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Diverse prospettive. Montaigne tra antichità e Nuovo Mondo

Quella eurocentrica è a tutti gli effetti la prospettiva su cui si è per moltissimo tempo basato lo sguardo occidentale al mondo, ma è l’unica possibile? Beatrice Collina, a partire dalla “scoperta” dell’America si sofferma sulle idee di prospettiva e diversità.

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Il 1492 è un anno spartiacque nella storia del mondo moderno sia dalla prospettiva dell’Europa sia dell’estremo Occidente, che ha visto spazzare via dai colonizzatori culture secolari nell’arco di pochissimi anni. La “scoperta” dell’America, come è stato convenzionalmente definito questo evento da una prospettiva eurocentrica, porta con sé non solo entusiasmo e nuovi appetiti economici, ma anche un profondo ripensamento del ruolo del Vecchio Mondo e, ancora di più, del ruolo e della natura dell’essere umano. La consapevolezza di una umanità “diversa” dall’unica che si credeva possibile mette in crisi la convinzione della propria centralità, inserendosi in una fase di passaggio per un’Europa sospesa tra la lunga coda del pensiero medievale e la spinta umanista e rinascimentale.

Meno di un secolo dopo, a partire dal 1571, il filosofo francese Michel de Montaigne (1533-1599) inizia a scrivere i Saggi, l’opera monumentale che lo ha reso celebre e tra i più importanti intellettuali del suo tempo. Si tratta di un lavoro originale e innovativo tanto da un punto di vista letterario quanto filosofico, in cui vengono affrontate in modo intimistico molteplici tematiche con un approccio scettico-relativista recuperato dalle tradizioni della classicità. Più volte Montaigne torna sulla vicenda americana, ancora recente in quegli anni, con un acume e un senso critico che lo contraddistinguono rispetto ai suoi contemporanei.

Si possono individuare in Montaigne almeno due livelli di analisi. Il primo riguarda l’essere umano, o meglio gli esseri umani, perché la vicenda americana dimostra che non esiste una sola umanità o quanto meno che l’uomo europeo non è unico così come non è unico il suo mondo. L’esistenza di questi “selvaggi” o “barbari” aveva gettato già un certo panico tra i ferventi religiosi dell’epoca che si trovarono a dover spiegare come fosse possibile l’esistenza di questi popoli in contrasto con il racconto biblico della monogenesi dell’umanità. Nascevano così teorie di antiche navigazioni, recuperando le ipotesi di un continente intermedio tra Europa e America (l’Atlantide di cui parlava Platone) o di abili navigatori Cartaginesi che avrebbero raggiunto nel lontano passato una grande e fertile isola (d’accordo con Aristotele).

L’esistenza di universi culturali e sociali tanto diversi da quello europeo fornisce a Montaigne ulteriore materiale per difendere la posizione del cosiddetto relativismo etico. Nel commentare lo stile di vita delle genti americane, in particolare nel saggio Dei cannibali, il filosofo afferma infatti con decisione: «Io credo che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio […]: se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi». Non vi è tuttavia solo l’assunzione di una prospettiva decentrata, ma si affaccia già in Montaigne un argomento che ritroveremo più avanti in periodo illuminista con altri pensatori, primo fra tutti Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), ovvero l’idea che quei popoli, lontani dalla civiltà del Vecchio Mondo, siano in realtà l’esempio di una umanità ancora vicina alle più vere e semplici virtù originarie, non ancora corrotta da usi e costumi superflui e dannosamente frivoli. Nasce qui il mito del “buon selvaggio” che pure reca in sé uno sguardo semplicistico se non paternalistico.

L’acume di Montaigne si manifesta anche in un secondo livello di critica, ovvero nell’essere tra le prime voci che si scagliano contro la conquista americana. Immaginando un contesto già moderno (alcuni critici sostengono che il processo di globalizzazione inizi proprio in questo periodo storico), con traffici sempre più sviluppati e un inedito flusso di notizie, si deve però tenere a mente che le informazioni che arrivavano dal Nuovo Mondo dovevano avere una diffusione più lenta e frammentaria di quanto sarebbe avvenuto in epoche successive. È passato meno di un secolo dall’arrivo degli Europei nel continente americano, si tratta quindi di un evento ancora relativamente recente, difficile perciò da leggere e interpretare. Eppure Montaigne è già in grado di ribaltare la narrazione positiva e trionfalista di questa “impresa”. A questo riguardo, è significativo il saggio Dei cocchi (o, in altre traduzioni, Delle carrozze), che a dispetto di un titolo forse poco accattivante ed esplicativo, rappresenta di fatto una riflessione sulla crudeltà umana. Scrive il filosofo, commentando in particolare i comportamenti dei Conquistadores nei confronti dei nativi: «[…] ci siamo serviti della loro ignoranza e inesperienza per indurli più facilmente al tradimento, alla lussuria, alla cupidigia e a ogni sorta di inumanità e di crudeltà, sull’esempio e sul modello dei nostri costumi. […] Tante città rase al suolo, tante popolazioni sterminate, tanti milioni di uomini passati a fil di spada, e la più ricca e bella parte del mondo sconvolta per il commercio delle perle e del pepe: sporche vittorie».

Montaigne è un indiscusso punto di riferimento del pensiero cinquecentesco, la sua capacità di analisi lucida e profonda ne fa un unicuum. Tuttavia, egli rimane un uomo perfettamente calato nel suo tempo e la sua stessa vicenda intellettuale restituisce la complessità dell’epoca. L’atteggiamento scettico e relativista di Montaigne si inserisce in un più vasto orizzonte di recupero di scuole e tradizioni di pensiero dell’antichità, che corre in parallelo con la scoperta del Nuovo Mondo. Il capovolgimento delle certezze nel Cinquecento viene tanto dal presente quanto dal passato. In particolare, lo scetticismo antico entra nel mondo rinascimentale attraverso tre fonti: le opere scettiche di Cicerone, le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio e soprattutto i testi di Sesto Empirico.

Sesto Empirico è stato un filosofo e medico vissuto tra il II e il III secolo d.C., di cui ci sono arrivate pochissime notizie, sebbene la sua presenza sia attestata tra Roma, Atene e Alessandria d’Egitto. Pur non essendo considerato un pensatore originale, è grazie al corpus delle sue opere che si è potuto conoscere e ricostruire la tradizione dello scetticismo antico (o pirroniano, dal fondatore Pirrone di Elide, attivo tra il IV e il III secolo a.C.). Per circostanze fortuite, i manoscritti greci di Sesto Empirico (tra cui gli Schizzi Pirroniani) furono riscoperti ed entrarono dapprima in Italia per poi diffondersi in Europa. La traduzione in latino di queste opere e la loro successiva pubblicazione dovuta al famoso tipografo francese del Rinascimento Henri Estienne nel 1562 ne permisero la conoscenza su vasta scala. Fulcro della filosofia pirroniana è la convinzione che sia possibile trovare tanto argomenti a favore quanto argomenti contrari per qualsiasi tesi.

Montaigne però non è solo uno scettico, è anche un credente cattolico convinto. Due aspetti che coesistono in modo naturale nel suo pensiero e quasi si sostengono a vicenda. Questa convivenza può apparire contraddittoria ai nostri occhi, ma non lo era in un mondo come quello del Cinquecento, che raccoglieva l’eredità delle tradizioni medievali e in cui si andavano a innestare e consolidare i caratteri della modernità. Ed è così che per Montaigne solo le cose che vengono da Dio hanno marchio di verità, mentre la ragione umana non è in grado di conoscere e comprendere la realtà fino in fondo. In qualsiasi ambito delle questioni umane, sostiene Montaigne, è impossibile per filosofi e scienziati giungere a conclusioni chiare e definitive. Da qui il dubbio universale come esercizio imprescindibile e continuo, capace di relativizzare qualsiasi prospettiva.


Crediti immagini: John Vanderlyn, L’arrivo di Colombo nel Nuovo Mondo – immagine: Architect of the Capitol, caricata su Wikipedia

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