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Filosofia

La tartaruga canora e la potenza della musica

Una musica per noi perduta, ma importantissima nel mondo classico. Roberta Ioli ricostruisce la storia dell'intreccio tra musica e poesia a partire dagli Inni omerici.
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Nel suo Inno a Zeus, purtroppo perduto, il poeta Pindaro presentava le Muse come le divinità che Zeus generò su richiesta degli altri immortali. Quando ormai tutto era stato creato, gli dei si accorsero che mancava qualcosa: mancavano la musica e la poesia, mancava la bellezza che solo la voce delle Muse può donare, facendo ordine nella creazione. Il termine musica (in greco mousiké) deriva proprio da Musa, e Muse sono le figlie di Zeus, signore dell’Olimpo, e di Mnemosyne, la Memoria. Mousiké indica, in generale, l’arte di cui le Muse sono protettrici e in cui rientra non solo la musica, ma anche il canto e la danza, pratiche strettamente intrecciate. Esse sono venute al mondo come custodi della bellezza e il loro intervento è necessario per ricreare continuamente il cosmo nella meraviglia del canto che funge da principio ordinatore. Nella filosofia antica la musica ha sempre rivestito un ruolo centrale: suono delle sfere celesti, per Pitagora essa rappresenta l’ordine dell’universo di cui rivela l’essenza numerica; per Platone la musica è un prezioso specchio delle relazioni matematiche che regolano il cosmo, ma è considerata pericolosa se risveglia passioni sfrenate, come quando è accompagnata dall’aulòs, strumento a fiato associato al furore dionisiaco e all’irrazionalità. Secondo gli Inni omerici, la storia della musica è legata ad Hermes, figlio di Zeus e Maia, concepito mentre Era, legittima sposa di Zeus, è immersa nel sonno. Il dio degli inganni, ladro e signore dei sogni, è destinato a compiere grandi imprese ma, soprattutto, a imporsi come divinità della notte e guida delle anime dei morti. Sorprendentemente, però, la prima impresa che l’Inno gli attribuisce, quando è ancora un bambino, non è una furfanteria, ma l’invenzione di uno strumento musicale, la lira. Avvistata infatti una tartaruga che si muoveva lentamente fuori dalla sua grotta, Hermes libera il carapace dal midollo e, con la velocità che lo contraddistingue, taglia canne di giunco e le fissa nel guscio, dopo aver praticato dei fori. L’autore dell’Inno ci descrive con estrema minuzia tutti i gesti compiuti dal dio, che distende con arte la pelle di bue, applica due bracci uniti con un ponticello e infine tende sette corde di minugia di pecora. A tutto questo seguirà, prodigio a vedersi e udirsi, la nascita di “una tartaruga musicale” (v. 25). Il fascino potente della musica dominerà la seconda parte dell’Inno, dopo che Hermes ha compiuto il furto delle cinquanta vacche di Apollo. A questa frode negata con ostinazione seguirà infatti un canto così sorprendente che Apollo dimenticherà subito l’ira e il desiderio di vendetta, tanto intensa è la beatitudine che ricava dall’armonia musicale. Il nuovo canto di Hermes risveglia infatti nel muto ascoltatore un languore struggente e il desiderio che la performance non abbia fine: il suo contenuto è una teogonia in cui viene narrata la nascita degli dei e il loro destino, partendo da Mnemosyne, madre delle Muse e protettrice della musica e della poesia. Alla fascinazione del canto corrisponde dunque nell’ascoltatore un desiderio paralizzante, irresistibile, cui seguirà la concessione del perdono. Il canto è definito kata kosmon, espressione frequente nei poemi omerici e difficilmente traducibile, riferita all’armonia nella disposizione delle parti, in questo caso nella successione delle sequenze narrative che rispecchiano l’importanza del soggetto. Specialmente nei racconti teogonici, ma anche nelle genealogie e nelle storie di eroi, dove la memoria del poeta deve mostrare tutta la sua inesauribile ricchezza, il cantare kata kosmon è un requisito essenziale su cui si fonda anche l’affidabilità della narrazione. Dunque, il dio che nella tradizione epica viene presentato come cantore divino, maestro dell’ispirazione poetica, e che nell’inconografia tradizionale compare per lo più accompagnato dalla cetra, qui è invece introdotto come ascoltatore ammaliato e silente. L’effetto prodotto dal canto e dalla musica è non solo piacere (terpsis), ma anche amēchania, una sorta di paralisi stupefatta nell’incapacità di agire o di parlare. Amēchanos è termine complesso, che unisce l’idea dell’impotenza, condizione propria di chi è privo di risorse, a quella della forza irrestistibile che rende gli altri impotenti. Nella prima accezione ricorre, ad esempio, quando Odisseo e compagni si trovano di fronte alla furia cannibalica di Polifemo (“impotenza ci prese l’animo”, Od. 9.295), o quando Euriclea, accingendosi a lavare i piedi dell’infelice mendicante, si dichiara “priva di mezzi” (Od. 19.363). Nella seconda accezione il termine viene usato per indicare una forza portentosa, un eroe implacabile o un prodigio terribile. Amēchanos è definito nel nostro Inno lo stesso Hermes (v. 346) quando lascia sulla sabbia impronte illeggibili, che sembrano non appartenere ad alcuna creatura nota: egli è indecifrabile come lo sono i sogni, e insieme è irrresistibile perché paralizza con il suo mistero. E irresistibile è anche il canto con la lira, che produce una malia assimilabile al fascinum della magia o della passione amorosa, talmente potenti da ridurre al silenzio. La musica distoglie dalle sofferenze del presente ed è consolatrice di affanni, procurando (come suggerisce Apollo) gioia, amore e dolce sonno. Propria della tradizione epica è la connessione tra il canto con la lira e il gioioso godimento dell’ascolto, mentre amore e sonno, associabili all’incantamento (thelxis) e all’oblio degli affanni, pertengono all’ambito magico e taumaturgico del dio fanciullo; inoltre, il legame della poesia con il sonno evoca la figura del mitico Orfeo, il cantore di origine tracia capace di placare con il canto le forze selvagge e oscure della natura. La poesia, dunque, risveglia l’amore ma, in una sorta di rovesciamento ossimorico, ne è anche la cura, in quanto portatrice di oblio. Infine, per esercitare il proprio potere ispiratore di gioia, la musica deve essere eseguita da chi è dotato di sapienza ed è educato alla bellezza. Centrale nell’estetica antica sarà proprio l’idea di sapienza dell’artista, ma anche del pubblico: solo l’animo raffinato è in grado di ascoltare la voce della poesia; al rozzo e all’ignorante la Musa non parla. La stessa lira, toccata da mani inesperte, produrrà solo uno stonato balbettio, incapace di liberare la voce divina che è in lei. La musica nasce dunque sotto il segno di inganno e doppiezza, ma sa trasformare il caos del mondo nell’armonia di un cosmo.   (Crediti immagini: Wikimedia Commons, Wikimedia Commons)
Lira_citara
Delphi: Apoll

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