreo convertito portoghese, Giovanni Lopez. Inoltre, con la bolla Christiana pietas (22 ottobre 1586) abolisce le norme vessatorie emanate dai predecessori. Il flusso della migrazione si inverte: centinaia di famiglie ebree rientrano nello Stato della Chiesa o vi si stabiliscono ex novo e il ghetto di Roma viene ampliato. Sisto V si segnala anche per il sostegno a un’altra attività fiorente e ampiamente praticata dagli ebrei: l’industria della seta.
Tuttavia, anche questa volta il segnale di tolleranza e riconciliazione da parte del papato è effimero: con Clemente VIII Aldobrandini (1592-1605), altro papa intransigente, ritornano le limitazioni al commercio e persino ai contatti fra gli ebrei convertiti e quelli rimasti nella propria religione. La bolla Caeca et obdurata (25 febbraio 1593) decreta una nuova espulsione dallo Stato della Chiesa con le eccezioni di Roma, Ancona e Avignone. Negli anni successivi il papa mitigherà – anche allo scopo di non penalizzare eccessivamente il commercio fra il porto di Ancona e il Levante – la violenza della prima ora tramite alcuni provvedimenti, ma la strada è ormai segnata.
Nei due secoli successivi i pontefici alterneranno momenti d’intolleranza e di apertura, ma le bolle antiebraiche della seconda metà del Cinquecento sono uno spartiacque nella storia dei rapporti – sempre difficili – fra lo Stato della Chiesa e le comunità ebraiche germogliate al suo interno.

Bibliografia essenziale
Caffiero M., Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Roma, Viella, 2004.
Caffiero M., Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra libri proibiti, eresia e stregoneria, Torino, Einaudi, 2012.
Caffiero M., Storia degli ebrei nell’Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione, Roma, Carocci, 2014.
Foa A., Ebrei d'Europa. Dalla peste nera all'emancipazione, Roma-Bari, Laterza, 1992.
Milano A., Storia degli ebrei d’Italia, Torino, Einaudi, 1992.
Vivanti C. (a cura di), Storia d’Italia, Annali 11, Gli ebrei in Italia: dal medioevo all’età dei ghetti, Torino, Einaudi, 1996.

Crediti immagine: Espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492, Emilio Sala, 1889 (Wikimedia Commons)

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