Pensiero scientifico e pensiero narrativo
La psicologia ha iniziato a interessarsi della narrazione soprattutto a partire dagli anni Settanta. Per capire meglio questo interesse, consideriamo le riflessioni dello psicologo Jerome S. Bruner (1915-2016), che nel corso degli ultimi decenni è salito alla ribalta per le sue riflessioni sulle tipologie di pensiero e le sue considerazioni pedagogiche.
Per saperne qualcosa di più su Bruner, leggi questa biografia.
Spiega Bruner che quando uno scienziato affronta un problema utilizza un modo di pensare logico-scientifico, con cui ricerca dati, analizza variabili, svolge catene di ragionamenti dimostrativi. Quando una persona cerca invece di capire la realtà sociale intorno a sé, crea delle storie con le quali attribuisce in modo verosimile intenzioni e finalità ai vari protagonisti.
Questo pensiero narrativo (descritto da Bruner in La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari 1988, ed. Orig. 1986) non è però il frutto di una pura invenzione del soggetto narratore.
Coerentemente con la prospettiva della psicologia culturale, Bruner ritiene che il pensiero narrativo si basi su un codice interpretativo, su una serie di credenze e di valori che sono tipici di una cultura.
Una narrazione non è quindi indipendente né dalla cultura di appartenenza né dal punto di vista del narratore. Ma tale punto di vista può non essere condiviso dagli altri interlocutori, che a loro volta forniranno interpretazioni diverse dell'evento di cui sono stati testimoni/protagonisti o di cui hanno ascoltato il racconto. La dimensione ermeneutica, ossa interpretativa, è dunque fondamentale ed è una parte integrante del pensiero narrativo.
Racconto e Sé
La funzione della narrazione va però ben oltre la ricostruzione di una vicenda e l'individuazione del suo senso. Infatti, Bruner, chiarisce Veronica Ornaghi (in Narrazione e costruzione di sé, AAVV, La psicologia culturale di Bruner, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999), focalizza una parte delle sue ricerche sul rapporto tra il Sé e la cultura di appartenenza. Il "Sé" in psicologia è un costrutto psichico peculiare che riguarda la percezione che l'individuo ha di sé nella varietà dei contesti in cui agisce e delle relazioni sociali che intrattiene. Si tratta però di una nozione molto duttile, che varia sensibilmente da autore ad autore. Nel caso di Bruner, egli ritiene che la mente narrante raccontando se stessa e le proprie esperienze costruisca un Sé sociale, una sorta di facciata. Si tratta quindi di un processo complesso e circolare, durante il quale il Sé si struttura sulla base di stimoli, simboli, valori del mondo circostante, ma allo stesso modo dà un significato a ciò che accade intorno a lui. Perciò il Sé è influenzato anche dall'opinione e dalle interpretazioni che gli altri forniscono di lui.Narrarsi da adulti e da bambini
Anche un adulto che ripercorre la propria esistenza in un'autobiografia dà forma alla propria vita e costruisce il proprio Sé, in particolare individuando i momenti critici e i punti di svolta, i turning points della propria esistenza. Ricerche di Bruner ed altri autori (riportate da Andrea Smorti, in Il pensiero narrativo, Giunti, Firenze 1994) evidenziano però il ruolo del pensiero narrativo già durante il secondo anno di vita, quando il discorso narrativo si rivela uno strumento con cui un bambino può mettere ordine nel proprio tumulto interiore. Inoltre, attraverso il monologo, il bambino costruirebbe un Sé narrativo, importantissimo per capire se stesso e spiegarsi agli altri.Racconto come terapia
La psicologia considera la narrazione non solo un mezzo di conoscenza, ma anche uno strumento per intervenire su certe situazioni. Anzi, secondo lo psicoanalista Antonio Ferro (La psicanalisi come letteratura e terapia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999), la stessa seduta dall'analista assume l'aspetto di una narrazione, nella quale il terapeuta partecipa alla costruzione di un senso degli eventi dialogando con il paziente. Si tratta quindi di una narrazione condivisa, alla quale l'analista partecipa in modo discreto, favorendo nel paziente la costruzione di un senso, piuttosto che imporre la sua interpretazione: come, in fondo, si dovrebbe fare in ogni conversazione gradevole ed educata. In questo senso la narrazione è una sorta di dialogo che permette di agire sul paziente. Al di fuori della terapia, il racconto può essere un modo per mettere in scena paure, timori, speranze. Di questo si era reso conto Bruno Bettelheim, autore di una celebre opera, Il mondo incantato, nella quale fornisce una spiegazione psicoanalitica delle fiabe per bambini: attraverso storie e personaggi esse mettono in scena paure come quella di non essere amati o sentimenti come l'odio (temporaneo) per fratelli e genitori. La fiaba quindi "mentre intrattiene il bambino, gli permette di conoscersi e favorisce lo sviluppo della sua personalità" (B. Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano 2000, ed. orig. 1975).
Su Bruno Bettleheim e le polemiche legate alla sua figura puoi leggere questo articolo
Una tesi ancora oggi validata e che si traduce in un rinnovato invito a raccontare storie, che
permettono ai bambini di esplorare i propri lati oscuri, di comprendere i valori, di scoprire,
attraverso le imprese di eroi fiabeschi, in che modo superare timori profondi come quello del buio, come spiega Anna Oliverio Ferraris in Prova con una storia, Fabbri Milano 2005.
In poche parole, raccontare è il modo più semplice e spontaneo che abbiamo per dare un senso a noi stessi e al mondo che ci circonda.
Crediti immagini
Apertura: Illustrazione senza titolo di Les Contes de Perrault, un'edizione delle fiabe di Charles Perrault illustrata da Gustave Dore, originariamente pubblicata nel 1862 (Wikimedia Commons)
Box: Jerome Bruner (Wikimedia Commons)