L’accelerazione degli sviluppi tecnologici negli ultimi decenni ci ha portati sempre più vicini a un futuro per secoli solo immaginato nella letteratura, nell’arte, nella filosofia. Nello stesso tempo, però, possiamo rilevare che scoperte e progressi non stanno, almeno per ora, rendendo il nostro mondo del tutto coincidente con certi scenari fantascientifici: i robot esistono e sono sempre più efficienti, ma non si sono sostituiti agli esseri umani; le nostre città non sono attraversate da futuristici mezzi di trasporto; non è ancora possibile per una persona dematerializzarsi in un luogo per ricomparire in un altro. È tuttavia indubbio che il futuro, soprattutto in ambito digitale e virtuale, è arrivato, anche sulla scia delle esigenze emerse da una pandemia capace di mettere in crisi un mondo interconnesso e globalizzato: tutto questo sta portando con sé questioni di carattere profondamente filosofico che, in alcuni casi, si configurano come la riproposizione in chiave contemporanea di problemi tradizionali; in altri, invece, ci pongono di fronte a nuove domande.
Identità, mondo reale e virtuale: tra nuove ontologie e nuove epistemologie
Ad affrontare alcuni dei temi più urgenti della cosiddetta “intelligenza artificiale” è il filosofo italiano Luciano Floridi (n. 1964), tra gli studiosi più eminenti in questo ambito a livello internazionale, che in diversi libri, interviste e articoli mette in evidenza non solo tutte le opportunità che la nuova tecnologia già ci offre e potrà offrirci, ma fa anche emergere alcuni punti di attenzione che dovremo avere nel prossimo futuro per controllare, come essere umani, il processo tecnologico e non correre il rischio di subirlo.
Lo sviluppo di mondi virtuali ci pone davanti a una prima fondamentale differenza rispetto al mondo “analogico” in cui eravamo immersi solo fino a qualche decennio fa: l’individuo può essere fisicamente in un punto dello spazio ben preciso, ma tramite la tecnologia digitale, trovarsi in più luoghi contemporaneamente. Gli spazi e gli ambienti virtuali, sempre più sofisticati e interconnessi tra loro, permettono di superare il tradizionale principio dell’unicità dell’io: ognuno di noi può “moltiplicarsi” con identità più o meno simili tra loro, ma che in qualche modo continuano a definirci. Cosa rende quindi un individuo sé stesso? Qual è lo scarto tra l’io originario e le sue innumerevoli proiezioni virtuali? Queste ultime mantengono lo stesso grado di realtà dell’io fisico? Tali domande già si pongono se pensiamo alle diverse piattaforme in cui è possibile creare nostri avatar e alter ego. Per il prossimo futuro, tuttavia, non è difficile immaginare un ulteriore salto di qualità con lo sviluppo del cosiddetto metaverso e la prospettiva di immergerci completamente in realtà aumentate in grado di farci non solo vedere su uno schermo il nostro avatar che agisce in un mondo parallelo, ma anche vivere sensazioni, percezioni, relazioni in modo totalmente immersivo, esperienza che per ora resta prerogativa del mondo fisico.
Non solo l’io, il nostro e quello degli altri e le reciproche relazioni tra di essi, ma gli ambienti virtuali riformulano anche il nostro rapporto con quello che esiste e quello che possiamo conoscere. Questa capacità umana, quasi demiurgica, di creare nuovi mondi aggiorna così il problema ontologico: quali oggetti ed entità esistono? Possiamo dire che quello che incontriamo nel mondo virtuale possiede lo stesso grado di realtà di quello che esperiamo nel mondo fisico? Alla questione ontologica sarà inevitabilmente legata quella epistemologica con tutte le domande relative a cosa potremo conoscere e come acquisiremo le nostre conoscenze in questi nuovi mondi.
Non è difficile pensare a questi molteplici piani di esistenza e di realtà come un’alternativa contemporanea al mito della caverna di Platone, scorgendo nel mondo virtuale una sorta di mondo fittizio che ci illude e ci allontana da quello reale. Sarebbe tuttavia troppo riduttivo, in una fase che è ancora di cambiamento, vedere solo questo. Gli sviluppi della tecnologia possono allargare l’ambito di azione umana e non semplicemente sostituirla qualitativamente.
L’agire intelligente vs. il pensiero intelligente
In una intervista rilasciata un paio di anni fa, Floridi si interroga sull’eccezionalità dell’essere umano messa in crisi, nel modo contemporaneo, proprio dagli sviluppi dell’intelligenza artificiale. Una crisi che non è inedita nella storia, ma che si manifesta in nuove modalità: «Copernico ci ha spostati dal centro dell’universo, Darwin ci ha detto che non siamo al centro del regno animale e Freud che non siamo al centro della nostra mente. Oggi avvertiamo la pressione perché non siamo più neanche al centro dell’infosfera, lo spazio dei dati, delle informazioni e della conoscenza».
Diventa quindi centrale la riflessione su ciò che distingue (e continuerà a distinguere) essere umano e macchine, anche nelle loro versioni più sofisticate. Esiste infatti una sorta di equivoco iniziale sul significato che attribuiamo a “intelligenza” che genera confusione allorquando parliamo anche di “intelligenza artificiale”. Una tradizione, che lo stesso Floridi fa risalire all’approccio hobbesiano, tende a identificare il pensiero con la capacità razionale e operativa di “fare di calcolo”. Tuttavia, pensare non si riduce semplicemente a questo, ma è una attività (tipicamente umana) molto più complessa, che chiama in causa la possibilità di fare errori, di trovare soluzioni anche creative a questi errori, di prevedere un adattamento qualora subentrino modifiche alle condizioni di contesto.
Intervistato a inizio 2023, Floridi prende come esempio una delle applicazioni che più ha fatto parlare di sé negli ultimi mesi, ChatGpt, considerata da molti una vera e propria porta d’accesso a un futuro in cui le macchine sostituiranno se non l’essere umano, tante delle sue funzioni e attività. Messo alla prova, ChatGpt appare a Floridi l’esempio perfetto della netta separazione tra “agire con successo”, che contraddistingue la tecnologia, e “agire in modo intelligente”, che caratterizza l’essere umano. Oggi, e verosimilmente in futuro sempre di più, le macchine e gli strumenti digitali sono già in grado di portare a termine processi, ma che non richiedono alcun reale ragionamento, solo una mera applicazione date una serie di informazioni iniziali, spesso con risultati ancora abbastanza banali. Questi risultati potranno sicuramente diventare sempre più raffinati, ma difficilmente simili dispositivi penseranno come un essere umano perché manca loro la capacità di fronteggiare l’errore e la sua risoluzione in modo creativo e con intenzionalità.
Nonostante i rischi che si possono intravedere nei processi tecnologici non consapevoli, Floridi non appartiene al gruppo di voci allarmiste ed evidenzia come l’intelligenza artificiale, che si basa sempre più su un calcolo statistico più che matematico, possa fornire strumenti importanti per affrontare alcune sfide cruciali, dal contrasto al cambiamento climatico alla possibilità di ridurre i consumi mantenendo un livello accettabile di benessere. In questo senso essa è strumento e mezzo, mentre occorre che l’uomo resti fine, potremmo dire in senso kantiano. In un presente che è in parte già futuro, il pensiero filosofico e critico recupera così un ruolo fondamentale.
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