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Nuovo Cinema Paini

Cinema e muro

Una sfida: ecco che cos'è il "muro" per il cinema. Un ostacolo da superare, una difficoltà da vincere, un'impresa da compiere. Senza muri non c'è né storia né avventura. Ma l'happy end dei tempi d'oro, purtroppo, non è più una certezza...

Gli ostacoli non fanno paura al cinema, anzi: lo stimolano, gli danno forza vitale. Un muro? Si può, si deve superare. Il grande schermo ha bisogno di eroi/eroine che non si fanno intimorire da nulla e da nessuno, portando con loro lo spettatore verso mete a prima vista irraggiungibili. Muri reali, da quello di Berlino (“il” Muro) alla lunga barriera che separa Israele dai Territori Palestinesi; muri psicologici, muri razziali, muri creati dalle guerre e dalle migrazioni. Il cinema li affronta tutti, utilizzando tutti i toni, dal farsesco al drammatico, attraversando tutti i generi, dalla commedia al bellico.  

Uno, due, tre!, di Billy Wilder, Usa 1961

Berlino, 1961. Da una parte la città occidentale, ricca e sfavillante di luci; dall’altra la plumbea atmosfera dell’Est, sotto il tallone del “socialismo reale”. C’è ben poco da ridere, eppure Billy Wilder, inarrivabile maestro della commedia, riesce a costruire una storia dalla comicità sfrenata. Tutto ha inizio quando la giovane figlia del capo mondiale della Coca Cola arriva in città per quello che dovrebbe essere un breve e innocuo soggiorno. Viene accolta dal dirigente locale della società, anche lui di nazionalità americana, ansioso di fare carriera e di trasferirsi con un incarico ancora più importante a Londra. Dunque, è imperativo fare bella figura con la ragazza (e, soprattutto, con suo padre…). Ma la giovane è decisamente ingestibile: dopo essersi recata ripetutamente a Berlino Est, ne torna addirittura sposata (e incinta). E il peggio è che il marito è un ragazzo comunista, deciso a portare la novella moglie a Mosca! Come fare per uscire dal vicolo cieco? La vicenda assume l’andamento di una farsa, con un incredibile susseguirsi di buffissimi equivoci, folli inseguimenti, situazioni assurde, fino ovviamente allo scioglimento finale. Girato in uno dei momenti più cupi e pericolosi della Guerra Fredda (il durissimo contrasto tra Ovest capitalista ed Est comunista) il film “inciampò” nella storia reale: proprio nell’estate del ’61, infatti, venne costruito il Muro di Berlino, destinato a essere travolto dalla ribellione popolare solo nel 1989. Si ride, e tanto, ma la tragedia è davvero dietro l’angolo.

Il giardino di limoni, di Eran Riklis, Israele, Germania, Francia 2008

Che valore può avere un piccolo spiazzo di terreno coltivato a limoni? Commercialmente molto poco, senz’altro. Ma per la sua proprietaria Salma, una donna palestinese di mezz’età, è la cosa più importante che le è rimasta. Di proprietà della sua famiglia da generazioni, quel terreno e quegli alberi di limone la tengono legata al passato, alle tradizioni e ai ricordi dei suoi cari. E a chi mai può dar fastidio una piccola piantagione di agrumi? Il fatto è che proprio lì, a pochi passi, è venuto ad abitare con la sua famiglia il ministro della Difesa israeliano. Gli alberi possono fornire un facile nascondiglio a chi volesse compiere un attacco terroristico contro il politico. Vanno dunque abbattuti, subito, e l’esercito comunica a Selma la tristissima notizia. Ci sarà un risarcimento, è ovvio, ma che cosa possono significare un po’ di soldi in confronto con l’importanza affettiva di quel giardino? Due logiche, due mondi a confronto, che rispecchiano il muro invalicabile (simbolico e reale) che divide da oltre mezzo secolo israeliani e palestinesi. Inizia una lunga lotta legale, con la donna che si rivolge a un giovane, combattivo avvocato, arrivando fino alla Corte Suprema. Troverà insospettata comprensione nella moglie del ministro, capace infine di comprendere la profondità del dramma vissuto dalla sua vicina. Si guarderanno, almeno, negli occhi: un primo, indispensabile, timidissimo passo sulla strada verso il reciproco riconoscimento.

Tangerines-Mandarini, di Zaza Urushadze, Estonia, 2014

Dai limoni ai mandarini. Muri che sembravano caduti per sempre e che invece si rialzano, appena cambia il vento della storia. Inizio anni 90 del secolo scorso, ai confini dell’impero sovietico appena dissolto. Su un fazzoletto di terra nel remoto Caucaso si combattono soldati georgiani e milizia della Repubblica separatista dell’Abcasia, sostenute da mercenari ceceni. Hanno tutti perso la testa, divisi da odi tribali secolari riemersi dal passato. C’è anche ciò che rimane di una piccola comunità estone, insediata in quei luoghi diversi decenni prima: solo gli anziani Ivo e Margus, legati per sempre alla loro terra (le rispettive famiglie sono già fuggite da tempo). Ma perché i due non hanno ancora fatto le valigie? Le ragioni di Ivo le conosceremo solo alla fine; intanto aiuta il suo amico, deciso a raccogliere per l’ultima volta i magnifici mandarini del suo amatissimo agrumeto. Intanto, il conflitto si fa sempre più vicino, materializzandosi nelle figure di due feriti, un ceceno e un georgiano, salvati e curati dai due estoni. Con la sua ferrea calma, con l’autorità di un antico patriarca, Ivo tiene sotto lo stesso tetto i due arcinemici, facendosi dare la loro parola che, almeno finché saranno suoi ospiti, non tenteranno di uccidersi a vicenda. Perché, all’interno dei muri di quella casa, il muro dell’odio non dovrà mai sorgere.

Enclave, di Goran Radovanovic, Serbia, Germania, 2015

L’ex Jugoslavia adesso. Un’enclave serba in Kosovo, una manciata di cristiani ortodossi isolati tra gli albanesi musulmani. Chiese e case distrutte, le truppe delle Nazioni Unite interposte tra le due comunità nemiche. Tra i loro compiti anche quello di accompagnare a scuola ogni mattina Nenad, un bambino serbo che si ritrova in classe da solo, nella zona musulmana. Un bambino sensibile e intelligente, in confidenza solo con il nonno, con il quale gioca infinite partite a domino. All’andata e al ritorno il blindato dell’Onu che lo trasporta è oggetto di lanci di sassi da parte dei suoi coetanei appartenenti all’altra comunità, da lui osservati, impassibile, dai finestrini simili a feritoie di un castello medioevale. È quasi un assurdo gioco: tirano sassi all’autoblindo, e intanto sognano di salirci sopra, giusto per fare un giretto gratis. Vuoi vedere che, una volta rotto il ghiaccio, può nascere una complicità, una sorta di amicizia (negata agli adulti)? Per i piccoli, ci dice il regista, tutto può essere possibile, persino nel Kosovo mai così diviso come dopo la fine della Jugoslavia. Anche Nenad sa che le cose, chissà ancora per quanto, non cambieranno. I suoi occhi, la sua tenerezza, la sua voglia di giocare e vivere fanno comunque sperare nel miracolo.

L’altro volto della speranza, di Aki Kaurismäki, Finlandia, 2017

Chi aiuterà Khaled, fuggito dalla Siria in guerra? Ha attraversato avventurosamente l’Europa, si è imbarcato clandestino su una nave polacca carica di carbone, e ora è arrivato a Helsinki. Stanco, affamato, sporco. Durante la fuga ha perso contato con la sorella Miriam, e inoltre corre il rischio continuo di imbattersi in squadracce di razzisti. La salvezza (almeno temporanea) viene da uno strano personaggio, un commesso viaggiatore finlandese che un bel giorno ha chiuso con il passato, ha vinto un bel gruzzolo a carte e si è deciso a rilevare un ristorante. Nuova vita, nuovi soci, affari però sempre abbastanza grami. È lui a scovare Khaled, nascosto tra i sacchi dei rifiuti del suo locale. Non lo caccia, anzi gli offre un lavoro. E lo aiuta anche per ottenere falsi documenti e ad avere notizie della sorella Miriam, da cui si è separato accidentalmente durante la fuga. Il lieto fine è dunque dietro l’angolo? Kaurismäki ama le favole contemporanee, ma non è per nulla un ingenuo. Sa che le persone come Khaled e la sorella sono sempre a rischio: difficoltà burocratiche, il “muro” dei pregiudizi, la violenza delle bande organizzate. Il suo è uno sguardo insieme dolce e assolutamente disincantato. Pochi ce la fanno, molti cadono durante il percorso. E chi il “muro” ce l’ha dentro di sé, ben difficilmente riesce a superarlo.

First Man – Il primo uomo, di Damien Chazelle, Usa 2018

Un “muro” largo 300mila chilometri. È la distanza che separa la Luna dalla Terra. Piccola, se considerata con gli standard dell’Universo; immensa, all’apparenza invalicabile dal punto di vista dell’umanità. La sfida temeraria per valicare questo muro inizia tra la fine degli anni 50 e l’inizio dei 60 del secolo scorso. Nel pieno della Guerra Fredda (vedi Muro di Berlino) Stati Uniti e Unione Sovietica si sfidano allo spasimo nella corsa verso lo spazio. In un primo tempo i sovietici sono avanti in tutto: primi a lanciare un satellite in orbita, primi a mandare un uomo nello spazio. Un altro muro, quello tra America e Russia, che sembra allargarsi sempre di più. Ma la Nasa, l’ente spaziale americano, è deciso a vincere la corsa verso la Luna. Razzi sempre più potenti, tentativi sempre più audaci, tra esaltanti vittorie e terribili sconfitte. Tutto andrebbe però in fumo se non ci fossero a disposizione persone eccezionali, gli astronauti. Su uno di loro, Neil Armstrong, si concentra tutto il film. È il più famoso del gruppo, perché è lui il predestinato a mettere il piede per primo sul nostro satellite. Seguiamo otto anni della sua vita, dai voli sperimentali sugli aerei supersonici alle prime, pericolosissime missioni nello spazio. Un uomo eccezionale, ma non un uomo d’acciaio. Drammi personali (la morte della giovanissima figlia), i dubbi, le passioni. Anche lui di fronte ai suoi “muri”. Superati, grazie alla sua tempra e al lavoro di un agguerritissimo gruppo, nonostante un’incredibile quantità di ostacoli. First Man, il primo uomo. Aspettando, ora, Marte…

Crediti immagini: Peter Zurek - Shutterstock

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