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Le coordinate antropologiche del cibo
L'antropologia fornisce alcune coordinate per comprendere il consumo di certi cibi. Per esempio, abbiamo il tabù di consumare animali che vivono vicini a noi (come il cane o il gatto di casa), perché in qualche modo si identificano con il sé di chi li alleva, li ospita e li cura. Per converso, una cultura non considera mangiabili quelle specie che avverte come troppo distanti dall'uomo. Nella nostra cultura è il caso degli insetti e dei serpenti, che fanno invece parte della dieta di altri popoli. Secoli fa la stessa sorte era toccata alle patate, che in alcune parti d'Europa erano considerate “cibo per animali”.
Perciò, tornando all'esempio iniziale, nel pranzo di Natale del nostro amico ci sembra fuori luogo il consumo di alghe, un cibo tipico dell'Oriente.
Inoltre, la cultura stabilisce l'ordine e gli abbinamenti: così siamo abituati a una scansione primo, secondo, contorno, frutta e dolce e distinguiamo la colazione da altri pasti (in altri paesi, vigono convenzioni diverse: in Corea, per esempio, i tre pasti principali prevedono lo stesso tipo di piatti). Ecco spiegato l'errore del nostro amico, che ci ha somministrato il panettone come primo piatto.
Il cibo svolge inoltre una funzione rituale: ogni festa è marcata da un cibo speciale. Di conseguenza, un pranzo di Natale che si conclude con l'uovo di Pasqua appare un'assurdità (o una deliberata provocazione).
Il puro e l'impuro
L'antropologo dell'alimentazione Marino Niola (in Homo dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari, il Mulino, Bologna 2015) ha applicato alcune categorie tipiche dell'antropologia alle attuali scelte alimentari. Vediamo un esempio.
Una delle categorie tradizionali dell'antropologia è la distinzione tra puro e impuro. Si tratta di una partizione radicale del mondo, che stabilisce un confine tra ciò che si può o non fare e anche tra ciò che si può mangiare o non mangiare. Questa distinzione è tutt'ora viva: per esempio, la distinzione tra cibi kasher e cibi alal, cioè puri, contrapposti a cibi impuri è praticata dalla religione ebraica e islamica. Secondo Niola, lo schema puro/impuro è applicabile anche a più recenti scelte alimentari, come quella dei vegani, che rifiutano il cibo di origine animale. Nutrirsi solo di cibo vegetale stabilisce una nuove forma di opposizione tra purezze e impurità, anche se fondata su basi etiche e non religiose, come avviene tradizionalmente.
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Una simile dinamica si ripropone nella contrapposizione tra cibo naturale e cibo industriale. Il cibo tradizionale, prodotto vicino a casa, senza metodi industriali appare più sano di quello passato attraverso una macchina e una catena della grande distribuzione. È un cibo considerato più puro, nel senso che è meno contaminato dalla lavorazione e più vicino alla sua origine.
Cibo e status sociale
Tra le molte funzioni culturali svolte dal cibo, vi è quella di segnalare lo status sociale. Ma l'indicazione cambia a seconda della società: per esempio, nel Medioevo i nobili mangiavo cibi che si trovano in alto, come gli uccelli, e i poveri cibi che nascono dalla terra, come le cipolle; nell'Ottocento le classi agiate organizzano banchetti sontuosi dalle portate elaborate.
Nella società dell'opulenza, cioè la nostra, il cibo resta un tratto distintivo, ma con un profondo cambiamento: l'alimentazione misurata e sana è riservata ai ricchi, quella inadeguata e grassa ai poveri. Un corpo magro è oggi considerato maggior indice di salute rispetto a un corpo grasso. In altre parole, quando si passa dalla società della povertà a quella dell'abbondanza, grasso e magro mantengono la loro funzione simbolica, ma il loro valore si rovescia.
Crediti immagini:
Apertura: "KORAIL_Gangjin_Gun_05", Republic of Korea (flickr)
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Box: "77. Chorros enramados 2011", di José Serra (flickr)
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