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Miseria e nobiltà, di Mario Mattoli (Italia 1954)
Non c’è Pulcinella, ma è presente, dall’inizio alla fine, il tormentone numero uno della più popolare maschera napoletana: la fame! La commedia di Scarpetta ruota interamente attorno all’atavica mancanza di cibo, al suo desiderio spasmodico: la miseria è una tavola vuota, la nobiltà un desco ricco di ogni ben di Dio. L’impianto del film è strettamente teatrale, tanto che all’inizio vediamo alcuni spettatori seduti in un palco, in attesa che si alzi il sipario. “Entriamo” letteralmente in palcoscenico, ci aggiriamo tra scenografie chiaramente ricostruite e dipinte. Eppure, bastano poche battute per cominciare ad assaporare la vita vera del popolo, le diuturne diatribe dei poveri disgraziati costretti dalla povertà a convivere sotto lo stesso tetto. Tutti, dal primo all’ultimo (sempre con Totò in pole position, non ci possono essere dubbi) guidati nelle loro azioni da un unico imperativo categorico: trovare il modo di procurarsi qualcosa da mettere sotto i denti. Nella prima parte le due scene clou, diventate giustamente tra le più celebri di tutto il cinema italiano, sono quelle del “cappotto di Napoleone” e della pantagruelica mangiata di spaghetti ballando la tarantella. E nella seconda parte, quando i poveri si travestono da nobili ed entrano nella casa del ricco parvenu, ecco di nuovo affacciarsi il motivo del cibo. Finalmente si mangia, anzi ci si strafoga, senza più badare alla forma. Miseria e nobiltà gioca con gli stereotipi, ammicca, si fa beffe di tutto. Ma allo stesso tempo non prende in giro i poveri, non li mette alla berlina: anzi, fa di loro dei simpatici poveri cristi, dei meschinelli in grado di sopravvivere con ogni mezzo. Con il miraggio eterno delle salsicce, del vino di Gragnano, degli spaghetti al pomodoro e di un minimo di serenità famigliare.
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Clicca qui per leggere un articolo su Totò tratto dal sito "Parole in fuga" che ripropone un articolo uscito sulla Rivista Orizzonti
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Il pranzo di Babette, di Gabriel Axel (Danimarca 1987)
Mamma mia, che musi lunghi… Lo sperduto villaggio danese in cui si svolge la vicenda, nella seconda metà dell’800, è abitato da persone che hanno del tutto perduto il dono del sorriso. Non si vive, si sopravvive tra il freddo, l’umidità e la nebbia, sotto gli occhi severissimi di un Dio che non ammette sgarri. È il duro mondo del Nord, in cui piomba come un angelo dal cielo una donna in arrivo dalla lontana Parigi. La capitale francese è appena stata scossa dai moti rivoluzionari del 1871, la repressione è stata terribili, con decine di migliaia di morti e deportati. Babette vi ha perso il figlio e il marito, e nella sua fuga senza fine si è ritrovata nella remota Danimarca. Chiede e riceve asilo presso due anziane sorelle, anche loro come tutti gli altri concittadini timorose di Dio e chiuse in un muto riserbo. Impossibile scaldare quei cuori, si direbbe. Ma – eccolo il consueto “ma” che accende l’interesse delle storie, di ogni storia – non hanno ancora fatto i conti con l’abilità in cucina di Babette. A Parigi, la donna era un’abilissima cuoca, qualità che ora tiene nascosta. Fino a quando, anni dopo, non le arriva la notizia di una consistente vincita alla lotteria. Con quei soldi preparerà una cena superlativa, capace di risvegliare la voglia di vivere, anche in quei vecchi musoni. Il buon cibo, l’abilità nel prepararlo, la gioiosa capacità di presentarlo in modo superbo. La letteratura suggerisce (il film è tratto dal bellissimo racconto omonimo di Karen Blixen), il cinema, quando è buon cinema, mostra. E la tavola imbandita si allunga davanti ai nostri occhi, invitandoci alla festa, assolutamente non peccaminosa, dei sensi trionfanti.
Una curiosità: Il pranzo di Babette è il film preferito di Papa Francesco.
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Chocolat, di Lasse Hallstrom (Gran Bretagna – Usa 2000)
Lo schema si ripete: nel paesello tristanzuolo arriva una fata in grado di preparare deliziosi manicaretti. E tutti diventano, finalmente!, felici e contenti. Non più la cupa Danimarca di fine '800, ma un delizioso villaggio della Borgogna negli anni 50 del secolo scorso. La natura è deliziosa, il clima non particolarmente cattivo, le case perlopiù deliziose. Eppure, anche qui come nel profondo Nord del film di Axel, le persone sono tutt’altro che felici. Anzi, manca del tutto la gioia di vivere, incatenata da una concezione bigotta delle pratiche religiose. Il sindaco vorrebbe che tutto rimanesse sempre uguale, il parroco figuriamoci. Che scandalo, dunque, quando la donna venuta da altrove affitta un negozietto e vi apre, addirittura, una cioccolateria. E non è tutto: lo fa proprio durante la Quaresima, ovvero nel momento sicuramente meno opportuno dell’anno. Ma, come con Babette, il “ma” si presenta allorché le signore del paese iniziano ad assaggiare i cioccolatini, specie quelli al peperoncino… Non un’unica cena che risveglia i sensi, dunque, ma un cibo particolare, il “cibo degli dei” che ha nome cioccolato, in tutte le sue possibili variazioni, con tutte le possibili combinazioni di sapore. Per la bella cioccolataia è un vero e proprio trionfo, la tristezza lascia al posto alla gioia, l’intolleranza all’apertura mentale. Forse per un po’ di cioccolato, anche se eccelso, è un po’ troppo. Ma, questa volta il “ma” lo mettiamo noi, dietro il film non c’è, questa volta, un racconto di Karen Blixen.
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Piovono polpette, di Phil Lord e Chris Miller (Usa 2009)
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Crediti immagini
Apertura: screenshot del film Lo spaventapasseri
Box: locandina del film Piovono polpette

