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Il denaro degli antropologi

La moneta ha una natura estremamente mutevole e spesso contraddittoria: può essere concreta, astratta, virtuale. Può essere merce, può essere un mezzo di scambio. Attraverso uno sguardo antropologico cerchiamo di dare una definizione del denaro
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Un comune cittadino, indotto ad abbandonare il contante a favore di bancomat e carte di credito, può legittimamente chiedersi che cosa sia il denaro che sta adoperando. In realtà, però, non è necessario assistere al passaggio al denaro elettronico per chiedersi che cosa sia la moneta. Da decenni, infatti, gli antropologi che studiano le popolazioni “primitive” cercano di spiegarlo, con fortune alterne.

 

Una premessa d’obbligo

Quando gli antropologi analizzano i caratteri di società lontane da quelle occidentali sanno che la cautela è d’obbligo. Spesso l’uomo occidentale presuppone che, per esempio in Africa, prima della colonizzazione, esistesse una società egualitaria, basata su assemblee di villaggio, legata in modo indissolubile alle tradizioni ed estranea al cambiamento. Come rileva l’antropologo Jean-Pierre Olivier de Sardan (in Antropologia e sviluppo, Raffaello Cortina editore, Milano 2008), si tratta solo di stereotipi, che nascondono realtà più complesse nelle quali esistono dinamiche sociali di apertura al cambiamento, contrasti tra classi e gruppi ecc. sia autoctone sia indotte in vario modo dall’arrivo dei colonizzatori.

Questa considerazione vale per ogni branca dell’antropologia e quindi anche per l’antropologia economica, che studia quell’ambito che siamo soliti definire “economia” nelle società non occidentali. Inoltre, l’antropologia economica sa di studiare economie che non sono “incontaminate”, ma influenzate dall’economia delle potenze occidentali e che quindi stanno spesso perdendo i loro caratteri originari.

 

Due modi di guardare alla moneta

Queste premesse rendono più semplice capire il fatto che l’oggetto “moneta” non è presente in tutte le comunità umane e che comunque i suoi caratteri sono parzialmente oscuri anche a chi, come noi, ne fa un uso quotidiano.

Spiega infatti l'antropologo Harold Schneider (Antropologia economica, Il Mulino, Bologna 1974) che la moneta può essere intesa in vari modi. Considerando quanto avviene in società primitive, dove gli scambi di beni sono limitati, alcuni antropologi concludono che qui non esiste una vera e propria moneta. Gli oggetti usati come monete non sono adatti a scambi generalizzati: il sale, le capre, gli scalpi di picchi ecc. non sono oggetti abbondanti e facili da maneggiare come le monete. Inoltre, la loro funzione non è quella di consentire l'acquisto di ogni cosa, ma solo di alcuni beni. In poche parole, essi non sono monete, ma buoni o coupon che consentono l'acquisto di alcuni oggetti e non di tutti.

Per altri studiosi, la situazione è invece molto più complicata. Una moneta non è solo un mezzo di scambio, ma anche un'unità di conto (quale che sia la forma in cui si presenta). Come unità di conto, la moneta è uno strumento di calcolo e potrebbe, paradossalmente, essere solo teorica e non esistere nella realtà materiale. È il caso della società africana dei Turu, dove il valore di una sposa viene conteggiato in giovenche, anche se sarà pagato in capre, sulla base di un'equivalenza tra un certo numero di giovenche e un certo numero di capre.

 

Non esiste una moneta in sé

L’esempio precedente è utile per introdurre un’altra riflessione. Lo studioso di economia Karl Polanyi (in un saggio riportato in Economie primitive, arcaiche e moderne. Ricerca storica e antropologia economica, Einaudi, Torino 1980) spiega che non esiste una moneta in sé, ma che ogni cosa, in un campo appropriato, può fungere da moneta. La moneta è un segno, ma ciò non significa che essa debba per forza essere astratta, come la carta moneta. Un segno, infatti, è materiale e visivo e trae la sua forza significativa dal contesto in cui è usato: non richiede quindi un alto grado di astrazione per essere effettivamente una moneta.

È la nostra società ad avere fatto della moneta il metro per misurare la ricchezza. Nella società antiche la ricchezza che dà prestigio era misurata in schiavi, cavalli e bestiame (cosa che ovviamente genera un dubbio: questi beni avevano un prezzo fisso o variabile?).

Cliccando qui trovi una sintetica biografia di Polanyi (da Treccani)

 

I cauri

Le nostre banconote stanno al posto di unità metalliche e un tempo di riserve di oro. In altre società si scelgono mezzi diversi, come le conchiglie cauri, in uso nel Dahomey (oggi il Benin, uno Stato dell’Africa occidentale). Queste conchiglie offrivano molti vantaggi rispetto alle monete d’oro: erano già in natura distinte in unità, erano usate per scambi commerciali di piccolo valore, non potevano essere contraffatte e segnalavano con il loro volume la ricchezza di chi le possedeva. Solo le pressioni dell’economia internazionale, conclude Polanyi, ne decretarono la fine.

Il cauri, alla fine, è diventato un’immagine stilizzata su alcune monete, come puoi vedere qui (da Panorama Numismatico)

 

Dalla moneta ai bit

Come spesso accade, riflettere sugli usi lontani dai nostri ci aiuta a comprendere la nostra realtà: il denaro non è necessariamente quello a cui siamo abituati. Comprendere la sua complessa natura di mezzo di scambio e di misura, ma anche di merce, e la sua autonomia rispetto a materie utili nell’immediato (mucche, capre ecc.) ci consente di predisporci meglio a comprendere anche la nostra realtà economica attuale, nella quale il denaro sia sta progressivamente trasformando da oggetto a una sequenza di bit sul nostro conto corrente, come spiega il sociologo Luciano Gallino (in Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011).

Crediti immagini:

Apertura: "Money", di Moyan Brenn (flickr)

Box: disegno di F.S.Church (Wikipedia)

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