Parlare di cultura scientifica e cultura umanistica implica un tema molto caro all’antropologia: la cultura. L’antropologia, infatti, studia le culture elaborate dalle comunità umane, le loro divisioni interne, i rapporti tra una cultura e un’altra. Una cultura è quindi un oggetto che l’antropologia “costruisce”, prima semplificando e analizzando alcuni elementi di una comunità e poi, una volta giunta a qualche conclusione ritenuta sicura, cercando di reintrodurre la complessità. Ma l’antropologia, che studia le culture, a quale cultura appartiene?
Scienze, ma umane
Fino alla rivoluzione scientifica, una cultura scientifica vera e propria, contrapposta a quella umanistica, non esisteva ancora. E anche dopo, per qualche secolo, ci sono stati intellettuali, come Cartesio o Leibniz che sono appartenuti a entrambi gli schiarimenti. Ma quando le scienze umane hanno iniziato a svilupparsi, hanno dovuto affrontare il problema della loro collocazione: nate spesso come costole della filosofia, esse hanno cercato di darsi uno statuto scientifico e di mutuare i loro metodi dalle scienze naturali: un fenomeno molto evidente nel caso della sociologia, che ha elaborato strumenti il più possibili oggettivi, come i questionari, e si affida spesso a elaborazioni statistiche. Per l’antropologia, però, il percorso è stato più complicato che per la sociologia.
Lévi-Strauss e le aspirazioni dell’antropologia
Sulla strana natura dell’antropologia ha ragionato a lungo Claude Lévi-Strauss, uno dei grandi padri della disciplina. Le sue riflessioni sono esposte in una conferenza tenuta al College de France nel 1960 e possono essere riassunte nel seguente passaggio: “l’antropologia appartiene alle scienze umane come il suo nome proclama a sufficienza; ma, se si rassegna a stare in purgatorio tra le scienze sociali, è solo perché non dispera, nell’ora del giudizio finale, di risvegliarsi tra le scienze naturali” (Claude Lévi-Strauss, Elogio dell’antropologia, Einaudi, Torino 2008). Parole che descrivono con chiarezza la tensione interna dell’antropologia: o almeno, la tensione dell’antropologia all’epoca di Lévi-Strauss.
L’antropologia ha alle sue spalle una solida appartenenza alla cultura umanistica: le prime forme di antropologia si trovano nei reportages di viaggiatori; riflessioni sula valore della cultura e sulla relatività dei valori e delle abitudini si trovano in opere come i Saggi di un pensatore francese del XVI secolo come Montaigne. A rendere ancora più forte tale appartenenza è il compito stesso che Lévi-Strauss assegna all’antropologia: essere una disciplina di segni e di simboli, come la linguistica. Ma l’antropologia, ovviamente, non si occupa solo di segni verbali, ma anche di simboli religiosi, politici ecc. e quindi anche degli oggetti che fungono da simboli, dei riti nei cui vengono usati, dei modi di interpretarli e di trasmetterli. In passato, nota Lévi-Strauss, un grande antropologo come Alfred Radcliffe-Brown aveva inteso l’antropologia come una scienza induttiva, che dall’osservazione dei fatti sociali e dei comportamenti intendeva ricavare leggi generali. Ma questa aspirazione a una piena adesione ai modelli epistemologici della cultura scientifica, al paradiso delle scienze empiriche, spiega Lévi-Strauss, condanna l’antropologia a perdere di vista gli uomini concreti e i comportamenti che essi mettono in atto giorno dopo giorno.
Delle scienze naturali l’antropologia ha il rigore e il riferimento a strutture su cui si collocano i segni e simboli, ossia un insieme di regole grazie alle quali i segni si implicano o si escludono. Della cultura umanistica, argomenta Lévi-Strauss, l’antropologia coltiva invece il dubbio filosofico, che sottopone abitudini e idee al confronto con altre abitudini e idee, e ne mette in luce sia i caratteri distintivi sia il valore relativo.
Scienza o sguardo?
Per quanto affascinante, la prospettiva di Levi-Strauss è stata ampiamente criticata, perché, come ricorda Claude Rivière (Introduzione all’antropologia, Il Mulino, Bologna 1998), è eccessivamente astratta, poco capace di giustificare i cambiamenti culturali, e troppo poco attenta alle componenti individuali e ai fattori circostanziali che possono incidere sulle strutture culturali. In effetti, molti sviluppi recenti dell’antropologia tendono a studiare i fenomeni del mondo contemporaneo e a trovare l’aspetto culturale in ogni pratica o esperienza di vita, senza tentare grandi generalizzazioni. In tal modo, la disciplina è sospinta verso la dimensione umanistica, ma tenendo ferme le sue specificità, ossia quelle di uno studio sul campo, coinvolgente e metodico, di un’umanità tanto sfaccettata e in continuo mutamento, quanto sempre una sola. Hanno forse ragione allora quegli antropologi che, come Marc Augé, parlano di “sguardo” antropologico, più che di scienza, e lo considerano lo strumento adatto per cogliere gli aspetti di un mondo in rapido cambiamento, nel quale dimensione locale e dimensione globale si mescolano tra loro e nel quale le barriere che dividono tra loro le culture sono ogni giorno attraversate da flussi di immagini, informazioni, persone e capitali. (Marc Augé – Jean-Paul Colleyn, L’antropologia del mondo contemporaneo, Eleuthera, Milano 2004)
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