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«Je est un autre», «Io è un altro» diceva il poeta francese Arthur Rimbaud, e mai formula sembra più adatta a spiegare l’esperienza di Hölderlin. Ma c’è almeno un altro poeta – ce ne sono molti, in realtà – che fece della scomposizione della propria personalità uno dei suoi motivi fondamentali. Si tratta di uno dei più grandi scrittori portoghesi di sempre, Fernando Pessoa (1888-1935): la differenza rispetto al poeta tedesco è semmai nel fatto che Pessoa (il cui cognome curiosamente significa “persona”) rifiutò la propria identità in modo consapevole, lucido, e ne fece una poetica. Non troverete quasi nessuna opera firmata da Fernando Pessoa – ad eccezione di una raccolta di poemi simbolisti intitolata Messaggio (1934): troverete invece poesie futuriste di un certo Álvaro de Campos; liriche classiciste firmate da Ricardo Reis; poesie realiste di Alberto Caeiro; e un diario, il Libro dell’inquietudine, scritto da Bernardo Soares. Di ognuno di questi eteronimi Pessoa immaginò la biografia, gli amori letterari, le fonti di ispirazione: così, de Campos viaggiò in Scozia e in Oriente e, probabilmente, era omosessuale; Reis era un latinista monarchico che si trasferì in Brasile; Caeiro era un contadino di cui Pessoa pubblicava le poesie postume; Soares, infine, era un impiegato che non lasciò mai Lisbona. Ci sono molte vite e molte persone nella poetica di Pessoa, che fece scrivere a Bernardo Soares che «Una delle mie preoccupazioni costanti è capire com'è che esista altra gente, com'è che esistano anime che non sono la mia anima, coscienze estranee alla mia coscienza; la quale, proprio perché è coscienza, mi sembra essere l'unica possibile». È questo il nocciolo di una visione del mondo che non ha pari nella letteratura mondiale. Non è facile rintracciare chi era il vero Pessoa nelle pagine delle molte persone che hanno scritto con la sua mano: egli scrisse moltissimo, ma sempre come se a comporre fosse qualcun altro.
Guarda due interventi su Pessoa di Antonio Tabucchi, autore italiano e massimo conoscitore dello scrittore portoghese.
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«Chiamatemi», non «Mi chiamo»
Uno degli incipit più celebri e belli della letteratura di ogni tempo è quello di Moby Dick (1851), dello scrittore americano Herman Melville (1819-1891): «Chiamatemi Ismaele», è così che il narratore si presenta. Non «Mi chiamo» o «Il mio nome è»: ma «chiamatemi». Dunque nessuno, in realtà, può sapere chi sia davvero la persona che racconta la storia e la attraversa. Di Ismaele, benché sia uno dei protagonisti del romanzo, non sappiamo quasi nulla, se non che proviene da New York – ma non è detto che vi sia nato – e che fa il marinaio. Anzi: proprio nella prima pagina egli scrive che non ha voglia di raccontare di sé e mantiene la promessa fino alla fine del libro. Egli è un osservatore, qualcuno che riporta dei fatti e si tiene lontano, sfugge. Molta della letteratura successiva, soprattutto nel Novecento, regalerà degli «io» slabbrati, inconoscibili nonostante il fatto che, spesso, siano al centro di grandi narrazioni che li riguardano: pensate al pirandelliano Uno, nessuno e centomila (1926), al senso di spaesamento che prende Vitangelo Mostarda, il protagonista. Egli scopre a poco a poco di essere estraneo a se stesso, osserva come lo guardano gli altri e si vede ogni volta un altro uomo: a seconda della situazione in cui si trova si scopre diverso nei comportamenti, nei modi di fare, perfino nei pensieri, fino a che non sarà più in grado di definirsi, di dire chi egli veramente sia e si rifugerà nella follia.
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La negazione, il rifiuto di sé
Su questi argomenti ha detto il critico Giulio Ferroni che «Il Novecento si spinge oltre, con grandi scrittori che rappresentano non più solo la frantumazione della personalità, ma la sua negazione totale. Uno di questi è Samuel Beckett, che, nonostante fosse irlandese, aveva cominciato a scrivere in francese, lingua nella quale ha poi composto le sue opere più importanti. La sua è una letteratura che parla di continuo, fino alla ricerca del silenzio e della negazione della personalità. Vi è nel suo "individuo" una paradossale resistenza all’oscuro destino d’annientamento che lo sovrasta, come già accadeva nei personaggi kafkiani. Complessivamente la letteratura del Novecento registra un’esplosione della disgregazione dell’io». Ma non solo: la letteratura è piena di personaggi che rifiutano il proprio io, che vorrebbero essere qualcun altro. Nella Ricerca del tempo perduto (1913-1927), Marcel Proust (1871-1922) – di origine per metà cattolica e metà ebrea – sembra rifiutare il giudaismo: nell’opera esso appare spesso come sintomo e sinonimo di una mancanza ancestrale, di un’assenza di profondità. In Contro la memoria, un saggio che Alessandro Piperno ha dedicato alla Ricerca, si racconta di come Proust, in seguito alla pubblicazione del suo capolavoro, divenne il paladino di quei giovani letterati ebrei che alla fine del diciannovesimo secolo scelsero di ripudiare la propria origine. Dietro questo apparente antisemitismo autolesionista si nascondeva una ricerca di autenticità e verità: gli ebrei di Proust (e lui per primo) sono affetti dall’ansia di piacere, di essere accettati in una società che li guarda di traverso: per far questo vivono in posa, continuamente fingono di essere ciò che non sono. È dunque un «vizio», quello che li attanaglia e che Proust rifiuta.
Un’eco di questo controverso tema è in un altro grande libro del Novecento: La famiglia Karnowski (1943) di I.J. Singer (1893-1944). Vi si raccontano le vite di una famiglia ebraica della prima metà del secolo: nati in Polonia, i Karnowski vivono l’avvento del nazismo e, dalla Germania dove si erano trasferiti, cercano a New York una salvezza che troveranno solo in parte. È il figlio Jegor il personaggio più tormentato: perseguitato e umiliato nella scuola hitleriana che è costretto a frequentare, egli sviluppa un odio verso il padre (“colpevole” di ebraismo) e verso se stesso che lo porta a rinnegare la propria origine e a fingersi ciò che non è – un cristiano. Egli odia tutto di sé, ma soprattutto il proprio aspetto, che rivela al mondo la sua provenienza nonostante i suoi tentativi di camuffarla. Il suo dramma risiede proprio in questo: ebreo odiatore di ebrei e di se stesso, Jegor viene sempre inevitabilmente respinto da un mondo che si ostina a riconoscerlo come ciò che lui non vuole essere.
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Immagine di apertura: Edvard Munch, "Sera sul viale Karl Johan". Olio su tela. 1892, Commune Rasmus Meters Collection. (via Wikipedia)
Immagine per il box: Caspar David Friedrich, "Il viandante su un mare di nebbia". 1818. Amburgo, Kunsthalle. (via Wikipedia)